Offerta agli ospiti (parte 2)

di
genere
sadomaso

Il primo colpo di scudiscio la colse alla sprovvista sulla schiena.
Era tesa, concentrata a percepire quanto stava accadendo intorno a lei.
Aveva i tappi nelle orecchie e sentiva tutto ovattato. Udiva voci ma non capiva cosa stessero dicendo. Sapeva che le erano vicini. Non capiva nemmeno per quante persone lei fosse lo spettacolo.
Sentiva anche i tintinnii dei bicchieri. Probabilmente il tipico gesto del “cin-cin” veniva fatto davanti a lei, in sfregio alla sua sottomissione.
Gli ospiti le giravano attorno come le api intorno al fiore o, meglio, come i lupi intorno alla preda, all’animale legato.
Tale lei era, per loro, in quel momento.
Una bella, bellissima preda, esposta, a loro disposizione. Sapevano che per quella sera avrebbero potuto fare di lei tutto ciò che avessero voluto, per la loro eccitazione, disinteressati a quella della schiava legata e del suo Padrone.
Sapevano tutti che gli ospiti erano lo strumento di piacere per l’esibizionismo e sottomissione di lei, nonchè per la voglia di dominio del suo Padrone al punto di cedere la sua proprietà a tutti loro.
Non se ne curavano, non interessava se erano solo pedine. Pensavano a divertirsi, ad eccitarsi, a godere dell’umiliazione di quella donna desiderata e invidiata.
Brindavano davanti a lei, sapendo che sarebbero stati sentiti. Volevano che lei sapesse che erano lì davanti e stavano mangiando e bevendo davanti al tuo timore, un timore forte, perché lei non aveva idea a cosa sarebbe stata sottoposta.
Sapeva solo che avrebbe sofferto, che sarebbe stata umiliata ed usata, ma non come, quando, quanto.
Era questa l’anima del gioco eccitante. Non sapere, l’ignoto, l’essere assoggettata ai capricci altrui.

Arianna era tesa, sentiva le voci, i tintinnii. Qualcuno la accarezzava in maniera lasciva.
Una mano, evidentemente maschile, le stava palpando le natiche, quasi volesse prenderle tutte in mano, strizzandole. Lo faceva con malagrazia, col desiderio di fare male.
Sul seno, invece, le sembrava di percepire una mano femminile. Le prendeva in mano il seno e giocava col capezzolo, torcendolo. Tirava le pinzette attaccate ai capezzoli col morsetto che mordeva.
Emise un lamento soffocato ma la donna, l’aguzzina, continuò, imperterrita, evidentemente divertita per il dolore procurato e per il suo lamento che non riusciva più a trattenere.
Sentiva delle risate. Stavano ridendo di lei, della sua umiliazione, del suo dolore.
Non si accorse nemmeno che la mano sulle natiche aveva smesso di prendere possesso della sua carne. Era più concentrata sul dolore al seno.
Se se ne fosse accorta probabilmente avrebbe potuto capire che sarebbe successo qualcosa. Invece era concentrata sulla mano che ora erano diventate due, entrambe sui seni. Dovevano essere due persone diverse, a giudicare dalla posizione.
Altro dolore, altro lamento ora soffocato dalla mano di una donna messa in bocca che spingeva a fondo per darle maggiore fastidio.
Ad un certo punto la mano uscì dalla bocca. Almeno quello. Poteva lamentarsi e spostare la concentrazione solo sui seni.
Fu in quel momento che le arrivò la frustata, forte, decisa.
Le aguzzine non avevano nemmeno tolto le mani dai sensi, anzi, poco prima della scudisciata le avevano afferrato entrambi i seni tenendoli stretti.
Evidentemente loro avevano visto. Sì, doveva essere così.
Certo.
Era lei la schiava bendata.
Loro, le aguzzine, vedevano, così aveva impugnato il seno per godere della sua contorsione al momento della frustata.
Altro male.
Sulla schiena e sui seni.
Altre risa, più eccitate. Erano diverse da quelle di prima.
Pensò al vestito e si chiese se fosse stato rovinato dalla scudisciata.
Lei stessa si sentì stupida per quella domanda che, in ogni caso, venne cancellata immediatamente da altro colpo di scudiscio.
Dolore.
Risate.
Mani.
Ancora il pensiero del vestito.
Lamenti.
Ecco, ora sentiva dei lamenti e le venne quasi da ridere quando realizzò che erano i suoi.
Altra scudisciata.
Mani sui seni.
Lamento.
Lamenti.
Una mano, le sembrava fosse maschile, le si era insinuata tra le cosce e le toccava il sesso dopo avere spostato le ridottissime mutandine.
Si era chiesta perché il suo Padrone le avesse imposto le mutandine. La scollatura del vestito arrivava appena sopra.
Capì il motivo solo quando sentì il dolore al bacino, un dolore per un momento soltanto, non forte però percepito tale, causa la sua tensione.
Quelle mutandine servivano per essere strappate.
Altre risate eccitate e tintinnii di bicchieri.
Aveva sete, ma non poteva bere. Solo i suoi aguzzini potevano bere, lei no. Non avrebbe comunque potuto bere perché si ritrovò le mutandine in bocca, spinte dentro in modo da farle male, in maniera sadica. Doveva essere stata una donna a giudicare dalle dita e affusolate e dalle unghie. Saranno state curate quelle unghie? Le sembrò assurdo essersi fatta quella domanda.
Tra le cosce aveva ancora la mano. Sì, quella era maschile e le dita le entrarono nel sesso, agevolmente, troppo agevolmente, come un coltello caldo nel burro.
Certo, era eccitata, se ne accorse in quel momento, molto eccitata.

Anche gli ospiti, due uomini e due donne, erano eccitati, molto.
La schiena segnata dallo scudiscio era bellissima con quei segni di potere e di sottomissione, di schiavitù.
La forza della frusta rievocava ben altri tempi, con ben altro tipo di schiavitù, quando c’era quella vera, quando le donne e gli uomioni erano oggetti.
Il fascino del colpo è sempre irresistibile, come affascinante è il corpo che si contorce, che cerca inutilmente una fuga in avanti e, poi, cerca, spera di scaricare il dolore agitandosi, tirando rabbiosamente le catene che la tenevano ferma, bloccata, con l’unico risultato di eccitare maggiormente gli aguzzini e far venire loro il desiderio di darne un altro, di colpire ancora.
Furono 10, forse di più. Non li contarono, eccitati dallo spettacolo e dai disegni sulla schiena, dalle mani nel sesso e nell’ano, forzato con le dite per prendere possesso di ogni parte, di ogni dove, per entrare, violarla.
Fu un uomo a strapparle il vestito, a denudarla completamente, già appagati dal bel corpo nell’abito elegante che creava contrasto con la condizione di sottomissione.
E’ forte il gesto di togliere i vestiti ad una donna incatenata. Ancor più forte quando le vengono strappati, anticipando il futuro possesso fisico, facendola sentire ancor di più esposta, quasi che quel leggero tessuto potesse proteggerla, quale ultimo baluardo di protezione del veniva privata, con quella forze che anticipava il possesso con quale avrebbero preso il suo corpo, trattato come un oggetto di piacere, senza riguardi, con bramosia, voglia di vendetta per quella donna che solitamente li guardava dall’alto della sua posizione, con quel corpo per loro irraggiungibile se non in quel momento in cui veniva loro concesso come un regalo, come caramelle gettate a terra sulle quale tutti loro, senza ritegno, si gettavano.

Arianna era bagnata.
Tremava e non capiva se era per l’eccitazione, o la paura, o l’umiliazione, però si sentiva bagnata ed ora era nuda, senza più difese, come se quel sottile tessuto che faceva finta di coprirla avesse potuto proteggerla, cosa che, aveva dimostrato, non era riuscito a fare, avendo quel vestito solo la funzione di miele, per attirare, fare avvicinare, stimolare, indurre quegli ospiti a usarla, frustarla, umiliarla.
Adesso era solo istinto, era solo la sua anima oscura che aveva preso defintivamente il sopravvento e doveva essere ancora alimentata, come un buco nero che divora ogni cosa che lo circonda.
Nuda, ora voleva sesso, voleva sentirsi riempita a completamento del suo utilizzo. Voleva soddisfare i Padroni per soddisfare sé stessa, la propria ansia si sottomissione.
Sporgeva il culo, in fuori, voleva invitare gli uomini a scoparla, possederla, prenderla, usarla.
Esponeva il culo ed il petto, offrendosi come poteva, come le catene le consentivano, quelle catene che le liberavano la parte oscura del desiderio per divenire desiderio della fame altrui.
Si accorse che stava ottenendo ciò che desiderava quando venne colpita ancora dallo scudiscio.
Era un colpo diverso, quasi cattivo, era un colpo eccitato, dato da una persona (ancora non capiva se fosse uomo o donna, Padrone o Padrona, sicuramente comparsa in quello spettacolo suo e del suo compagno, suo unico Padrone) che aveva dentro eccitazione, voglia di possesso, di potere su di lei.
Questo la eccitò maggiormente, come il dolore può fare, che scatena dentro quella forza necessaria per averne ancora, richiederne ancora e ancora.
E ancora venne accontentata, fino a che non sentì in bocca una lingua. Questa era di donna, ne sentiva il profumo. Una lingua che cercava la sua, famelica, vogliosa.
Stronza, appena lei ricambiò la lingua nella bocca dell’altra, questa la morse.
Altra scarica, altro desiderio che la portò a spingere in fuori il culo, per offrirlo, offrirsi.
Sentì finalmente un sesso maschile che la cercava.
Finalmente. Voleva essere riempita, usata.

L’uomo non ce la faceva più, senza mai toccarla, avendo usato solo lo scudiscio, gli era diventato duro. Non solo per il dolore inflitto ma per l’umiliazione della donna tanto desiderata ed ora prossimo ad averla, sua, seppure per quel breve momento di un orgasmo liberatorio.
Ora la voleva, carnalmente, non gli bastava più il suo dolore.
Il cazzo duro era contro la figa di lei, bagnatissima, desiderosa.
Si interruppe.
“La voglio giù, come una cagna”.

La schiava sentì solo la parola “cagna”, più per intuizione che per altro. Una parola che la umiliava e degradava, e per questo desiderava.


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krugher.1863@gmail.com
di
scritto il
2022-08-13
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