Chef tutt'altro che Master
di
mare_di_beaufort
genere
comici
La prima volta che la vidi sarà stato il 1997. A metà anno, più o meno ad Aprile ero da suo padre, Gilberto ed avevo la polizza sanitaria della famiglia da far sottoscrivere.
Da come ne parlava, il papà feci fatica ad intendere se si trattasse di un maschio oppure di una femmina.
Reclamava che gli portasse l’assegno: “Leo? Dove sei?”. E subito giù un’altra berciata : “Leo, portami ‘sto cazzo di libretto”.
‘Sti meridionali, mi dissi, con ‘sto vizio di accorciare ogni cosa. Di dare un nomignolo a tutti, al cane, ai figli, alla moto. Leo? Pensai. Leo, chi? Leonardo?
Invece dalle scale scese una tombolotta d’età indefinibile. Poteva avere dagli otto ai tredici anni e l’unica cosa di cui ero certo è che si trattasse di una femmina.
La prima impressione che mi diede fu quella di un cerchio quadrato.
Un cerchio dato che risultava un insieme di curve una sopra l’altra: aveva le gambe grosse, la vita grossa e le spalle, pure loro, grosse. Erano tutte grosse le sue cose, anzi era grossa lei. Non proprio grassa, paffuta forse, ecco, piena è l’aggettivo giusto e pure alta.
Un cerchio, dicevo ma quadrato. Gli spigoli che sotto stavano affogati dentro cotanta polpa, appena sopra il collo riaffioravano tutti. Mascella in rilievo, testa tipo una Fiat Qubo e pure i capelli ricci tagliati corti davano l’idea di una giovane donnina Michelin.
All’atto di sottoscriverla, la polizza sanitaria scopri il nome e la data di nascita: Eleonora Fusco, 13-01-1987
La provvigione fu più che soddisfacente ed il resto allora non aveva alcuna importanza
La incrociai di nuovo una decina d’anni dopo in piazza a Foligno. Un sabato mattina d’estate entrai al bar Centrale e chi ti vedo? La Leo, in carne ed ossa. Anzi tanta carne e tante ossa.
Ne avevo avuto saltuarie notizie da parte del padre, mio affezionato cliente. “E’ la mia dannazione ‘sta figlia”, diceva. “Se avesse ascoltato amme adesso starebbe sul Freccia Rossa a milleottocento euro al mese. Invece tiene la capa dura come le pigne verdi: ha voluto andare addietro a quel minchione di siciliano che si crede uno chef di ‘sto cazzo. La fa lavorare, non gli paga uno straccio di contributo eppoi se la ..”. La frase la mozzò lì ma si lasciò andare ad un gesto inequivocabile: pugno chiuso ed avambraccio a pompare verso il basso.
Accanto a lei, ad un tavolino del bar stava il suddetto siciliano che si credeva uno chef di ‘sto cazzo. La grande bellezza, lì sottotitolai in un amen. Alti più o meno uguali, massicci più o meno uguali parevano il lato oscuro del pianeta del sex appeal.
Mi fecero tornare in mente il corso con Zecchi che avevo seguito al terzo d’anno di Filosofia. Il titolo: l’estetica del brutto. Allora mi parve un sciocchezza, al limite una provocazione. L’estetica si occupa del bello e quindi che capperi c’entrava il brutto? Ci misi del tempo a farmi sedurre da Miss Piggy e svariate volte rotolarsi nel fango in compagnia di qualche porcella con la merda intorno mi ha fatto bollire il sangue più che scoparmi Venere in persona.
Ad ogni modo, lo ammetto il mio giudizio di allora è stato oltremodo sommario. Diciamo almeno che Leo s’era fatta crescere una testa di capelli ricci di tutto rispetto. Una cosa tipo Caparezza, insomma. Neri e lucidi gli arrivavano ben oltre la metà della schiena ed insieme ad una carnagione da geni casertani gli conferivano il fascino della vajassa in potenza. Una popolana ben nutrita che s’affaccia sul terrazzo a ritirare i panni, spettinata e scostumata. Ed intanto urla con le gambe nude e la vestaglia mezza sbottonata sul davanti. Una sellerona, insomma. Con i modi gentili dei tempi di mio papà si sarebbe parlato di donna procace, oggi di cavallona ed il genere piace, assai più di quello che ognuno sia disposto ad ammettere.
Ma non ero in grado di apprezzarlo, allora ero troppo influenzato dall’immagine che m’ero fatto un decennio prima. Il cazzo poi lo portavo a spasso da un’altra parte.
La vita, invece, mescola tutte le cose e capita che ogni tanto qualcosa ritorni.
Ore 18 di mercoledì scorso, sul display del mio cellulare apparve il 338-1813045, numero sconosciuto.
“Sì?”, risposi.
“Flavio Pellegrini?”, mi fecero.
“Purtroppo è Flavio, sì”, celiai
Risatina: “Sono Eleonora Fusco, si ricorda di me, vero?”
“Certo che sì, signorina Eleonora, la figlia bella di Gilberto, no?”
“Ho acquistato casa, mi serve la polizza. Può aiutarmi?”
“Eccerto” fu la risposta sintetica. Attorno c’erano i fuochi artificiali dell’assicuratore ossia i dollari della slot machine che ruotavano al posto delle pupille.
L’appuntamento fu a casa sua, per la sera successiva alle 19.30.
Mi presentai con la valigetta d’ordinanza e dentro avevo biro, proposta ed un quintale e mezzo di parole.
Quando si apri la porta mi vennero incontro un paio di infradito ed una zazzera da aborigena che sarebbe piaciuta a Gauguin. In mezzo stava un prendisole fiorato e dentro, a stento, la mia aspirante cliente. Mentre mi abbracciava ebbi la netta sensazione d’essere alla macelleria Cecchini a Panzano, c’era di tutto ed anche di più. Da farci un pasto da togliere la fame a Poldo Sbaffini. Altro che nouvelle cuisine, era roba forte, da festa della Pupporina&Tordello: un girello più che massiccio, nodini e costolette in abbondanza con proteine e grassi saturi da qualsiasi parte appoggiassi l’occhio o la mano.
Tutto da fare alla brace e servire salato alla scottadito.
Un tripudio di carne, insomma, ma con una sua qualche armonia. Aveva smarrito le sembianze da vacca frisona che ricordavo ed anche quell’espressione così sgraziata di chi guarda le cose senza nulla capire. Anzi dava l’impressine, come dire, di una figliola per lo meno vispa.
Se il corpo pareva un invito ad accomodarsi, al contrario il volto mostrava un’incapacità congenita a guardare dritto negli occhi. Sorrideva, sì ma intanto che gli spiegavo l’importanza di alcune garanzie aggiuntive credo non avesse smesso un attimo di scrutarsi gli alluci e di tormentarsi le dita.
La spiegazione tecnica fu veloce ed anche la trattativa si risolse in poche battute. Intanto che stavo stendendo i documenti sul tavolo si lasciò andare ad una sola facezia: “Da farmi firmare ha anche la Sacra Bibbia”. Mi rallegrai quando firmò senza cogliere il riferimento al biblico.
Ero stato bravo a vendere la polizza e, come sempre succede, soprattutto me stesso.
M’accadeva di rado di essere convincente al primo colpo. A differenza mia i colleghi erano quasi per intero devoti alla tecniche del combattimento corpo a corpo. Di fronte ad un’ostrica, il piede di porco era considerato lo strumento più adatto per prendersi la perla.
Anch’io ero lì per il gioiello, beninteso, tanto più che ascoltavo con attenzione il mio agente capo quando recitava il suo decalogo: vai e mi raccomando, se la cliente è femmina, torna con contratto e pompino.
Ma, come dire, i miei modi erano meno diretti. Qualcuno, per sfottermi, sostiene che il mio ideale sarebbe stare sotto l’albero ad aspettare che la pesca mi caschi in testa. In realtà ho necessità di vederlo, prima, il pertugio. Preferivo l’approccio da Ali Babà: gambe incrociate, piffero ad intonare una canzone e in qualche occasione è accaduto che il sesamo si sia spalancato.
E quella sera, la caverna aveva un nome di donna, Eleonora.
S’erano fatte le otto passate ed il Tg stava finendo.
“Posso offrirle qualcosa, Flavio, un aperitivo, due salatini, che dice?”, mi propose.
“Perché no, non so resistere all’invito di ragazza graziosa”, risposi tutto segone.
Era da minuetto francese questo uso del lei: 52 anni io e 31 lei pareva difficile uscire dal gioco di ruolo del professionista e della cliente.
Poi accadde una cosa. Mentre apparecchiava alla buona mi fece: “La giacca se vuole la appoggi, di là, in camera”.
E mentre la Lebole la lasciavo di fianco al letto mi trovai sotto gli occhi la prima sorpresa ossia un vibratore in carica, come fosse il cellulare. Appoggiato sul comodino, di fianco al portafoglio e al blister dei Moment, c’era una bella minchia elettrica di nero vestita che si stava preparando a dare il meglio di sé. L’esclamazione che mi uscì fu di ammirazione stupita: “Apperò, la Leo, chi l’avrebbe detto, ‘sta giandona”. E ridacchiando mi dissi che questa era la fine che facevano gli chef che si credono ‘sto cazzo.
Intanto che le bollicine scendevano ripresi il piffero e la mia canzone, anche se assomigliava più ad un recital per solista. C’era un trama che si ripeteva a vari livelli sonori, il soggetto erano pensieri, parole, opere ed omissioni di Flavio Pellegrini. Quando trovavo uditorio fertile partivo col Bolero fai da me e si vede che qualcosa riuscivo a far scattare. Una mia fiamma una volta mi rivelò, lasciandomi di stucco: sai che le donne pare quasi che le ascolti. In realtà era più un: a me gli occhi, please. A me garbava comiziare, a qualcuna è garbato che comiziassi per lei e solo per lei.
Ad ogni modo già a metà bottiglia la mia neocliente aveva iniziato a tenere gli angoli della bocca rivolti fissi verso l’alto e pareva le venisse da ridere ad ogni minima idiozia. Al bicchiere successivo, con i modi della timida risolutezza, venne ad accomodarsi sull’ottomana. Prima lì sopra c’ero seduto solo io, poi ci siamo trovati seduti in due e dopo ancora ci stavo seduto io e coricata lei. Coricata su di me, ad essere precisi la testa me l’aveva poggiata sulla pancia. Anzi, sulla pancia e sui paesi confinanti. Le facevo da cuscino, insomma.
Dall’alto, in mezzo a quella selva di capelli, le sue labbra le vedevo carnose e beate come la reclame di qualcosa da leccare. Ed il modo inconsapevole che aveva di atteggiarle le disegnava un’espressione di manifesta remissività. Sgocciolava desiderio dappertutto.
Il bacio arrivò quale cosa dovuta, per forza d’inerzia, come un barca in secca a cui è stato tolto l’ormeggio. Rimossi i freni scivola verso l’acqua finché dolcemente ammara.
Ecco, schiudere le labbra ed appoggiarle su quelle di Leo venne spontaneo, come se non ci fosse altra cosa sensata da fare. Eppoi anche sulle scapole nude, lì dove dal trapezio c’era l’accesso alla nuca.
Ero pronto a scommettere sentisse i violini già così, per un modesta passata di lingua. Invece arrivò la seconda sorpresa, un barba trucco, stavolta.
Le spalle e i calcagni le fecero da puntello, poi tirò su la schiena ed anche il suo fondo e che ti ha combinato la Leo? S’era sfilata le mutande –blu a pallini bianchi- e finirono il loro volo in mezzo all’oscurità. Fossimo stati in un fumetto dentro la nuvoletta sopra la mia zucca sarebbero apparse un sacco di espressioni buone per i film di Diego Abatantuono o di Lino Banfi. Del resto il mio immaginario erotico era quello.
In apparenza tutto restava uguale, zero a zero e palla al centro. Sopra la corazza in cotone fiorato mostrava e celava la medesima estensione di pelle ma quel dettaglio latente aveva cambiato il senso della serata. Sotto, invece, non era rimasto nulla se non la fame.
La teneva giù, la testa, la Leo, ed insisteva a non concedermelo, lo sguardo.
Il sottotitolo intesi fosse il seguente: sono affari tuoi, cowboy, serviti il pasto.
A quel punto decisi che il momento di mister 20 cm, il siluro nerovestito che stava ancora attaccato alla presa elettrica, era passato. Stasera se ne sarebbe stato in panchina zitto e quieto. Entrava in campo la speranza bianca (a guardarmi allo specchio, bianchiccia, dire), il peso mediomassimo Flavio Pellegrini.
Finalmente il protagonista fece la sua apparizione. Bastò aprire un bottone e calare una zip e spuntò fuori tipo molla. Toccò a lui per modo di dire dato che si occupò di tutto lei. Quel che andava fatto lo fece e io fui contento, come e più che per il contratto strappato.
Del seguito ricordo solo alcuni dettagli. Uno assai vivido.
Nella penombra c’era un movimento up-down del tutto sincrono al pompino con cui la Leo mi stava rendendo onore. Non c’ho fatto caso, subito. Poi la mia attenzione è stata attratta proprio lì, dall’altra parte della stanza.
Mentre il capo della mia amante faceva l’altalena alla stessa altezza, spostata un poco in profondità, un’altra figura ripeteva la medesima oscillazione: era la gallina dell’orologio a muro che batteva il tempo becchettando. Parevano due tuffatrici di sincro da tanto le movenze erano in sintonia.
Una con un ticchettio metallico, l’altra con un tripudio di onomatopee da ovazione. Entrambe decise a buscarsi ciò che spettava loro per costituzione della Repubblica.
E se c’era la gallina, mi dissi, non poteva mancare il maiale e quello ha sempre la precedenza.
Magari lo conosceva anche lei il detto: a Capodanno brinda col porco, lui sì che a forza di grufolare col muso a terra spinge in avanti ed annuncia il domani. Mandale a nanna, invece, le pollastre che a forza di raspare a terra e di buttare indietro hanno in testa solo il passato remoto.
Il 2018 era iniziato da qualche mese ma, come dire, ogni scusa era buona per brindare e, in quell’occasione, per darsi al contatto fisico.
Ad ogni modo si stava dando da fare col massimo impegno, come fosse una versione dal latino. Testa bassa sul testo, tempo che ci vuole, occhio a non fare errori ed avanti march.
Pompa, pompae, pompae .. : bravissima, amore, prima declinazione voto: otto
Poi fu la volta della seconda ed il termine da declinare era coitus.
E qui potrei proseguire a fare la cronaca delle capriole che abbiamo fatto e del bene che ci siamo scambiati per un’oretta buona. Ma lascio perdere, la sceneggiatura delle geometrie e delle meccaniche che seguirono credo non si discosti molto da quello che accade di solito: per gli attori sarà stata una roba celestiale, per il regista qualcosa di visto e stravisto.
Do per certo di essermi pure addormentato perché alle tre e mezza di notte mi ridestai di botto. La mia occasionale amante era sveglia. Appoggiata su un gomito stava a scrutarmi il papagno.
Qualcuno che bazzica ‘sto sito, a sto punto, avrebbe invocato Fantozzi di ‘Pina ti spacco in quattro come una mela, ti scopo bendata’, e indi battuto il record continentale di emissione di quelle che wikipedia definisce cellule gametiche.
Non ero io il tipo, francamente: una cartuccia avevo ed il mio schioppo l’aveva sparata. Ed a ricaricare ero peggio di un gsm di fine anni ’90.
Ben per questo me ne andai in cucina ad esplorare la dispensa. Pensai: adesso mi caccia fuori a brutto muso, nudo e con le scarpe in mano. Per una donna è più offensivo aprirgli il frigo che le cosce. Invece, meno male, nessuna reazione.
Dentro c’era giusto il necessario per una pasta allo scarpariello e dopo l’amore al sottoscritto la sigaretta ne basta ne avanza. Gli servono i carboidrati.
Dopo una ventina di minuti eravamo di nuovo in camera, accucciati sulla moquette, io con la giacca del suo pigiama da carcerata, lei con i pantaloni del medesimo. Si stava a buttar giù mezze maniche al sugo e a dire sciocchezze.
Che il piatto fosse venuto meravigliosamente lo sapevo da me. Peperoncino e pecorino come si deve ma la sottolineatura di Leo mi diede un secondo orgasmo. “Sei meglio da cuciniere che da cavallo da monta, credimi. Da assicuratore, vedremo”, commentò, mentre sorrideva sotto i baffi che non portava e che se avesse avuto sarebbero stato lordi di pomodoro.
Nel suo piccolo aveva inteso al volo quale fosse la mia benzina, funzionavo a pompini e lusinghe. E pareva ben messa in tutte e due le materie.
Brindammo: “A tutti gli chef che si credono ‘sto cazzo”.
Da come ne parlava, il papà feci fatica ad intendere se si trattasse di un maschio oppure di una femmina.
Reclamava che gli portasse l’assegno: “Leo? Dove sei?”. E subito giù un’altra berciata : “Leo, portami ‘sto cazzo di libretto”.
‘Sti meridionali, mi dissi, con ‘sto vizio di accorciare ogni cosa. Di dare un nomignolo a tutti, al cane, ai figli, alla moto. Leo? Pensai. Leo, chi? Leonardo?
Invece dalle scale scese una tombolotta d’età indefinibile. Poteva avere dagli otto ai tredici anni e l’unica cosa di cui ero certo è che si trattasse di una femmina.
La prima impressione che mi diede fu quella di un cerchio quadrato.
Un cerchio dato che risultava un insieme di curve una sopra l’altra: aveva le gambe grosse, la vita grossa e le spalle, pure loro, grosse. Erano tutte grosse le sue cose, anzi era grossa lei. Non proprio grassa, paffuta forse, ecco, piena è l’aggettivo giusto e pure alta.
Un cerchio, dicevo ma quadrato. Gli spigoli che sotto stavano affogati dentro cotanta polpa, appena sopra il collo riaffioravano tutti. Mascella in rilievo, testa tipo una Fiat Qubo e pure i capelli ricci tagliati corti davano l’idea di una giovane donnina Michelin.
All’atto di sottoscriverla, la polizza sanitaria scopri il nome e la data di nascita: Eleonora Fusco, 13-01-1987
La provvigione fu più che soddisfacente ed il resto allora non aveva alcuna importanza
La incrociai di nuovo una decina d’anni dopo in piazza a Foligno. Un sabato mattina d’estate entrai al bar Centrale e chi ti vedo? La Leo, in carne ed ossa. Anzi tanta carne e tante ossa.
Ne avevo avuto saltuarie notizie da parte del padre, mio affezionato cliente. “E’ la mia dannazione ‘sta figlia”, diceva. “Se avesse ascoltato amme adesso starebbe sul Freccia Rossa a milleottocento euro al mese. Invece tiene la capa dura come le pigne verdi: ha voluto andare addietro a quel minchione di siciliano che si crede uno chef di ‘sto cazzo. La fa lavorare, non gli paga uno straccio di contributo eppoi se la ..”. La frase la mozzò lì ma si lasciò andare ad un gesto inequivocabile: pugno chiuso ed avambraccio a pompare verso il basso.
Accanto a lei, ad un tavolino del bar stava il suddetto siciliano che si credeva uno chef di ‘sto cazzo. La grande bellezza, lì sottotitolai in un amen. Alti più o meno uguali, massicci più o meno uguali parevano il lato oscuro del pianeta del sex appeal.
Mi fecero tornare in mente il corso con Zecchi che avevo seguito al terzo d’anno di Filosofia. Il titolo: l’estetica del brutto. Allora mi parve un sciocchezza, al limite una provocazione. L’estetica si occupa del bello e quindi che capperi c’entrava il brutto? Ci misi del tempo a farmi sedurre da Miss Piggy e svariate volte rotolarsi nel fango in compagnia di qualche porcella con la merda intorno mi ha fatto bollire il sangue più che scoparmi Venere in persona.
Ad ogni modo, lo ammetto il mio giudizio di allora è stato oltremodo sommario. Diciamo almeno che Leo s’era fatta crescere una testa di capelli ricci di tutto rispetto. Una cosa tipo Caparezza, insomma. Neri e lucidi gli arrivavano ben oltre la metà della schiena ed insieme ad una carnagione da geni casertani gli conferivano il fascino della vajassa in potenza. Una popolana ben nutrita che s’affaccia sul terrazzo a ritirare i panni, spettinata e scostumata. Ed intanto urla con le gambe nude e la vestaglia mezza sbottonata sul davanti. Una sellerona, insomma. Con i modi gentili dei tempi di mio papà si sarebbe parlato di donna procace, oggi di cavallona ed il genere piace, assai più di quello che ognuno sia disposto ad ammettere.
Ma non ero in grado di apprezzarlo, allora ero troppo influenzato dall’immagine che m’ero fatto un decennio prima. Il cazzo poi lo portavo a spasso da un’altra parte.
La vita, invece, mescola tutte le cose e capita che ogni tanto qualcosa ritorni.
Ore 18 di mercoledì scorso, sul display del mio cellulare apparve il 338-1813045, numero sconosciuto.
“Sì?”, risposi.
“Flavio Pellegrini?”, mi fecero.
“Purtroppo è Flavio, sì”, celiai
Risatina: “Sono Eleonora Fusco, si ricorda di me, vero?”
“Certo che sì, signorina Eleonora, la figlia bella di Gilberto, no?”
“Ho acquistato casa, mi serve la polizza. Può aiutarmi?”
“Eccerto” fu la risposta sintetica. Attorno c’erano i fuochi artificiali dell’assicuratore ossia i dollari della slot machine che ruotavano al posto delle pupille.
L’appuntamento fu a casa sua, per la sera successiva alle 19.30.
Mi presentai con la valigetta d’ordinanza e dentro avevo biro, proposta ed un quintale e mezzo di parole.
Quando si apri la porta mi vennero incontro un paio di infradito ed una zazzera da aborigena che sarebbe piaciuta a Gauguin. In mezzo stava un prendisole fiorato e dentro, a stento, la mia aspirante cliente. Mentre mi abbracciava ebbi la netta sensazione d’essere alla macelleria Cecchini a Panzano, c’era di tutto ed anche di più. Da farci un pasto da togliere la fame a Poldo Sbaffini. Altro che nouvelle cuisine, era roba forte, da festa della Pupporina&Tordello: un girello più che massiccio, nodini e costolette in abbondanza con proteine e grassi saturi da qualsiasi parte appoggiassi l’occhio o la mano.
Tutto da fare alla brace e servire salato alla scottadito.
Un tripudio di carne, insomma, ma con una sua qualche armonia. Aveva smarrito le sembianze da vacca frisona che ricordavo ed anche quell’espressione così sgraziata di chi guarda le cose senza nulla capire. Anzi dava l’impressine, come dire, di una figliola per lo meno vispa.
Se il corpo pareva un invito ad accomodarsi, al contrario il volto mostrava un’incapacità congenita a guardare dritto negli occhi. Sorrideva, sì ma intanto che gli spiegavo l’importanza di alcune garanzie aggiuntive credo non avesse smesso un attimo di scrutarsi gli alluci e di tormentarsi le dita.
La spiegazione tecnica fu veloce ed anche la trattativa si risolse in poche battute. Intanto che stavo stendendo i documenti sul tavolo si lasciò andare ad una sola facezia: “Da farmi firmare ha anche la Sacra Bibbia”. Mi rallegrai quando firmò senza cogliere il riferimento al biblico.
Ero stato bravo a vendere la polizza e, come sempre succede, soprattutto me stesso.
M’accadeva di rado di essere convincente al primo colpo. A differenza mia i colleghi erano quasi per intero devoti alla tecniche del combattimento corpo a corpo. Di fronte ad un’ostrica, il piede di porco era considerato lo strumento più adatto per prendersi la perla.
Anch’io ero lì per il gioiello, beninteso, tanto più che ascoltavo con attenzione il mio agente capo quando recitava il suo decalogo: vai e mi raccomando, se la cliente è femmina, torna con contratto e pompino.
Ma, come dire, i miei modi erano meno diretti. Qualcuno, per sfottermi, sostiene che il mio ideale sarebbe stare sotto l’albero ad aspettare che la pesca mi caschi in testa. In realtà ho necessità di vederlo, prima, il pertugio. Preferivo l’approccio da Ali Babà: gambe incrociate, piffero ad intonare una canzone e in qualche occasione è accaduto che il sesamo si sia spalancato.
E quella sera, la caverna aveva un nome di donna, Eleonora.
S’erano fatte le otto passate ed il Tg stava finendo.
“Posso offrirle qualcosa, Flavio, un aperitivo, due salatini, che dice?”, mi propose.
“Perché no, non so resistere all’invito di ragazza graziosa”, risposi tutto segone.
Era da minuetto francese questo uso del lei: 52 anni io e 31 lei pareva difficile uscire dal gioco di ruolo del professionista e della cliente.
Poi accadde una cosa. Mentre apparecchiava alla buona mi fece: “La giacca se vuole la appoggi, di là, in camera”.
E mentre la Lebole la lasciavo di fianco al letto mi trovai sotto gli occhi la prima sorpresa ossia un vibratore in carica, come fosse il cellulare. Appoggiato sul comodino, di fianco al portafoglio e al blister dei Moment, c’era una bella minchia elettrica di nero vestita che si stava preparando a dare il meglio di sé. L’esclamazione che mi uscì fu di ammirazione stupita: “Apperò, la Leo, chi l’avrebbe detto, ‘sta giandona”. E ridacchiando mi dissi che questa era la fine che facevano gli chef che si credono ‘sto cazzo.
Intanto che le bollicine scendevano ripresi il piffero e la mia canzone, anche se assomigliava più ad un recital per solista. C’era un trama che si ripeteva a vari livelli sonori, il soggetto erano pensieri, parole, opere ed omissioni di Flavio Pellegrini. Quando trovavo uditorio fertile partivo col Bolero fai da me e si vede che qualcosa riuscivo a far scattare. Una mia fiamma una volta mi rivelò, lasciandomi di stucco: sai che le donne pare quasi che le ascolti. In realtà era più un: a me gli occhi, please. A me garbava comiziare, a qualcuna è garbato che comiziassi per lei e solo per lei.
Ad ogni modo già a metà bottiglia la mia neocliente aveva iniziato a tenere gli angoli della bocca rivolti fissi verso l’alto e pareva le venisse da ridere ad ogni minima idiozia. Al bicchiere successivo, con i modi della timida risolutezza, venne ad accomodarsi sull’ottomana. Prima lì sopra c’ero seduto solo io, poi ci siamo trovati seduti in due e dopo ancora ci stavo seduto io e coricata lei. Coricata su di me, ad essere precisi la testa me l’aveva poggiata sulla pancia. Anzi, sulla pancia e sui paesi confinanti. Le facevo da cuscino, insomma.
Dall’alto, in mezzo a quella selva di capelli, le sue labbra le vedevo carnose e beate come la reclame di qualcosa da leccare. Ed il modo inconsapevole che aveva di atteggiarle le disegnava un’espressione di manifesta remissività. Sgocciolava desiderio dappertutto.
Il bacio arrivò quale cosa dovuta, per forza d’inerzia, come un barca in secca a cui è stato tolto l’ormeggio. Rimossi i freni scivola verso l’acqua finché dolcemente ammara.
Ecco, schiudere le labbra ed appoggiarle su quelle di Leo venne spontaneo, come se non ci fosse altra cosa sensata da fare. Eppoi anche sulle scapole nude, lì dove dal trapezio c’era l’accesso alla nuca.
Ero pronto a scommettere sentisse i violini già così, per un modesta passata di lingua. Invece arrivò la seconda sorpresa, un barba trucco, stavolta.
Le spalle e i calcagni le fecero da puntello, poi tirò su la schiena ed anche il suo fondo e che ti ha combinato la Leo? S’era sfilata le mutande –blu a pallini bianchi- e finirono il loro volo in mezzo all’oscurità. Fossimo stati in un fumetto dentro la nuvoletta sopra la mia zucca sarebbero apparse un sacco di espressioni buone per i film di Diego Abatantuono o di Lino Banfi. Del resto il mio immaginario erotico era quello.
In apparenza tutto restava uguale, zero a zero e palla al centro. Sopra la corazza in cotone fiorato mostrava e celava la medesima estensione di pelle ma quel dettaglio latente aveva cambiato il senso della serata. Sotto, invece, non era rimasto nulla se non la fame.
La teneva giù, la testa, la Leo, ed insisteva a non concedermelo, lo sguardo.
Il sottotitolo intesi fosse il seguente: sono affari tuoi, cowboy, serviti il pasto.
A quel punto decisi che il momento di mister 20 cm, il siluro nerovestito che stava ancora attaccato alla presa elettrica, era passato. Stasera se ne sarebbe stato in panchina zitto e quieto. Entrava in campo la speranza bianca (a guardarmi allo specchio, bianchiccia, dire), il peso mediomassimo Flavio Pellegrini.
Finalmente il protagonista fece la sua apparizione. Bastò aprire un bottone e calare una zip e spuntò fuori tipo molla. Toccò a lui per modo di dire dato che si occupò di tutto lei. Quel che andava fatto lo fece e io fui contento, come e più che per il contratto strappato.
Del seguito ricordo solo alcuni dettagli. Uno assai vivido.
Nella penombra c’era un movimento up-down del tutto sincrono al pompino con cui la Leo mi stava rendendo onore. Non c’ho fatto caso, subito. Poi la mia attenzione è stata attratta proprio lì, dall’altra parte della stanza.
Mentre il capo della mia amante faceva l’altalena alla stessa altezza, spostata un poco in profondità, un’altra figura ripeteva la medesima oscillazione: era la gallina dell’orologio a muro che batteva il tempo becchettando. Parevano due tuffatrici di sincro da tanto le movenze erano in sintonia.
Una con un ticchettio metallico, l’altra con un tripudio di onomatopee da ovazione. Entrambe decise a buscarsi ciò che spettava loro per costituzione della Repubblica.
E se c’era la gallina, mi dissi, non poteva mancare il maiale e quello ha sempre la precedenza.
Magari lo conosceva anche lei il detto: a Capodanno brinda col porco, lui sì che a forza di grufolare col muso a terra spinge in avanti ed annuncia il domani. Mandale a nanna, invece, le pollastre che a forza di raspare a terra e di buttare indietro hanno in testa solo il passato remoto.
Il 2018 era iniziato da qualche mese ma, come dire, ogni scusa era buona per brindare e, in quell’occasione, per darsi al contatto fisico.
Ad ogni modo si stava dando da fare col massimo impegno, come fosse una versione dal latino. Testa bassa sul testo, tempo che ci vuole, occhio a non fare errori ed avanti march.
Pompa, pompae, pompae .. : bravissima, amore, prima declinazione voto: otto
Poi fu la volta della seconda ed il termine da declinare era coitus.
E qui potrei proseguire a fare la cronaca delle capriole che abbiamo fatto e del bene che ci siamo scambiati per un’oretta buona. Ma lascio perdere, la sceneggiatura delle geometrie e delle meccaniche che seguirono credo non si discosti molto da quello che accade di solito: per gli attori sarà stata una roba celestiale, per il regista qualcosa di visto e stravisto.
Do per certo di essermi pure addormentato perché alle tre e mezza di notte mi ridestai di botto. La mia occasionale amante era sveglia. Appoggiata su un gomito stava a scrutarmi il papagno.
Qualcuno che bazzica ‘sto sito, a sto punto, avrebbe invocato Fantozzi di ‘Pina ti spacco in quattro come una mela, ti scopo bendata’, e indi battuto il record continentale di emissione di quelle che wikipedia definisce cellule gametiche.
Non ero io il tipo, francamente: una cartuccia avevo ed il mio schioppo l’aveva sparata. Ed a ricaricare ero peggio di un gsm di fine anni ’90.
Ben per questo me ne andai in cucina ad esplorare la dispensa. Pensai: adesso mi caccia fuori a brutto muso, nudo e con le scarpe in mano. Per una donna è più offensivo aprirgli il frigo che le cosce. Invece, meno male, nessuna reazione.
Dentro c’era giusto il necessario per una pasta allo scarpariello e dopo l’amore al sottoscritto la sigaretta ne basta ne avanza. Gli servono i carboidrati.
Dopo una ventina di minuti eravamo di nuovo in camera, accucciati sulla moquette, io con la giacca del suo pigiama da carcerata, lei con i pantaloni del medesimo. Si stava a buttar giù mezze maniche al sugo e a dire sciocchezze.
Che il piatto fosse venuto meravigliosamente lo sapevo da me. Peperoncino e pecorino come si deve ma la sottolineatura di Leo mi diede un secondo orgasmo. “Sei meglio da cuciniere che da cavallo da monta, credimi. Da assicuratore, vedremo”, commentò, mentre sorrideva sotto i baffi che non portava e che se avesse avuto sarebbero stato lordi di pomodoro.
Nel suo piccolo aveva inteso al volo quale fosse la mia benzina, funzionavo a pompini e lusinghe. E pareva ben messa in tutte e due le materie.
Brindammo: “A tutti gli chef che si credono ‘sto cazzo”.
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