Deborah

di
genere
etero

Deborah aprì gli occhi nel buio della sua stanza. L’oscurità era interrotta solo dalle fessure in cima ai vecchi balconi. La ragazza gettò uno sguardo alla sveglia. Mancavano due minuti all’ una, l’ora a cui questa avrebbe dovuto suonare, naturalmente con il volume al minimo. Decise di disattivarla. Quindi restò a guardare il soffitto, in cui il bianco dell’intonaco si alternava alle travi di legno scure.
Come previsto, non era riuscita a dormire dall’eccitazione. Come una ragazzina prima del ballo delle debuttanti, o una fidanzata prima delle nozze. Certo l’occasione non era così solenne, ma l’attesa restava febbrile. Quelle parole le fecero salire un sorriso malizioso sulle labbra piene. Sapeva che quella notte sarebbe stata un po’ una debuttante, ma in un contesto molto diverso da quello di rispettabilità che quell’immagine suggeriva. Sì, avrebbe squarciato quell’immagine di rispettabilità come una tela bianca.
Si alzò dal letto con uno scatto rabbioso, e raggiunse l’armadio. Avrebbe potuto utilizzare la torcia dello smartphone, ma decise che invece no, era decisamente meglio rinunciare alla vista per poter acuire gli altri sensi, e dunque il corpo. Chiuse gli occhi e aprì la porta alla sua sinistra. Conosceva la geografia dei suoi vestiti a menadito, in particolare quel vestito. Il vestito da puttana lo chiamava. Aprì la scatola grande in fondo all’armadio. Lo trovò in fondo. Le dita avevano individuato immediatamente la texture liscia ed elasticizzata.
Afferrò il vestito e lo indossò. Ecco, ora iniziava a sentirsi diversa. Più libera. Chiuse ancora gli occhi, fece passare la punta delle dita sui seni quasi schiacciati dal tessuto nero aderente, e poi più giù ad accarezzare i fianchi perfettamente fasciati fino ad appena sotto i glutei.
Ma sapeva che non avrebbe potuto uscire così. Amava l’avventura, ma non l’azzardo. Se un rabbino insonne, o anche solo un amico del padre l’avesse vista girare così per il ghetto, sarebbe stata finita. La sua famiglia l’avrebbe diseredata. Di sicuro sarebbe stata marchiata con il marchio dell’infamia. Nulla, tantomeno una figlia ribelle avrebbe potuto infangare l’immagine del clan Levin agli occhi della comunità. Deborah non poteva permettere che una leggerezza distruggesse la libertà che si stava scavando con le proprie mani. Così si avvicinò alla sedia e indossò il vestito di lino nero estremamente sobrio e lungo ben al di sotto del ginocchio. Un travestimento sul travestimento.
Decise che non avrebbe portato con sé il cellulare. Così, se i genitori avessero scoperto la sua assenza notturna, non avrebbero potuto rintracciarla in breve tempo. Una volta tornata dalla passeggiata notturna, lei avrebbe potuto dare la colpa all’insonnia dovuta al caldo opprimente di Venezia a luglio. Ma soprattutto, pensò mentre chiudeva la porta di casa facendo attenzione a non fare rumore, avrebbe potuto godersi il presente che la attendeva.
Deborah scese nella calle e in pochi minuti si ritrovò nel campo del Ghetto Nuovo. Non c’era anima viva. Il silenzio, nell’aria piatta della notte d’estate, era totale. Senza nemmeno volerlo si ritrovò davanti alla vetrina del negozio di famiglia. Un giorno quel business sarebbe stato suo. A patto che Deborah avesse sposato un ebreo. Era quello il nodo scorsoio che prima o poi le avrebbe serrato la gola. Lo sapeva. Il padre era ancora in salute, ma tra non molti anni si sarebbe ritirato; forse avrebbe raggiunto la sorella in Israele. Ma la clausola sarebbe rimasta. Non importa quanto lei eccellesse nel suo lavoro di broker di diamanti.
Deborah sospirò e si rimise in cammino, stavolta nella direzione della Fondamenta degli Ormesini. Di tanto in tanto la sua solitudine veniva interrotta da un raro passante, solitamente turisti stranieri alticci che rientravano nei loro bed & breakfast, o camerieri e cuochi degli innumerevoli ristoranti della città. La ragazza sogghignò tra sé, inebriata dall’adrenalina che sentiva crescere nelle vene e inondare ogni centimetro del suo essere.
Tra poco uno di quei camerieri avrebbe esaudito il suo desiderio proibito. Quello di abbassarsi e farsi scopare da un uomo che sicuramente la sua famiglia avrebbe disapprovato. L’idea di deludere la famiglia provando piacere la eccitava enormemente. Era un divertimento che la appagava molto, e lo aveva scoperto ormai da un paio d’anni. Sceglieva con cura i suoi amanti. Dovevano fare professioni poco prestigiose agli occhi della famiglia, che aveva naturalmente standard molto alti; dovevano essere mascolini, preferibilmente con una corporatura robusta, in modo da farla sentire ancora piccola e fragile tra le loro braccia possenti, incapace di resistere al loro desiderio prepotente.
Ed eccolo il suo frutto proibito. L’immagine di Andrea, il prescelto di quella sera, emergeva con sempre maggiore chiarezza a mano a mano che Deborah si avvicinava al loro punto d’incontro, un negozio di artigianato locale. Ad ogni passo la ragazza sentiva il calore invadere le suo ventre, la pressione dell’eccitazione rendere le labbra più carnose; avvertì il cuore saltarle fino in gola da quanto batteva forte. Con l’intensa abbronzatura estiva e i capelli appena schiariti dal sole, il tatuaggio che occupava entrambi gli avambracci, e i jeans strappati, il ragazzo sembrava l’archetipo del ragazzaccio.
-Ciao bella mora- mormorò lui mentre le cingeva i fianchi. Deborah fu inebriata dal suo odore di maschio, che poté gustare affondando il volto sul collo.
-Ciao- rispose lei -Non ci speravo che venissi-
-Era un’offerta che non potevo rifiutare. E poi mi hai lasciato il numero su un bigliettino, come si faceva una volta. Mi hai colpito-
Deborah non gli disse che aveva usato quella tattica per non farsi notare dagli amici snob con lei al ricevimento. Cos’ avrebbero pensato di quella ragazza di buona famiglia che approcciava un membro del catering? Non era così classista da umiliare il suo amante. Si limitò ad appoggiarsi al muro di mattoni ancora tiepidi dalla giornata assolata, traendo Andrea a sé per un bacio focoso. Le mani di lui accarezzarono e strinsero i glutei di lei, causandole un fremito di piacere tra le gambe.
-Hai un altro vestito sotto a questo- affermò il ragazzo con uno sguardo interrogativo. Per tutta risposta, lei lo guardò con un sorriso malizioso.
-Posso mostrartelo- rispose ‘Ma dobbiamo trovare un angolino, diciamo, più privato-
Andrea non se lo fece ripetere due volte. La prese per mano, e la condusse nell’oscurità del luglio veneziano. Fondamenta, ponti, ancora fondamenta, questa volta più sottili e senza parapetto, calli sottili che a passarci in due è un miracolo. Deborah credeva di riconoscere un tragitto che aveva percorso solo di rado, una volta per recapitare un anello a un cliente vicino a San Giacomo. Ed eccola, finalmente, la corte segreta; una piazzetta minuscola tra una casa signorile con tanto di giardino murato, e altri appartamenti all’apparenza disabitati. Tutto in quella parte di città taceva nell’immobilità del sonno.
Deborah non avrebbe potuto sperare in uno scenario più magico. Lasciò la mano di Andrea per potersi avvicinare al cancello della villa. Quindi, senza smettere di guardarlo negli occhi, si tolse il lungo vestito di lino, e lo appese alle punte di lancia all’ estremità del cancello. Andrea la contemplò con uno sguardo vorace, dalla testa ai piedi, soffermandosi sulla scollatura abbondante e sulla brevità della gonna. La ragazza sorrise e si voltò, permettendogli di apprezzare il tessuto perfettamente aderente al fondoschiena.
-Dovresti metterlo più spesso- disse avvicinandosi a lei.
-Normalmente non faccio queste cose- rispose indietreggiando fino ad appoggiarsi a una delle colonne accanto al cancello della villa addormentata ‘Ma stasera voglio essere la tua puttana- proseguì. Quindi iniziò ad accarezzare il membro appena risvegliato sotto i jeans, con un tocco deciso che lo sorprese. Per tutta risposta lui la trasse a sé con forza, assaporando la goduriosa sensazione dei seni generosi di lei contro i suoi pettorali. Le appoggiò due dita sulle labbra socchiuse. Deborah capì il messaggio, così iniziò prima a leccarle, e poi a succhiarle con gusto. Adorava quel momento. Era come se stesse distruggendo il velo di apparenza a cui era costretta durante il resto della vita. Iniziava a sentirsi più libera.
-Fammi vedere. Fammi vedere come sei la mia puttana- le ordinò lui con voce roca, men-tre si abbandonò a sua volta contro la colonna, l’erezione ormai ben visibile sotto i panta-loni.
Deborah non aspettava di sentirsi dire altro. Si sentì deliziata di obbedire a un comando così rude. Per questo si inginocchiò di fronte a lui, ignorando la durezza della pietra sotto di sé. Sbottonò con studiata lentezza i jeans, e liberò il fallo eretto dalla costrizione degli slip. Lo osservò torreggiare di fronte ai suoi occhi, quasi attendesse di essere assaltato dalle sue labbra affamate, castello senza difese. Lo prese in bocca con foga, iniziando a muovere il capo a ritmo cadenzato; si esaltava ad avvertire l’eccitazione di lui crescere ancora di più sotto il suo tocco. Non si accompagnava con le mani, che mise dietro la schiena, quasi a voler suggerire l’idea di essere legata.
Lui interpretò quel gesto come un invito a prendere il potere. Infatti le posò una mano dietro il capo, e per un attimo estrasse il membro.
-Ora guido un po’ io- mormorò, prima di infilaglielo di nuovo in bocca, stavolta più in profondità, quasi fino in gola. Deborah lo sentì sussurrare altre parole oscene che la eccitavano un sacco: -Prendilo tutto, puttana’ so che il mio uccello ti piace, ti fa impazzire-
E lei poté solo fare dei versi di approvazione, mentre Andrea la guidava a occhi chiusi in quel ritmo serrato. Si sentiva quasi trasportare in uno stato di trance, tanto che l’interruzione arrivò del tutto inaspettata.
-Facciamo una pausa, altrimenti il divertimento finisce troppo presto- disse lui allonta-nandola di scatto, e aiutandola a rimettersi in piedi. Stava per trarla a sé avvolgendo il culo con le sue mani calde, quando un rumore di rami spezzati li mise in allerta.
Deborah si sentì pervadere dal terrore, il sudore freddo, il cuore in gola, le nocche delle dita bianche dallo sforzo di serrare i pugni. E se qualcuno l’avesse vista? Magari qualcuno che conosceva suo padre? Dopotutto nel suo ambito era molto noto. E un altro gioielliere di spicco viveva poco lontano da lì in effetti. La mente iniziò a proporle gli scenari più ca-tastrofici che potesse concepire. Che ne sarebbe stato di lei?
Ma ancora una volta Andrea interruppe il suo corso d’azione, stavolta con una risata sollevata.
-Ma guarda te. E’ solo un gatto- disse indicando il muro di cinta del giardino segreto. Un micio dal pelo grigio e gli occhi gialli li osservò con aria indifferente, prima di saltare di nuovo all’interno delle mura.
Deborah si tranquillizzò. Questa avventura le aveva solo regalato un brivido in più. Si lasciò andare contro la cancellata e trasse un sospiro di sollievo. Andrea la coprì immediatamente con il suo corpo robusto, mentre la ragazza lo abbracciò, palpando la schiena e le spalle ampie.
-Si vede che la paura di farci scoprire non ti piace. Però se mi metto così non ti vedono- disse infilando la mano sotto il vestito aderente. Allora Deborah chiuse le gambe, quasi a volersi fare più piccola per nascondersi meglio. Avvertì le dita grandi di lui separare ruvidamente le labbra maggiori, per poi iniziare a massaggiare lentamente il covo umido sotto di esse. Chiuse gli occhi e si abbandonò alle sensazioni di piacere crescente che le pressioni circolari le provocavano. Ora era il ragazzo a essere inginocchiato davanti a lei, in modo da poter guardare le sue dita che, una dopo l’altra, si intrufolavano in lei facendola ansimare.
-Non resisto. Lo voglio- bisbigliò cercando di svincolarsi dalle dita frenetiche. Voleva andare fino in fondo alla sua trasgressione, non fermarsi un attimo prima.
-Che cosa vuoi?- replicò lui rialzandosi.
-Voglio il tuo uccello. Lo voglio tutto dentro di me- lo supplicò alzando i lembi del vestito fino a scoprire il sesso.
-Come lo vuoi, puttana?- domandò lui palpandole a piene mani i seni turgidi.
-Lo voglio così, in piedi. Perché sono la tua puttana- rispose lei, traendo a sé il suo bacino. Andrea non si fece pregare. La sollevò, al contempo premendola contro il cancello, e le aprì le gambe, fino a poterla penetrare. Per facilitargli il compito, Deborah si tenne alle punte metalliche della recinzione. La sola sensazione di sentirlo scivolare dentro di lei le diede una scossa di piacere, che prese a crescere gradualmente istigato dalle spinte di lui. Ecco, il momento che aveva aspettato per ore. Concedersi all’uomo sbagliato, anzi sbagliatissimo.
Ma prima che potesse iniziare a intuire l’arrivo dell’orgasmo, Andrea le fece cambiare posizione. La fece voltare verso il cancello, al che lei inarcò il bacino offrendogli nuovamente il proprio sesso. Sesso che lui riempì bruscamente, stringendole con forza i fianchi. Deborah si lasciò nuovamente andare a quei movimenti ritmici, quasi arroganti, che le facevano ora montare dentro un piacere più profondo e viscerale.
L’orgasmo arrivò con l’intensità di un fulmine estivo, facendola tremare. Subito dopo avvertì il fiotto caldo di lui colpire la coscia nuda, e capì che per lui era stato lo stesso.
Si ricomposero in fretta, con poche parole di circostanza. Dopodiché ripresero ognuno la propria strada verso casa nella calda notte del luglio veneziano.
Una volta rientrata nella propria stanza, Deborah si buttò sul letto. Passò un dito sulla parte posteriore della gamba sinistra, dove avvertì la delicata ruvidezza dello schizzo di piacere che lui le aveva impresso. Voleva tenerlo con sé ancora per qualche ora, come il marchio di una conquista. Solo per qualche altra ora. Fino al nuovo giorno di soffocante normalità.
di
scritto il
2020-07-12
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