La postura, 1
di
Digge
genere
etero
La postura, parte 1
Mi ero svegliata agitata, stamattina, e ancora agitata mi sentivo adesso che già faceva buio e stavo per uscire. Dovevo incontrare il mio nuovo insegnante di canto, sempre che lo fosse diventato, e tutto il mio futuro di cantante lirica era in gioco.
Pioveva, fuori, ed era una giornata uggiosa, pesante, come tutti i pensieri che mi giravano per la testa. Avevo un’oretta di tempo per raggiungere la casa del maestro Arnaldi e decisi di incamminarmi già adesso. Avevo bisogno d’aria fresca e avevo soprattutto bisogno di fare chiarezza tra i miei pensieri. La camminata mi avrebbe fatto bene. Mi vestii, presi l’ombrello e uscii. Sotto l’ombrello mi misi a pensare, dovevo solo badare alle pozzanghere.
Ricordo che non avevo detto nulla alla mamma di questo appuntamento, Volevo tenerlo per me, almeno inizialmente, anche per non creare inutili aspettative.
Con la mamma avevo una buon rapporto, ma dopo che il papà se n’era andato che io ero ancora bambina, lei dopo il divorzio si era rintanata in casa e si vedeva solo con quelle poche amiche che aveva. Da quel momento comunque di uomini in quella casa non se n’erano più visti, con l’eccezione del nonno, che però era presto morto lasciandoci comunque mezzi per vivere più che dignitosamente. Avevamo, io e la mamma, la passione per la musica che ci legava, ma la casa per noi due sole ci stava a volte un po’ stretta.
Io ero quindi cresciuta con la sola mamma, che pur non facendomi mancare nulla, grazie anche al lauto assegno che riceveva mensilmente dopo il divorzio, mi pesava a volte per la sua presenza costante in casa. Trovammo comunque con il tempo una buona intesa e lei non ritenne di voler contrastare la mia indole piuttosto ribelle. Così pian piano conquistai una posizione in casa che mi garantì una buona autonomia e la mamma mi consentì di tenere la mia camera solo per me e sempre chiusa a chiave, cosa di cui le fui molto grata.
Mi ero formata in quel modo, all’ombra di questa mia madre, in una casa dove non c’era nulla di maschile senza che io ne conoscessi le ragioni. Un giorno che feci delle domande ebbi le solite risposte che si danno ai bambini. Non potevo capire, mi disse. Io però mi ero messo in testa che era stata colpa mia se lui se n’era andato e un giorno, quando ancora ero piccolina, lo dissi piangendo alla mamma. Quel giorno ricordo che lei mi prese in braccio e mi fece per tranquillizzarmi un lungo discorso, dal quale io però solo realizzai che degli uomini non ci si doveva fidare. Era nata però da quel momento in me nel contempo una curiosità morbosa per l’altro sesso che io non sapevo come poter colmare. Vedevo a scuola i miei compagni, leggevo romanzi, vedevo film, ma gli uomini restavano per me qualcosa di oscuro, di incognito di cui, appunto, non ci si doveva fidare. Tutto questo finì per condizionare il mio comportamento con i maschi. Non mi fidavo di loro e quindi prendevo di loro solo quello mi piaceva.
Nei primi anni della mia vita ero cresciuta precocemente e già sui dodici-tredici anni dovevo dare sfogo a tutta la libidine che mi sentivo addosso. Presi così ad esplorare il mio corpo. Iniziai presto a masturbarmi e lo facevo quasi ogni sera, a letto sotto le coperte. A tredici anni, un giorno d’estate che eravamo al mare, c’era in spiaggia una delle mie solite amichette. Avevamo mangiato e le nostre mamme stavano riposando sotto l’ombrellone. Noi avevamo il nostro posto dietro le cabine, dove andavamo di solito ad appartarci con altri amici a giocare e scherzare. Quel giorno eravamo noi due sole e cominciammo a fare le zozzone. La mia amica era più piccola di statura di me, ma aveva tette più grandi delle mie. Per di più aveva già sul pube una bella peluria nera, mentre su di me c’era solo un po’ di peluria biondiccia. Cominciammo a guardarci l’un l’altra e fu lei a toccarmi per prima. Mi diceva che la mia fica era strana e mi faceva vedere la sua, che secondo lei era diversa. A forza di toccarci ci venne in mente di masturbarci a vicenda. Non c’era un’anima viva in quel posto. Noi avevamo solo l’accappatoio addosso, così, sedute a gambe larghe ci stavamo masturbando, quando d’un tratto spuntò uno dei nostri amichetti. Aveva un paio d’anni più di noi ed era alto e piuttosto magro. Ci conoscevamo bene ormai da tempo, così prendemmo la cosa con naturalezza. Visto che lui ci aveva scoperto ora doveva tirare fuori anche lui il suo bell’attrezzo e mostrarci cosa ci sapeva fare. Così gli dicemmo con decisione, ancora sedute a gambe larghe. Lui non si fece pregare tanto, abbassò le mutandine e apparve ai nostri occhi un bel cazzo ritto, che lui cominciò ad agitare con la mano in piedi davanti a noi. Noi restammo ferme a guardarlo, così lui prese a scuoterlo con la mano freneticamente, finché ad un tratto si fermò. Gli si era ammosciato e lui sembrava avvilito. Si tirò su le mutandine e stava per andarsene quando io lo richiamai. Gli dissi di sedersi vicino a noi e lui un po’ a malincuore lo fece. Gli domandammo se voleva toccarci e lui non si fece pregare due volte. Avvicinò una mano su una mia gamba e io gliela presi subito e la premetti tra le mie gambe. Gli dissi che doveva infilare due dita dentro di me e toccarmi con dolcezza il clitoride. La mia amica fece altrettanto con l’altra mano, così ci trovammo seduti tutti e tre con lui che ci stava masturbando, prima cautamente, poi con sempre maggiore confidenza. Mentre lui faceva così vidi che il cazzo gli si era rizzato di nuovo, così glielo presi in mano e cominciai io allora a masturbarlo, finché lui non diede un suono strozzato e la mano mi si imbrattò del suo sperma. Ricordo ancora la sensazione che provai. Avvicinai la mia mano al naso e sentii l’odore che emanava da quel liquido biancastro. Fu quella la prima di tante altre volte. Sempre noi tre. Io avrei voluto provare altre cose ma loro erano sempre esitanti, così non se ne fece mai nulla. Restammo a quei semplici giochi.
Che tempi che erano, pensai mentre camminavo. Era tutto così nuovo, così eccitante a quell’età.
Con la scusa che mi serviva per la scuola, mi feci presto comprare un PC portatile dalla mamma. Con quello cominciai a guardare i film pornografici, che però mi fecero un po’ schifo. Trovavo tutto così artefatto che perfino i cazzi che si vedevano mi erano sembrati finti. Mi bastavano però alcuni pochi film per eccitarmi.
In classe, con le mie compagne mi trovavo bene ed ero tra le più in vista, sia perchè ero piuttosto alta e più fatta rispetto ad altre, sia perchè ero disinibita nel mio comportamento e questo faceva molto colpo sui maschi. Ma nessuno di loro mi interessava perchè erano troppo immaturi. Così andavo sempre con le mie compagne a guardare i ragazzi delle classi più avanti di noi e mi ero già fatta notare, senza però che succedesse niente.
Dopo quella prima estate ebbi presto una nuova esperienza, che fu piuttosto strana perché non me l’aspettavo e perché ne rimasi alquanto scossa. Ero andata al cinema con due compagne di classe. Al buio vidi un uomo alto di una certa età venire a sedersi vicino a me. Ne vidi un attimo il volto e vidi che era ben vestito. Sedendosi si era messo l’impermeabile piegato sulle gambe. Io non ci feci tanto caso, ma ad un tratto sentii la sua mano che si muoveva al mio fianco. Era insistente ed io ebbi l’impulso di fermarlo, ma per qualche ragione non lo feci. Lo lasciai fare, così dopo un po’ la sua mano si era fermata sulla mia gamba e scorreva ora giù lungo la coscia. Ero turbata, come paralizzata, ma stranamente, anziché fermare quella mano, d’istinto mi allungai sulla poltrona aprendo le gambe. Così, nel buio della sala, mentre sullo schermo scorrevano le immagini di un film, le dita di quell’uomo mi si erano infilate sotto le mutandine e ora erano entrate dentro e cominciavano a giocare con il mio clitoride. Ricordo ancora l’eccitazione che provai, chiusi gli occhi e dopo un po’ ebbi un fremito e non riuscii a fermare un orgasmo. A quel punto mi ricomposi subito di scatto e gli scostai la mano con forza. L’uomo si alzò e se ne andò. Tutto era successo in un attimo e le mie compagne non si erano accorte di nulla. Naturalmente a loro io non dissi una parola. La sera, a tavola, la mamma guardandomi in faccia mi chiese che era successo. Le dissi che avevo litigato con un’amica. In camera poi non riuscivo a togliermi dalla testa quello che mi era successo al cinema e più tardi, a letto, mi addormentai spossata con le mani strette tra le gambe. Non riuscivo a capire la mia reazione, mi vergognavo ma dovevo comunque confessare a me stessa che mi era piaciuto.
Quell’episodio mi diede una strana scossa, perché da allora cominciai ad essere più zozzona perfino a scuola. Una volta ero andata a fare la pipì in bagno e quando tornai in classe avevo le mutandine in una mano e niente sotto. Ricordo che ero tutta eccitata quando mi sedetti al banco. Per essere ancora più spregiudicata sollevai la gonna di dietro in modo da sedere direttamente sul legno. Ricordo che mi domandai ridendo dentro di me cosa avrebbero fatto i maschi della classe se lo avessero saputo. Me li immaginai tutti inginocchiati a annusare il sedile.
Dopo quella volta quasi tutti i giorni lo facevo e una volta se ne accorse la mia compagna di banco quando mi chinai per raccogliere da terra la penna che mi era caduta. Rimase a bocca aperta e mi chiese se ero impazzita. Le mentii dicendole che mi ero tolte le mutandine perché le avevo sporcate.
L’anno dopo le mie tette si erano fatte belle sode e proprio carine e io non facevo naturalmente niente per nasconderle, così quando potevo mi chinavo per mostrarle sotto la scollatura.
Si, insomma, mi piacevo, i ragazzi mi guardavano, mi sembrava di essere molto sexy e poi ora ero grande, e sapevo tutto del sesso, così almeno mi pareva. Facevo cose spericolate e mi sentivo spavalda. Se ne accorse perfino la mia maestra di canto che mi disse che ero molto migliorata nella mia voce e, come lei disse, nel mio modo di pormi, che però io non capii cosa volesse dire.
La mia mamma uno di quei giorni, forse preoccupata per qualche mio comportamento, per il mio vestire o forse solo perché sentiva che era venuto il momento di non considerarmi più una bambina, a pranzo mi fece un sacco di domande e mi parlò del sesso e mi spiegò con serietà tutte le cose a cui dovevo stare attenta. Era la prima volta che mi faceva discorsi di questo tipo e io risi un po’ dentro di me, perché mi resi conto che lei non aveva idea di quante cose io già sapessi. Quella volta mi accorsi però di un atteggiamento della mia mamma, che mi fece pensare che forse non era tutta colpa del papà se lui se n’era andato. Continuai a volerle bene ma la vidi ora con occhi diversi.
Avevo una quindicina d’anni quando finalmente ebbi la mia prima scopata, che a pensarci bene fu piuttosto trasgressiva. Avevo già avuto qualche piccolo approccio con ragazzi, appartati in una stanza a una festa o d’estate in spiaggia con i soliti amichetti ed anche con altri, ma solo grosse pomiciate, niente di più, malgrado le mie fantasie andassero ben oltre. Un giorno, parlando con una compagna di classe dei miei problemi in algebra fu lei a dirmi che se volevo potevo farmi aiutare da suo padre. Ero già stata alcune volte a casa di quella mia compagna che aveva qualcosa di analogo rispetto a me, in quanto viveva con il padre divorziato dalla madre, che vedeva solo di rado. Lui era un bell’uomo, ancora piuttosto giovane, simpatico e alla mano. Decidemmo che sarei andata a casa sua il prossimo sabato e io quel giorno sentii di volermi vestire in modo da apparire più grande. Così mi misi addosso una maglietta che metteva in risalto le tette, senza reggiseno, che io del resto non portavo quasi mai e un gonnellino che modellava il sedere, di cui andavo molto orgogliosa.
Quando arrivai a casa della mia compagna e lei mi aprì vidi subito il padre seduto su una poltrona che stava leggendo il giornale. Mi sorrise e mi disse di andare in cucina, Ci saremmo seduti lì a lavorare con l’algebra.
Non ero per nulla imbarazzata quando presi una sedia per sedermi a quel tavolo. La mia compagna se n’era andata in camera sua e io ricordo che quando lui mi raggiunse al tavolo mi strinse a lungo un braccio con la mano mentre si sedeva. Gli spiegai quali erano le cose che non capivo. Lui mi guardò sorridendo e poi cominciò a spiegarmi e non mi ci volle che una mezzoretta per capire, perché stupida non ero. A quel punto lui si era fermato e si era messo a guardarmi con un’aria scanzonata che mi aveva messo a disagio. E allora realizzai che mi aveva letto nel cervello. Aveva capito che io non volevo altro che una scopata. Lo vidi alzarsi dalla sedia e sentii la sua voce chiamare la figlia. Quando lei uscì dalla sua camera lui le disse di andare a comprare il gelato in gelateria mentre noi facevamo l’algebra. Le diede dei soldi in mano e lei uscì. Calcolai che avevamo una ventina di minuti per noi, ma la voglia che avevo era così grande che non mi importava niente del tempo.
Non ci dicemmo niente. Appena uscita lui mi prese subito per mano e mi portò nel salone dove troneggiava un bel divano di cuoio. Mi disse di sedermi. Lui sparì un attimo in bagno e tornò poi subito indietro. In un attimo mi afferrò e mi rovesciò sul divano. Con una mano mi sollevò la maglietta a scoprirmi le tette e con l’altra fece per sfilarmi le mutandine. Io lo aiutai sollevandomi quel tanto che bastava. Poi dopo un istante come se nulla fosse mi aveva sverginata.
Non sentii quasi nulla, ero rimasta paralizzata dal peso del suo corpo e dalla sorpresa. Era successo tutto così in fretta. Ci volle un attimo per riprendere coscienza. Lui restó fermo un attimo poi cominciò a sbattermi senza riguardo. Io mi sentivo dominata, incapace di connettere, soffocata da quel grosso corpo che mi colpiva. Sentivo una sua mano sulle tette, mentre lui con l’altra si teneva appoggiato al divano. Poi d’un tratto sentii le sue mani sollevarmi. Mi prese così, le mie gambe abbracciate al suo collo. Chiusi gli occhi incapace di connettere. Ora mi aveva girato, con la pancia sul divano e le ginocchia sul tappeto. Mi prese da dietro, le mani strette ai miei fianchi. Avevo visto quella posizione nei film porno, ma non pensavo che fosse così bello. Mi sentivo dominata e quella posizione mi faceva sentire puttana. I colpi da dietro erano più forti. Volevo urlare ma mi veniva solo un gemito strozzato. Poi lo sentii scoppiarmi dentro. Mi rovinò addosso.
Ricordo quella prima volta e quanto fu bello. Rimasi ferma, ero esausta. Fu lui ad alzarsi per primo e io mi misi a sedere sul divano. Sentii il freddo del cuoio sulla pelle. Lo vidi mentre si toglieva il preservativo. Non disse nulla quando si allontanò per andare nel bagno. Io mi rivestii tranquillamente. Mi sentivo in delirio, avevo finalmente scopato! Quanto tempo era durato non lo so. Non me ne resi conto. Per fortuna però il gelato non era ancora arrivato.
Tornando da me mi chiese se volevo andare in bagno. Mi piaceva il suo modo di fare, sicuro e deciso e allo stesso tempo cortese. Poi mi chiese anche se mi era piaciuto. Io mi sentivo ancora mezzo imbambolata e non seppi cosa rispondere. Lui si alzò dicendo che voleva farsi un caffè. Mi domandò se ne volevo anch’io. Gli risposi di no. Non mi piaceva. Dopo un po’ tornò la figlia con il gelato. La bella scopata e quell’aria di trasgressione che si era creata in quei pochi istanti me lo fecero gustare un sacco. Quando salutai prima di uscire lui mi fece i complimenti davanti alla figlia. Disse che ero stata molto brava e che lui mi avrebbe aiutato ancora quando volevo. La scopata era insomma piaciuta anche a lui e lo voleva fare ancora. Ci avrei pensato, mi dissi.
Dovetti attendere un po’ però per non insospettire la mia mia compagna, ma appena le lezioni di algebra cominciarono a farsi più complicate, chiesi ancora a lei se mi potevo far aiutare dal padre. Il giorno dopo a scuola mi venne incontro e mi disse che il padre poteva solo un venerdì pomeriggio, quando lei però aveva la lezione di danza. Mi chiese se per me andava bene lo stesso. Ricordo che la cosa mi mise un po’ in imbarazzo. Lì per lì dissi di no, che non volevo andare lì quando lei non c’era. Ma lei insistette. Il padre aveva detto di aver molto da fare in quel periodo e quello era l’unico giorno. E poi, dopo potevo spiegarlo anche a lei. Mi disse che il padre con lei si indispettiva sempre e le urlava quando lei non capiva.
Non stavo nella pelle quando suonai nuovamente a quella porta. Mi aprì lui dopo un attimo. Ricordo che aveva addosso una tuta e vidi che il cazzo era già in attenti. Mi disse solo ciao, poi con un braccio mi accompagnò subito in camera e senza preamboli mi buttò sul letto. Poi si inginocchiò accanto a me, e mi abbassò le mutandine. Un attimo dopo era a leccarmi la fica. Aveva la lingua grossa e forte e lui sapeva cosa farne. Io godevo come una pazza e il clitoride mi si era tutto inturgidito e io fremevo dall’impazienza. Un istante dopo si era inginocchiato a gambe larghe al di sopra della mia testa. Glielo presi in mano. Mi faceva impressione vederlo così, davanti agli occhi. Lo guardai per un attimo affascinata, poi istintivamente aprii le labbra e glielo presi in bocca. Lui mi mise entrambe le mani dietro al collo e cominciò a imprimere un movimento alla mia testa. Avevo visto nei film porno come facevano. Seppi anch’io stringere le labbra attorno a quel coso caldo e vibrante. Ne sentivo ora anche il sapore dolciastro. Mi misi una mano nella fica e cominciai a masturbarmi mentre lui continuava a scoparmi in bocca.
Un attimo dopo si era disteso sul letto accanto a me e mi aveva sollevato sul suo corpo. Mi trovai seduta su di lui e quando subito dopo me lo sentii dentro ebbi un gemito. Sentii le sue mani prendermi sui fianchi a impormi di cavalcarlo su e giù. Gli ubbidii subito. Gemevo forte ogni volta che lo colpivo. Sentii poi le sue mani che mi sbottonavano il gonnellino. Un attimo dopo ero tutta nuda. Mi voltò e ora lo cavalcavo al contrario, con il culo verso di lui. Dovevo chinarmi un po’ in avanti per stare in equilibrio e ad un tratto sentii un dito che mi frugava nel buchetto. Avevo quasi perso coscienza, con gli occhi sbarrati mi agitavo su di lui. Ero io ora a sbatterlo.
Non so quanto durò la scopata, ma io ero sfinita quando lui, che ora mi aveva preso dal di dietro, con un urlo strozzato piombò sul mio corpo. Era uscito da me prima di farlo, così mi sentii il culo tutto imbrattato.
Ricordo che fu allora la prima volta che sentii un uomo farmi i complimenti per il bel culo che avevo. Mi disse che solo a pensarlo gli si rizzava a qualsiasi ora del giorno. Probabilmente era un sondaggio per vedere se ero disposta a prenderlo in quel posto.
Tornai altre volte da lui e una volta cercò di forzarmi di dietro, ma io non glielo permisi.
Questo fu l’inizio di una lunghissima serie di scopate che durò a lungo con un’altrettanto lunga fila di ragazzi. Nel periodo della scuola erano quasi sempre studenti e con tutti avevo relazioni sempre piuttosto corte. Finita la scuola gli uomini li trovavo in discoteca, alle feste oppure a volte per caso. Un po’ per partito preso, perchè io non mi fidavo degli uomini, un po’ per altre ragioni che non mi curavo di spiegare, non trovavo mai molto da dire con questi uomini. Li trovavo tutti sempre superficiali e poco interessanti, così, passata la soddisfazione di qualche scopata, finiva subito l’interessamento. Credo poi che la spavalderia che io mostravo in quei tempi facesse spavento a buona parte degli uomini che incontravo e io finivo così sempre nelle braccia degli stupidi. Siccome poi avevo sempre una corte di maschi che stavano in coda per venire con me, ero sempre io a fare la scelta e io prendevo sempre quelli che mi attiravano di più per il loro fisico. Ero diventata cinica ma non mi importava. Avevo anche trovato il sistema per portarmeli a casa. Mia mamma si era iscritta a un club filmografico, così sapevo quando non era a casa e ne approfittavo. Sempre però tutte relazioni brevi e superficiali. Mai una relazione seria.
Con il tempo e con tutte le scopate, mi ero anche fatto una bella esperienza. Ora sapevo cosa volevo dal mio piacere fisico. Di quello dei maschi non me ne fregava niente. Odiavo il pensiero tutto italiano sul sesso, che era così maschilista, per cui io dovevo ”dare la fica” o ”dare il culo”, come se fosse sempre un regalo che io, donna, davo all’uomo. Io partivo quindi sempre dal concetto che ero io a volermi prendere un cazzo, per farci io quello che mi piaceva fare. E ci ero anche riuscita, tranne quelle volte in cui mi imbattevo in maschi che non sapevano resistere che un paio di botte e poi se ne venivano. Quando questo succedeva però, io me ne sbarazzavo sempre in fretta, anche se erano carini e simpatici.
Con il tempo e a forza di far sesso cominciai a farmi esperienza sui cazzi dei maschi con cui andavo. Mi resi presto conto che la dimensione non era così importante, tranne qualche caso in cui ne trovai di dimensioni fuori del normale. In mano mi davano una sensazione piacevole di potenza. Quel coso grosso di cui potevo fare quello che volevo. Mi piaceva però soprattutto quando lo prendevo in bocca perché ne avvertivo meglio la forma con le labbra e quella sua tipica consistenza, quel misto di morbido e di rigido, con la lingua.
Sulla forma del cazzo avevo però imparato che quella a banana, quel cazzo ricurvo con la punta in su, era quello che mi faceva godere di più. Una volta in un bar mi misi a parlare con il barista, un giovane napoletano, magro, scuro di carnagione, che aveva un aspetto un po’ selvaggio. Era molto simpatico però, cordiale, sorridente. Mi disse della nostalgia che aveva di Napoli, del suo sole, dell’allegria della città. Poi, ammiccandomi un poco mi chiese se mi piaceva la mozzarella di bufala. Gli risposi che io e la mia mamma ne andavamo pazze. Lui mi disse allora che tra un paio di minuti avrebbe finito il suo turno e che se volevo ne potevo comprare un poco da lui che l’aveva appena ricevuta dai suoi. Aggiunse che abitava a due passi dal bar e che in due minuti ci saremmo arrivati. Lo attesi volentieri e quando uscimmo dal bar vidi che non era tanto alto ma che sgambettava agile con quel suo corpo magro, ossuto e le sue lunghe gambe. Senza il grembiule che portava dietro al banco era elegante con i suoi pantaloni scuri e un giubbotto di pelle. Mentre camminavamo lui mi guardava divertito senza dire una parola. Dopo un paio di minuti eravamo entrati in un vicolo e lui si era infilato in uno dei primi portoncini seguito da me. Facemmo un paio di piani lungo le scale e ci fermammo di fronte a una porta. Aperta la porta con la chiave ci trovammo in un buio, minuscolo ingresso che lui non si curò di illuminare. Lo seguii in una stanza all’interno dove vidi un tavolo da pranzo e delle sedie. Mi disse di aspettarlo lì. Un attimo dopo lo vidi uscire dalla cucina. ”Guarda che bella mozzarella”, mi disse venendomi incontro con una ciotola in mano. Sotto la ciotola faceva bella vista fuori dai calzoni un lungo cazzo.
L’invito così esplicito non mi sorprese. Misi sul tavolo la borsa che avevo in mano, mi tolsi la gonna, abbassai le mutandine e gli andai vicino. Un attimo dopo eravamo avvinghiati a un passo dal tavolo. A quel punto mi attirò a sé, mi girò verso il tavolo e mi prese da dietro. Non ebbi neanche il tempo di pensare. Fui assalita da una raffica di colpi che lui sferrava con quel suo corpo ossuto. Sentivo ad ogni colpo il tavolo spostarsi sotto di me. Un piede nel trambusto mi era uscito dalla scarpa. Lui allora si fermò. Mi spinse verso una porta. Entrammo in una camera. Ci gettammo su un letto. Lì fui io a prendere il comando. Gli presi il cazzo a due mani. Glielo accarezzai un attimo come per sentirne il peso. Me lo misi in bocca e glielo succhiai. Lui aveva chiuso gli occhi e mi lasciava fare. Allora mi misi a cavalcioni su di lui e cominciai a cavalcarlo. Lo facevo lentamente perchè volevo sentirlo ogni volta che premevo le reni su di lui. Seguitai a farlo per un po’ badando che non venisse. Quando lo vedevo vicino a scoppiare mi fermavo, uscivo da lui e gli stringevo il glande per un attimo. Poi riprendevo a cavalcarlo. Quando dopo un po’ mi fermai, glielo presi di nuovo in mano e lo feci venire così. Lasciai che lo spruzzo di sperma andasse sul letto.
Mi alzai dal letto, mi rivestii mentre lui mi guardava, poi gli chiesi quanto gli dovevo per la mozzarella. Si mise a ridere, mi disse che me la regalava, però voleva che tornassi. Gli risposi che mi sarei fatta viva presto al bar alla stessa ora.
Mi era molto piaciuta quella scopata e ne volli fare ancora. Ogni volta che andavo da lui erano orgasmi assicurati. Quel suo cazzo e quel modo frenetico, selvaggio che aveva di prendermi, in tutte le posizioni, mi faceva impazzire. Riuscii a malapena a salvare il culo. Perdevo la testa, con lui, e l’avrei certamente fatto se lui fosse solo stato più insistente. Un giorno che lo stavo cavalcando stavo quasi per cambiare buco, ma seppi frenarmi.
Avevo sempre rifiutato il sesso anale, perché avevo l’impressione che quello desse più piacere al maschio che a me. Però volevo che mi leccassero il culo e chiedevo sempre che me lo facessero mentre io mi masturbavo. Mi venivano così dei meravigliosi orgasmi. Lui aveva una lingua meravigliosa, che sapeva maneggiare come un ramarro.
Avevo questi pensieri in testa, di tempi felici, mentre camminavo, con la pioggerella che scrosciava sull’ombrello. Ora stavo per vedere il famigerato maestro di canto Arnaldi, e non ne avevo parlato con la mamma che di lui non voleva sentir parlare. Cosa mai le avrei detto se fosse diventato proprio lui il mio nuovo insegnante. Se lui mi avesse preso, s’intende. E se non mi avesse preso? Lasciai quei pensieri e ripresi a riflettere del passato.
Cantare era stata da sempre la mia passione. Avevo cominciato presto, quando ero ancora una ragazzina. La voce era bella, tutti lo dicevano. A scuola era sempre a me che si chiedeva di cantare nelle grandi occasioni, così, una volta finite le scuole la scelta del canto come professione era stata più che ovvia.
Il sesso che avevo cominciato a fare così presto e il canto, che anche quello fu così precoce, si erano ritrovati intrecciati tra loro, senza darsi alcun fastidio a vicenda. Anzi, le due cose andavano perfettamente d’accordo. La mia spregiudicatezza nel sesso sembrava aiutarmi ad affrontare qualsiasi imbarazzo o indecisione che mi mi si presentasse cantando. Andare sulla scena a un saggio o a un concerto non mi davano alcun timore.
Fu difficile la scelta della prima insegnante, anche perché c’era di mezzo la mamma e io secondo lei non potevo scegliere da sola. Non era una questione di prezzo, perche il conto in banca che il nonno mi aveva aperto per le lezioni di canto e per diventare, come diceva lui, una stella dell’opera, mi permetteva qualsiasi insegnante.
Da quella prima che avevo avuto ancora ragazzina ero poi passata ad una seconda e poi a una terza, sempre tutte donne, perché la mamma voleva così. Quando poi conobbi la quarta avevo già passato i venti anni. Sapevo che la strada sarebbe stata lunga per diventare una brava soprano, ma ora cominciavo ad avere fretta.
II maestro Arnaldi, dal quale mi stavo dirigendo adesso, mi era stato consigliato sin dall’inizio come uno dei più bravi in città, ed ero noto per aver formato alcuni dei più bravi cantanti di ultima generazione. Di lui si diceva però che fosse una persona burbera, severa, a volte perfino violenta, che maltrattava a volte gli allievi. Si diceva che alcuni li avesse addirittura sbattuti fuori dalla porta. Ma erano solo dicerie. Non avevamo mai incontrato qualcuno che lo avesse conosciuto personalmente.
Ora però, dopo la brutta catastrofe che aveva sconvolto la mia vita, non avevo più altra scelta. E se non andava con lui dovevo dire addio al canto e dare un nuovo corso alla mia vita. Questo mi faceva stare molto male.
Tutti i problemi erano nati con l’improvvisa apparizione di un uomo nella mia vita quando avevo appena iniziato i corsi con la quarta insegnante, in un momento in cui mi era parso di essere prossima al traguardo.
L’avevo incontrato per caso, quell’uomo, nel bar non lontano da casa, dove andavo quasi ogni giorno. Era bello, elegante e una decina d’anni più anziano di me. Era diverso da tutti quegli uomini con cui mi ero vista in quegli anni.
Ricordo che l’avevo già notato altre volte prima in quel bar, ma ora che gli stavo più vicino, al bancone a bere il cappuccino, gli vedevo meglio il suo bel volto. Ricordo che fu lui a parlarmi per primo. Mi chiese se anch’io abitavo da quelle parti, visto che ero spesso lí, in quel bar. Cominciammo a parlare e il tempo passò in fretta. Ad un tratto guardai l’orologio e mi accorsi che ero in ritardo alla lezione. Lui si offerse allora di accompagnarmi in macchina. Aveva una BMW parcheggiata non lontano. Mi fece salire. Gli raccontai delle lezioni di canto, del mio sogno di fare carriera, di diventare una brava cantante lirica. Ricordo che lui rimase molto impressionato. Era un buon conoscitore di musica e andava spesso a concerti. Conosceva bene anche la musica operistica e aveva i suoi cantanti preferiti. Parlammo tutto il tempo senza interruzione, così il tragitto durò poco. Ci salutammo e mentre stavo uscendo dalla macchina ricordo che ebbi l’impressione che mi volesse dire qualcosa, ma che poi si trattenne.
Lo rividi allo stesso bar qualche giorno dopo. Io avevo anche allora la mia lezione, così salimmo nuovamente sulla sua macchina. Questa volta fu lui a raccontarmi di sé. Mi disse che aveva un’attività di consulenza per conto di una multinazionale americana con sede a Milano. Si era trasferito qui solo da poco tempo. Ricordo che mi disse di avere ancora i suoi genitori a Milano, dove andava quasi ogni fine settimana.
Mentre stavo uscendo dalla macchina, questa volta lui mi prese per un braccio. Aveva solo alcune cose da sbrigare in ufficio, mi disse. Se volevo mi poteva venire a prendere al termine della lezione. Quel giorno ne avrei avuto per un paio di ore. Gli risposi di si, che mi avrebbe fatto piacere.
Ricordo che ero sfinita quel giorno perché era stata una lezione molto spossante che durò più del solito. Mi stava aspettando e io dovetti scusarmi per il ritardo. Lui però mi guardò sorridendo e mentre avviava il motore ricordo che mi disse che chi aspetta qualcosa di buono non aspetta mai troppo. Mi riportò a casa e lungo il tragitto mi raccontò che si sarebbe assentato per un po’. Non sapeva quanto tempo sarebbe stato via ma ci saremmo rivisti al bar. Non ci fu altro quella sera, ma fu meglio così perchè io ero molto stanca.
Trascorse così del tempo e quando finalmente lo rividi ero al solito bar. Me ne stavo al bancone immersa nei miei pensieri quando una mano si pose su una mia spalla. Mi girai e lo vidi al mio fianco, sorridente. Mi spiegò di essere stato all’estero ma che ora era contento di essere tornato al bar, pronto ad accompagnarmi alla mia lezione. Ridemmo tutti e due. Mi dissi sorpresa che ero contenta di rivederlo. Mi dava una sensazione di sicurezza che non avevo mai provato prima con un uomo. In macchina mi chiese se avevo fatto progressi durante la sua assenza. Gli spiegai che avevo una maestra severa che non mi faceva mai complimenti, così non sapevo mai se facevo progressi o meno.
Ricordo che lo vidi molto di buon umore quel giorno, o forse ero io che lo vedevo così dopo averlo atteso tutto quel tempo. Si, mi sorpresi a pensare in quel modo e mi domandai se per caso non mi stessi innamorando, ma non potevo saperlo perché non lo ero mai stata.
Mi disse che non poteva venirmi a prendere più tardi ma poi aggiunse subito che doveva chiedermi una cosa. Mi disse che il prossimo venerdi al teatro comunale davano un concerto di musica sinfonica. Mi chiese se avevo voglia di andarci con lui. Io non ci ero mai stata ad un concerto, ma conoscevo buona parte dei classici e a casa avevo una buona collezione di dischi. Gli risposi subito che ne sarei stata felice.
I giorni passarono molto in fretta. Quel venerdì io mi agghindai bene badando però a non esagerare. Ricordo che ero soddisfatta quando mi guardai allo specchio. La mamma era tutta incuriosita quando le dissi che andavo al concerto con un uomo. Mi fece un sacco di domande e io le risposi piuttosto seccata. Non aveva nient’altro a cui pensare, la mia povera mamma, e a volte mi sentivo soffocare dalla sua perenne curiosità.
Quando scesi in strada era già ad attendermi. Il concerto fu bellissimo e io ero entusiasta quando uscimmo dalla sala. Lui fu molto contento. Eravamo usciti dal teatro e ci stavamo ora dirigendo a piedi verso il centro. La macchina era in un parcheggio sotterraneo. Ricordo che lui si fermò e senza preamboli disse che era ora di mangiare. Mi avrebbe portato in un posticino che lui conosceva, dove si mangiava molto bene, mi disse.
Io non ero molto abituata ai ristoranti. Con le amiche si andava sempre in pizzeria e con i ragazzi che avevo frequentato era più o meno lo stesso. Il ristorante dove mi portò non era un Michelin, ma era molto elegante. Non era il tipo di locale che preferivo, ma io mi sentii subito a mio agio con lui vicino a me. Mi dava un sacco di sicurezza. Mangiammo e bevemmo divinamente bene ed eravamo molto allegri quando uscimmo dal ristorante. Non eravamo molto lontani dal parcheggio dove avevamo la macchina. Lui mi prese per mano e io gliela strinsi. Guardavamo le vetrine dei negozi mentre camminavamo tranquilli come se ci fossimo conosciuti da una vita. C’era già intesa tra noi, lo sentii appena presagli la mano. Arrivammo al parcheggio sotterraneo. Dovemmo scendere un paio di piani lungo una scala, ma arrivati in basso lui mi attirò a se e ci baciammo. Fu un lungo bacio in cui ci dicemmo tutto. C’era desiderio, c’era passione e in me c’era qualcosa di nuovo, provavo devozione, una cosa per me del tutto nuova.
Fu così che iniziò una relazione fantastica, un magnifico sogno da cui però dovetti più tardi risvegliarmi tragicamente.
Quella prima sera lui mi portò a casa sua. Un attico, non grande, ma elegante, con un bel terrazzo e la vista sulla città. Mi prese ancora tra le sue braccia e mi baciò nuovamente. Ricordo che volle lui spogliarmi e lo fece con lentezza baciandomi ogni lembo di carne che trovava. Si fermò a lungo sui miei capezzoli, che sfiorò con dolcezza con la sua lingua. Mi mise a sedere sul letto e poi si chinò con la testa a raggiungermi dove io lo desideravo dal primo momento che l’avevo visto.
Mi accorsi subito che c’era qualcosa di nuovo in me. Sentivo un desiderio imperioso di darmi a lui. Volevo che fosse lui a godere. Lo attirai così a me, gli abbassai i pantaloni, gli presi il cazzo con le mani e me lo portai in bocca. Lo tenni a lungo finché non fu lui a scostarsi da me per togliersi gli abiti che aveva addosso. Rimanemmo così ambedue nudi, abbracciati per un attimo, prima di riallacciarci. Durò a lungo, questo nostro primo amplesso e fu lui a condurre. Io conoscevo ormai bene il mio corpo e sapevo cosa volevo e io lo guidai a lungo cambiando posizioni senza mai staccarci. Ricordo che fui io a farlo venire la prima volta, mentre ci trovavamo capovolti, io con la mia bocca a succhiarlo e lui con la lingua dentro di me. Ad un tratto fu tale lo spasimo che provai che accelerai la pressione delle mie labbra finché lui non mi esplose in bocca.
Rimanemmo a lungo così, sdraiati, abbracciati l’uno all’altro. Lui accarezzava me ed io facevo lo stesso con lui. Non ci volle molto per lui per riprendersi e questa volta fu ancora più bello perché avevamo ripreso coscienza dei nostri sensi.
Quella notte rimasi lì con lui.
Passò così del tempo in cui ci vedevamo quasi ogni giorno. O meglio non ci vedevamo solo quando lui era in viaggio per lavoro o era a Milano dai genitori. Andavamo al cinema, ai concerti, al ristorante. Oppure restavamo a casa sua. Compravamo qualcosa al ristorante cinese o a volta la pizza. E quando restavamo a casa sua ci amavamo quasi tutto il tempo. La parola ”scopata” era scomparsa dalla mia testa, perché noi ci ”amavamo”. O perlomeno così tutto lasciava credere. Alcuni fine settimana lui non andava a Milano e allora andavamo in gita. Ricordo che mi portò una volta sul Lago Maggiore, un’altra a Portofino, un’altra ancora in Corsica, che lui conosceva molto bene.
Erano ormai trascorsi alcuni mesi e tutto andava a gonfie vele, compreso le mie lezioni di canto, che si erano fatte più intense in vista di un’importante esibizione che avrei dovuto fare di qui a poco. L’insegnante era entusiasta di me e si riprometteva un bel successo.
Le sole ombre tra noi erano i suoi viaggi a Milano. Col tempo venne spontaneo per me chiedergli se non potevo seguirlo quando lui doveva vedere i suoi genitori. Lui mi rispondeva sempre di si, ma poi per qualche ragione non era possibile. Nella sua camera da letto c’era una loro foto. Spesso guardandola mi diceva che sarebbe stato felice che loro mi potessero presto conoscere. Il tempo passava però e io stavo ancora aspettando.
Quando eravamo a casa sua lui era spesso al telefono. Per non disturbarmi lui si chiudeva in camera da letto e io non avevo alcuna possibilità di ascoltare cosa dicesse nè con chi parlasse. Erano spesso telefonate di lavoro e io non avevo nessuna ragione di sospettare che ci fosse altro. Perché la nostra relazione era perfetta, così perlomeno credevo, e la mia fiducia in lui era assoluta.
Una sera lo vidi uscire dalla sua camera a passi spediti. Mi disse che non c’era vino a casa e sarebbe uscito per comprarne al ristorante più vicino. Mi sfiorò con un bacio e uscì. Io entrai in camera per cambiarmi e notai il telefono che lui aveva lasciato sul letto. Fui presa dalla tentazione di guardarlo. C’era ancora la sua ultima telefonata registrata, un cliente. Mi venne la curiosità di guardare l’album delle foto. Ora che ci pensavo, lui stranamente non mi aveva mai fotografata. Quando mi si aprì l’album vidi subito alcune foto della madre, poi improvvisamente quella di un bambino e poi ancora dello stesso bambino diverse foto in situazioni diverse. Poi improvvisamente mi apparve una foto dove una giovane donna aveva in braccio lo stesso bambino. Continuai nervosamente a guardare e d’un tratto mi apparve un’altra foto dove lui, abbracciato alla donna, reggeva in braccio il bambino. Non potevo crederci. Andai a vedere allora i messaggi. Trovai tra gli ultimi arrivati il nome ripetuto della stessa donna. Ne aprii uno a caso. Mi bastò per capire.
La mia prima reazione fu di rabbia. Una furibonda rabbia mi fece scagliare il cellulare contro la parete. Mi alzai, corsi a vestirmi e di corsa uscii da quella casa sbattendo la porta. Mi precipitai per la scala. Dovevo raggiungere la strada senza essere vista. Aprii il portone e mi precipitai fuori. Corsi dalla parte opposta a quella che mi avrebbe portato a casa e continuai a correre con tutte le mie forze finché non raggiunsi casa mia. Salii le scale di corsa. Aprii la porta di casa, la richiusi dietro a me. Corsi in camera e mi richiusi dentro. Mi gettai allora sul letto e crollai in un pianto dirotto.
Vano fu il ripetuto bussare alla porta da parte di mia mamma quella sera. Rimasi chiusa a piangere sul letto distrutta.
Non so quanto a lungo rimasi lì a piangere. Ero affranta e non riuscivo a capire nulla. Un momento mi domandavo se era vero o ero solo un brutto sogno. Poi mi domandavo disperata perchè doveva succedere proprio a me. Non riuscivo a capire che l’uomo che avevo amato potesse essere lo stesso che mi aveva mentito in quel modo orrendo. Mi domandavo come potevo non essermi accorta che quell’uomo era un mostro. Mille domande mi facevo e nessuna risposta mi sapevo dare. E allora piangevo e mi disperavo. La vita mi si era rivoltata contro e io non volevo più viverla. Uscii di camera a notte inoltrata e in bagno cercai i sonniferi della mamma. Li trovai e stetti un attimo con la boccetta in mano. Prenderne in mano una manciata e ingoiarle tutte e farla finita, mi domandai. Stetti un attimo a pensare, poi ne presi solo due, bevetti dell’acqua e ritornai in camera. Ero affranta, poco dopo sentii l’effetto dei sonniferi giungermi alla testa. Mi addormentai e dormii un sonno terribile pieno di brutti sogni e quando mi risvegliai sentivo un’enorme pesantezza in testa.
Uscii la mattina dalla camera. Quando la mamma mi vide impallidì e poi mi corse incontro e io scoppiai a piangere tra le sue braccia mentre lei mi abbracciava e mi stringeva forte. Fu brava, la mamma, in quel frangente e fu proprio allora che il nostro rapporto cambiò. Lei rivide in me tutta la sofferenza che aveva vissuto e seppe così rispettare la mia. E fu lei a salvarmi. Ma io mi sentivo fallita. Come donna, come cantante, come tutto. Mi sentivo profondamente infelice.
Da quel giorno mi trascurai, decisi come di portare il lutto. Non andai alle lezioni di canto, chiusi il cellulare e non risposi alle telefonate che certamente ricevetti dall’insegnante di canto, che avrebbe dovuto dirigere la mia esibizione e non lo potè fare. Potevo considerare il mio rapporto con lei chiuso per sempre. Cosa avrei fatto ora non me lo domandai neppure.
Rimasi chiusa in casa per oltre una settimana e andavo in giro da una camera all’altra tutto il giorno in pigiama. Mi giunse un giorno una lettera. Riconobbi la sua scrittura e la gettai direttamente nel cestino. Dovevo dimenticare quell’uomo, dovevo cancellarne le sembianze dalla mia mente. Ma mi era impossibile. Ogni giorno mi tornavano a mente frangenti di quei nostri incontri, a casa sua, in macchina, in un ristorante, in letto. Ogni volta era una terribile scossa per me, che mi bruciava dentro. Ci vollero alcune settimane perché tutte le ferite si rimarginassero, perché tutto quel dolore che avevo addosso si attenuasse un poco.
Quando tornai ad uscire lo feci senza alcuna meta. Mi guardavo sempre intorno per non fare brutti incontri e per non essere riconosciuta mi vestivo ora con jeans e maglioni. A volte avevo un berretto in testa e portavo sempre gli occhiali scuri.
Passarono in questo modo un paio di mesi e io cominciai a riprendere un po’ del mio vigore fisico, ma mi sentivo ancora sperduta. Cominciai a rivedere alcune delle mie amiche, che rimasero tutte sorprese nel vedermi così cambiata. Mentii dicendo che ero stata ammalata.
Nel frattempo i miei folti capelli ricci erano cresciuti a dismisura e io non avevo fatto nulla per curarmeli. Andavo perciò sempre in giro spettinata, senza alcun trucco.
Fu la mamma un giorno che mentre io ero fuori aveva messo un disco di Cecilia Bartoli ad alto volume. Rientrando a casa sentii quella musica e qualcosa avvenne in me che mi fece piangere. Ma questa volta erano lacrime buone, che mi fecero bene. Mi sedetti sul divano e la mamma corse a sedersi vicino a me. Le chiesi di abbassare il volume e poi le dissi che volevo riprendere le lezioni di canto.
Continua
Mi ero svegliata agitata, stamattina, e ancora agitata mi sentivo adesso che già faceva buio e stavo per uscire. Dovevo incontrare il mio nuovo insegnante di canto, sempre che lo fosse diventato, e tutto il mio futuro di cantante lirica era in gioco.
Pioveva, fuori, ed era una giornata uggiosa, pesante, come tutti i pensieri che mi giravano per la testa. Avevo un’oretta di tempo per raggiungere la casa del maestro Arnaldi e decisi di incamminarmi già adesso. Avevo bisogno d’aria fresca e avevo soprattutto bisogno di fare chiarezza tra i miei pensieri. La camminata mi avrebbe fatto bene. Mi vestii, presi l’ombrello e uscii. Sotto l’ombrello mi misi a pensare, dovevo solo badare alle pozzanghere.
Ricordo che non avevo detto nulla alla mamma di questo appuntamento, Volevo tenerlo per me, almeno inizialmente, anche per non creare inutili aspettative.
Con la mamma avevo una buon rapporto, ma dopo che il papà se n’era andato che io ero ancora bambina, lei dopo il divorzio si era rintanata in casa e si vedeva solo con quelle poche amiche che aveva. Da quel momento comunque di uomini in quella casa non se n’erano più visti, con l’eccezione del nonno, che però era presto morto lasciandoci comunque mezzi per vivere più che dignitosamente. Avevamo, io e la mamma, la passione per la musica che ci legava, ma la casa per noi due sole ci stava a volte un po’ stretta.
Io ero quindi cresciuta con la sola mamma, che pur non facendomi mancare nulla, grazie anche al lauto assegno che riceveva mensilmente dopo il divorzio, mi pesava a volte per la sua presenza costante in casa. Trovammo comunque con il tempo una buona intesa e lei non ritenne di voler contrastare la mia indole piuttosto ribelle. Così pian piano conquistai una posizione in casa che mi garantì una buona autonomia e la mamma mi consentì di tenere la mia camera solo per me e sempre chiusa a chiave, cosa di cui le fui molto grata.
Mi ero formata in quel modo, all’ombra di questa mia madre, in una casa dove non c’era nulla di maschile senza che io ne conoscessi le ragioni. Un giorno che feci delle domande ebbi le solite risposte che si danno ai bambini. Non potevo capire, mi disse. Io però mi ero messo in testa che era stata colpa mia se lui se n’era andato e un giorno, quando ancora ero piccolina, lo dissi piangendo alla mamma. Quel giorno ricordo che lei mi prese in braccio e mi fece per tranquillizzarmi un lungo discorso, dal quale io però solo realizzai che degli uomini non ci si doveva fidare. Era nata però da quel momento in me nel contempo una curiosità morbosa per l’altro sesso che io non sapevo come poter colmare. Vedevo a scuola i miei compagni, leggevo romanzi, vedevo film, ma gli uomini restavano per me qualcosa di oscuro, di incognito di cui, appunto, non ci si doveva fidare. Tutto questo finì per condizionare il mio comportamento con i maschi. Non mi fidavo di loro e quindi prendevo di loro solo quello mi piaceva.
Nei primi anni della mia vita ero cresciuta precocemente e già sui dodici-tredici anni dovevo dare sfogo a tutta la libidine che mi sentivo addosso. Presi così ad esplorare il mio corpo. Iniziai presto a masturbarmi e lo facevo quasi ogni sera, a letto sotto le coperte. A tredici anni, un giorno d’estate che eravamo al mare, c’era in spiaggia una delle mie solite amichette. Avevamo mangiato e le nostre mamme stavano riposando sotto l’ombrellone. Noi avevamo il nostro posto dietro le cabine, dove andavamo di solito ad appartarci con altri amici a giocare e scherzare. Quel giorno eravamo noi due sole e cominciammo a fare le zozzone. La mia amica era più piccola di statura di me, ma aveva tette più grandi delle mie. Per di più aveva già sul pube una bella peluria nera, mentre su di me c’era solo un po’ di peluria biondiccia. Cominciammo a guardarci l’un l’altra e fu lei a toccarmi per prima. Mi diceva che la mia fica era strana e mi faceva vedere la sua, che secondo lei era diversa. A forza di toccarci ci venne in mente di masturbarci a vicenda. Non c’era un’anima viva in quel posto. Noi avevamo solo l’accappatoio addosso, così, sedute a gambe larghe ci stavamo masturbando, quando d’un tratto spuntò uno dei nostri amichetti. Aveva un paio d’anni più di noi ed era alto e piuttosto magro. Ci conoscevamo bene ormai da tempo, così prendemmo la cosa con naturalezza. Visto che lui ci aveva scoperto ora doveva tirare fuori anche lui il suo bell’attrezzo e mostrarci cosa ci sapeva fare. Così gli dicemmo con decisione, ancora sedute a gambe larghe. Lui non si fece pregare tanto, abbassò le mutandine e apparve ai nostri occhi un bel cazzo ritto, che lui cominciò ad agitare con la mano in piedi davanti a noi. Noi restammo ferme a guardarlo, così lui prese a scuoterlo con la mano freneticamente, finché ad un tratto si fermò. Gli si era ammosciato e lui sembrava avvilito. Si tirò su le mutandine e stava per andarsene quando io lo richiamai. Gli dissi di sedersi vicino a noi e lui un po’ a malincuore lo fece. Gli domandammo se voleva toccarci e lui non si fece pregare due volte. Avvicinò una mano su una mia gamba e io gliela presi subito e la premetti tra le mie gambe. Gli dissi che doveva infilare due dita dentro di me e toccarmi con dolcezza il clitoride. La mia amica fece altrettanto con l’altra mano, così ci trovammo seduti tutti e tre con lui che ci stava masturbando, prima cautamente, poi con sempre maggiore confidenza. Mentre lui faceva così vidi che il cazzo gli si era rizzato di nuovo, così glielo presi in mano e cominciai io allora a masturbarlo, finché lui non diede un suono strozzato e la mano mi si imbrattò del suo sperma. Ricordo ancora la sensazione che provai. Avvicinai la mia mano al naso e sentii l’odore che emanava da quel liquido biancastro. Fu quella la prima di tante altre volte. Sempre noi tre. Io avrei voluto provare altre cose ma loro erano sempre esitanti, così non se ne fece mai nulla. Restammo a quei semplici giochi.
Che tempi che erano, pensai mentre camminavo. Era tutto così nuovo, così eccitante a quell’età.
Con la scusa che mi serviva per la scuola, mi feci presto comprare un PC portatile dalla mamma. Con quello cominciai a guardare i film pornografici, che però mi fecero un po’ schifo. Trovavo tutto così artefatto che perfino i cazzi che si vedevano mi erano sembrati finti. Mi bastavano però alcuni pochi film per eccitarmi.
In classe, con le mie compagne mi trovavo bene ed ero tra le più in vista, sia perchè ero piuttosto alta e più fatta rispetto ad altre, sia perchè ero disinibita nel mio comportamento e questo faceva molto colpo sui maschi. Ma nessuno di loro mi interessava perchè erano troppo immaturi. Così andavo sempre con le mie compagne a guardare i ragazzi delle classi più avanti di noi e mi ero già fatta notare, senza però che succedesse niente.
Dopo quella prima estate ebbi presto una nuova esperienza, che fu piuttosto strana perché non me l’aspettavo e perché ne rimasi alquanto scossa. Ero andata al cinema con due compagne di classe. Al buio vidi un uomo alto di una certa età venire a sedersi vicino a me. Ne vidi un attimo il volto e vidi che era ben vestito. Sedendosi si era messo l’impermeabile piegato sulle gambe. Io non ci feci tanto caso, ma ad un tratto sentii la sua mano che si muoveva al mio fianco. Era insistente ed io ebbi l’impulso di fermarlo, ma per qualche ragione non lo feci. Lo lasciai fare, così dopo un po’ la sua mano si era fermata sulla mia gamba e scorreva ora giù lungo la coscia. Ero turbata, come paralizzata, ma stranamente, anziché fermare quella mano, d’istinto mi allungai sulla poltrona aprendo le gambe. Così, nel buio della sala, mentre sullo schermo scorrevano le immagini di un film, le dita di quell’uomo mi si erano infilate sotto le mutandine e ora erano entrate dentro e cominciavano a giocare con il mio clitoride. Ricordo ancora l’eccitazione che provai, chiusi gli occhi e dopo un po’ ebbi un fremito e non riuscii a fermare un orgasmo. A quel punto mi ricomposi subito di scatto e gli scostai la mano con forza. L’uomo si alzò e se ne andò. Tutto era successo in un attimo e le mie compagne non si erano accorte di nulla. Naturalmente a loro io non dissi una parola. La sera, a tavola, la mamma guardandomi in faccia mi chiese che era successo. Le dissi che avevo litigato con un’amica. In camera poi non riuscivo a togliermi dalla testa quello che mi era successo al cinema e più tardi, a letto, mi addormentai spossata con le mani strette tra le gambe. Non riuscivo a capire la mia reazione, mi vergognavo ma dovevo comunque confessare a me stessa che mi era piaciuto.
Quell’episodio mi diede una strana scossa, perché da allora cominciai ad essere più zozzona perfino a scuola. Una volta ero andata a fare la pipì in bagno e quando tornai in classe avevo le mutandine in una mano e niente sotto. Ricordo che ero tutta eccitata quando mi sedetti al banco. Per essere ancora più spregiudicata sollevai la gonna di dietro in modo da sedere direttamente sul legno. Ricordo che mi domandai ridendo dentro di me cosa avrebbero fatto i maschi della classe se lo avessero saputo. Me li immaginai tutti inginocchiati a annusare il sedile.
Dopo quella volta quasi tutti i giorni lo facevo e una volta se ne accorse la mia compagna di banco quando mi chinai per raccogliere da terra la penna che mi era caduta. Rimase a bocca aperta e mi chiese se ero impazzita. Le mentii dicendole che mi ero tolte le mutandine perché le avevo sporcate.
L’anno dopo le mie tette si erano fatte belle sode e proprio carine e io non facevo naturalmente niente per nasconderle, così quando potevo mi chinavo per mostrarle sotto la scollatura.
Si, insomma, mi piacevo, i ragazzi mi guardavano, mi sembrava di essere molto sexy e poi ora ero grande, e sapevo tutto del sesso, così almeno mi pareva. Facevo cose spericolate e mi sentivo spavalda. Se ne accorse perfino la mia maestra di canto che mi disse che ero molto migliorata nella mia voce e, come lei disse, nel mio modo di pormi, che però io non capii cosa volesse dire.
La mia mamma uno di quei giorni, forse preoccupata per qualche mio comportamento, per il mio vestire o forse solo perché sentiva che era venuto il momento di non considerarmi più una bambina, a pranzo mi fece un sacco di domande e mi parlò del sesso e mi spiegò con serietà tutte le cose a cui dovevo stare attenta. Era la prima volta che mi faceva discorsi di questo tipo e io risi un po’ dentro di me, perché mi resi conto che lei non aveva idea di quante cose io già sapessi. Quella volta mi accorsi però di un atteggiamento della mia mamma, che mi fece pensare che forse non era tutta colpa del papà se lui se n’era andato. Continuai a volerle bene ma la vidi ora con occhi diversi.
Avevo una quindicina d’anni quando finalmente ebbi la mia prima scopata, che a pensarci bene fu piuttosto trasgressiva. Avevo già avuto qualche piccolo approccio con ragazzi, appartati in una stanza a una festa o d’estate in spiaggia con i soliti amichetti ed anche con altri, ma solo grosse pomiciate, niente di più, malgrado le mie fantasie andassero ben oltre. Un giorno, parlando con una compagna di classe dei miei problemi in algebra fu lei a dirmi che se volevo potevo farmi aiutare da suo padre. Ero già stata alcune volte a casa di quella mia compagna che aveva qualcosa di analogo rispetto a me, in quanto viveva con il padre divorziato dalla madre, che vedeva solo di rado. Lui era un bell’uomo, ancora piuttosto giovane, simpatico e alla mano. Decidemmo che sarei andata a casa sua il prossimo sabato e io quel giorno sentii di volermi vestire in modo da apparire più grande. Così mi misi addosso una maglietta che metteva in risalto le tette, senza reggiseno, che io del resto non portavo quasi mai e un gonnellino che modellava il sedere, di cui andavo molto orgogliosa.
Quando arrivai a casa della mia compagna e lei mi aprì vidi subito il padre seduto su una poltrona che stava leggendo il giornale. Mi sorrise e mi disse di andare in cucina, Ci saremmo seduti lì a lavorare con l’algebra.
Non ero per nulla imbarazzata quando presi una sedia per sedermi a quel tavolo. La mia compagna se n’era andata in camera sua e io ricordo che quando lui mi raggiunse al tavolo mi strinse a lungo un braccio con la mano mentre si sedeva. Gli spiegai quali erano le cose che non capivo. Lui mi guardò sorridendo e poi cominciò a spiegarmi e non mi ci volle che una mezzoretta per capire, perché stupida non ero. A quel punto lui si era fermato e si era messo a guardarmi con un’aria scanzonata che mi aveva messo a disagio. E allora realizzai che mi aveva letto nel cervello. Aveva capito che io non volevo altro che una scopata. Lo vidi alzarsi dalla sedia e sentii la sua voce chiamare la figlia. Quando lei uscì dalla sua camera lui le disse di andare a comprare il gelato in gelateria mentre noi facevamo l’algebra. Le diede dei soldi in mano e lei uscì. Calcolai che avevamo una ventina di minuti per noi, ma la voglia che avevo era così grande che non mi importava niente del tempo.
Non ci dicemmo niente. Appena uscita lui mi prese subito per mano e mi portò nel salone dove troneggiava un bel divano di cuoio. Mi disse di sedermi. Lui sparì un attimo in bagno e tornò poi subito indietro. In un attimo mi afferrò e mi rovesciò sul divano. Con una mano mi sollevò la maglietta a scoprirmi le tette e con l’altra fece per sfilarmi le mutandine. Io lo aiutai sollevandomi quel tanto che bastava. Poi dopo un istante come se nulla fosse mi aveva sverginata.
Non sentii quasi nulla, ero rimasta paralizzata dal peso del suo corpo e dalla sorpresa. Era successo tutto così in fretta. Ci volle un attimo per riprendere coscienza. Lui restó fermo un attimo poi cominciò a sbattermi senza riguardo. Io mi sentivo dominata, incapace di connettere, soffocata da quel grosso corpo che mi colpiva. Sentivo una sua mano sulle tette, mentre lui con l’altra si teneva appoggiato al divano. Poi d’un tratto sentii le sue mani sollevarmi. Mi prese così, le mie gambe abbracciate al suo collo. Chiusi gli occhi incapace di connettere. Ora mi aveva girato, con la pancia sul divano e le ginocchia sul tappeto. Mi prese da dietro, le mani strette ai miei fianchi. Avevo visto quella posizione nei film porno, ma non pensavo che fosse così bello. Mi sentivo dominata e quella posizione mi faceva sentire puttana. I colpi da dietro erano più forti. Volevo urlare ma mi veniva solo un gemito strozzato. Poi lo sentii scoppiarmi dentro. Mi rovinò addosso.
Ricordo quella prima volta e quanto fu bello. Rimasi ferma, ero esausta. Fu lui ad alzarsi per primo e io mi misi a sedere sul divano. Sentii il freddo del cuoio sulla pelle. Lo vidi mentre si toglieva il preservativo. Non disse nulla quando si allontanò per andare nel bagno. Io mi rivestii tranquillamente. Mi sentivo in delirio, avevo finalmente scopato! Quanto tempo era durato non lo so. Non me ne resi conto. Per fortuna però il gelato non era ancora arrivato.
Tornando da me mi chiese se volevo andare in bagno. Mi piaceva il suo modo di fare, sicuro e deciso e allo stesso tempo cortese. Poi mi chiese anche se mi era piaciuto. Io mi sentivo ancora mezzo imbambolata e non seppi cosa rispondere. Lui si alzò dicendo che voleva farsi un caffè. Mi domandò se ne volevo anch’io. Gli risposi di no. Non mi piaceva. Dopo un po’ tornò la figlia con il gelato. La bella scopata e quell’aria di trasgressione che si era creata in quei pochi istanti me lo fecero gustare un sacco. Quando salutai prima di uscire lui mi fece i complimenti davanti alla figlia. Disse che ero stata molto brava e che lui mi avrebbe aiutato ancora quando volevo. La scopata era insomma piaciuta anche a lui e lo voleva fare ancora. Ci avrei pensato, mi dissi.
Dovetti attendere un po’ però per non insospettire la mia mia compagna, ma appena le lezioni di algebra cominciarono a farsi più complicate, chiesi ancora a lei se mi potevo far aiutare dal padre. Il giorno dopo a scuola mi venne incontro e mi disse che il padre poteva solo un venerdì pomeriggio, quando lei però aveva la lezione di danza. Mi chiese se per me andava bene lo stesso. Ricordo che la cosa mi mise un po’ in imbarazzo. Lì per lì dissi di no, che non volevo andare lì quando lei non c’era. Ma lei insistette. Il padre aveva detto di aver molto da fare in quel periodo e quello era l’unico giorno. E poi, dopo potevo spiegarlo anche a lei. Mi disse che il padre con lei si indispettiva sempre e le urlava quando lei non capiva.
Non stavo nella pelle quando suonai nuovamente a quella porta. Mi aprì lui dopo un attimo. Ricordo che aveva addosso una tuta e vidi che il cazzo era già in attenti. Mi disse solo ciao, poi con un braccio mi accompagnò subito in camera e senza preamboli mi buttò sul letto. Poi si inginocchiò accanto a me, e mi abbassò le mutandine. Un attimo dopo era a leccarmi la fica. Aveva la lingua grossa e forte e lui sapeva cosa farne. Io godevo come una pazza e il clitoride mi si era tutto inturgidito e io fremevo dall’impazienza. Un istante dopo si era inginocchiato a gambe larghe al di sopra della mia testa. Glielo presi in mano. Mi faceva impressione vederlo così, davanti agli occhi. Lo guardai per un attimo affascinata, poi istintivamente aprii le labbra e glielo presi in bocca. Lui mi mise entrambe le mani dietro al collo e cominciò a imprimere un movimento alla mia testa. Avevo visto nei film porno come facevano. Seppi anch’io stringere le labbra attorno a quel coso caldo e vibrante. Ne sentivo ora anche il sapore dolciastro. Mi misi una mano nella fica e cominciai a masturbarmi mentre lui continuava a scoparmi in bocca.
Un attimo dopo si era disteso sul letto accanto a me e mi aveva sollevato sul suo corpo. Mi trovai seduta su di lui e quando subito dopo me lo sentii dentro ebbi un gemito. Sentii le sue mani prendermi sui fianchi a impormi di cavalcarlo su e giù. Gli ubbidii subito. Gemevo forte ogni volta che lo colpivo. Sentii poi le sue mani che mi sbottonavano il gonnellino. Un attimo dopo ero tutta nuda. Mi voltò e ora lo cavalcavo al contrario, con il culo verso di lui. Dovevo chinarmi un po’ in avanti per stare in equilibrio e ad un tratto sentii un dito che mi frugava nel buchetto. Avevo quasi perso coscienza, con gli occhi sbarrati mi agitavo su di lui. Ero io ora a sbatterlo.
Non so quanto durò la scopata, ma io ero sfinita quando lui, che ora mi aveva preso dal di dietro, con un urlo strozzato piombò sul mio corpo. Era uscito da me prima di farlo, così mi sentii il culo tutto imbrattato.
Ricordo che fu allora la prima volta che sentii un uomo farmi i complimenti per il bel culo che avevo. Mi disse che solo a pensarlo gli si rizzava a qualsiasi ora del giorno. Probabilmente era un sondaggio per vedere se ero disposta a prenderlo in quel posto.
Tornai altre volte da lui e una volta cercò di forzarmi di dietro, ma io non glielo permisi.
Questo fu l’inizio di una lunghissima serie di scopate che durò a lungo con un’altrettanto lunga fila di ragazzi. Nel periodo della scuola erano quasi sempre studenti e con tutti avevo relazioni sempre piuttosto corte. Finita la scuola gli uomini li trovavo in discoteca, alle feste oppure a volte per caso. Un po’ per partito preso, perchè io non mi fidavo degli uomini, un po’ per altre ragioni che non mi curavo di spiegare, non trovavo mai molto da dire con questi uomini. Li trovavo tutti sempre superficiali e poco interessanti, così, passata la soddisfazione di qualche scopata, finiva subito l’interessamento. Credo poi che la spavalderia che io mostravo in quei tempi facesse spavento a buona parte degli uomini che incontravo e io finivo così sempre nelle braccia degli stupidi. Siccome poi avevo sempre una corte di maschi che stavano in coda per venire con me, ero sempre io a fare la scelta e io prendevo sempre quelli che mi attiravano di più per il loro fisico. Ero diventata cinica ma non mi importava. Avevo anche trovato il sistema per portarmeli a casa. Mia mamma si era iscritta a un club filmografico, così sapevo quando non era a casa e ne approfittavo. Sempre però tutte relazioni brevi e superficiali. Mai una relazione seria.
Con il tempo e con tutte le scopate, mi ero anche fatto una bella esperienza. Ora sapevo cosa volevo dal mio piacere fisico. Di quello dei maschi non me ne fregava niente. Odiavo il pensiero tutto italiano sul sesso, che era così maschilista, per cui io dovevo ”dare la fica” o ”dare il culo”, come se fosse sempre un regalo che io, donna, davo all’uomo. Io partivo quindi sempre dal concetto che ero io a volermi prendere un cazzo, per farci io quello che mi piaceva fare. E ci ero anche riuscita, tranne quelle volte in cui mi imbattevo in maschi che non sapevano resistere che un paio di botte e poi se ne venivano. Quando questo succedeva però, io me ne sbarazzavo sempre in fretta, anche se erano carini e simpatici.
Con il tempo e a forza di far sesso cominciai a farmi esperienza sui cazzi dei maschi con cui andavo. Mi resi presto conto che la dimensione non era così importante, tranne qualche caso in cui ne trovai di dimensioni fuori del normale. In mano mi davano una sensazione piacevole di potenza. Quel coso grosso di cui potevo fare quello che volevo. Mi piaceva però soprattutto quando lo prendevo in bocca perché ne avvertivo meglio la forma con le labbra e quella sua tipica consistenza, quel misto di morbido e di rigido, con la lingua.
Sulla forma del cazzo avevo però imparato che quella a banana, quel cazzo ricurvo con la punta in su, era quello che mi faceva godere di più. Una volta in un bar mi misi a parlare con il barista, un giovane napoletano, magro, scuro di carnagione, che aveva un aspetto un po’ selvaggio. Era molto simpatico però, cordiale, sorridente. Mi disse della nostalgia che aveva di Napoli, del suo sole, dell’allegria della città. Poi, ammiccandomi un poco mi chiese se mi piaceva la mozzarella di bufala. Gli risposi che io e la mia mamma ne andavamo pazze. Lui mi disse allora che tra un paio di minuti avrebbe finito il suo turno e che se volevo ne potevo comprare un poco da lui che l’aveva appena ricevuta dai suoi. Aggiunse che abitava a due passi dal bar e che in due minuti ci saremmo arrivati. Lo attesi volentieri e quando uscimmo dal bar vidi che non era tanto alto ma che sgambettava agile con quel suo corpo magro, ossuto e le sue lunghe gambe. Senza il grembiule che portava dietro al banco era elegante con i suoi pantaloni scuri e un giubbotto di pelle. Mentre camminavamo lui mi guardava divertito senza dire una parola. Dopo un paio di minuti eravamo entrati in un vicolo e lui si era infilato in uno dei primi portoncini seguito da me. Facemmo un paio di piani lungo le scale e ci fermammo di fronte a una porta. Aperta la porta con la chiave ci trovammo in un buio, minuscolo ingresso che lui non si curò di illuminare. Lo seguii in una stanza all’interno dove vidi un tavolo da pranzo e delle sedie. Mi disse di aspettarlo lì. Un attimo dopo lo vidi uscire dalla cucina. ”Guarda che bella mozzarella”, mi disse venendomi incontro con una ciotola in mano. Sotto la ciotola faceva bella vista fuori dai calzoni un lungo cazzo.
L’invito così esplicito non mi sorprese. Misi sul tavolo la borsa che avevo in mano, mi tolsi la gonna, abbassai le mutandine e gli andai vicino. Un attimo dopo eravamo avvinghiati a un passo dal tavolo. A quel punto mi attirò a sé, mi girò verso il tavolo e mi prese da dietro. Non ebbi neanche il tempo di pensare. Fui assalita da una raffica di colpi che lui sferrava con quel suo corpo ossuto. Sentivo ad ogni colpo il tavolo spostarsi sotto di me. Un piede nel trambusto mi era uscito dalla scarpa. Lui allora si fermò. Mi spinse verso una porta. Entrammo in una camera. Ci gettammo su un letto. Lì fui io a prendere il comando. Gli presi il cazzo a due mani. Glielo accarezzai un attimo come per sentirne il peso. Me lo misi in bocca e glielo succhiai. Lui aveva chiuso gli occhi e mi lasciava fare. Allora mi misi a cavalcioni su di lui e cominciai a cavalcarlo. Lo facevo lentamente perchè volevo sentirlo ogni volta che premevo le reni su di lui. Seguitai a farlo per un po’ badando che non venisse. Quando lo vedevo vicino a scoppiare mi fermavo, uscivo da lui e gli stringevo il glande per un attimo. Poi riprendevo a cavalcarlo. Quando dopo un po’ mi fermai, glielo presi di nuovo in mano e lo feci venire così. Lasciai che lo spruzzo di sperma andasse sul letto.
Mi alzai dal letto, mi rivestii mentre lui mi guardava, poi gli chiesi quanto gli dovevo per la mozzarella. Si mise a ridere, mi disse che me la regalava, però voleva che tornassi. Gli risposi che mi sarei fatta viva presto al bar alla stessa ora.
Mi era molto piaciuta quella scopata e ne volli fare ancora. Ogni volta che andavo da lui erano orgasmi assicurati. Quel suo cazzo e quel modo frenetico, selvaggio che aveva di prendermi, in tutte le posizioni, mi faceva impazzire. Riuscii a malapena a salvare il culo. Perdevo la testa, con lui, e l’avrei certamente fatto se lui fosse solo stato più insistente. Un giorno che lo stavo cavalcando stavo quasi per cambiare buco, ma seppi frenarmi.
Avevo sempre rifiutato il sesso anale, perché avevo l’impressione che quello desse più piacere al maschio che a me. Però volevo che mi leccassero il culo e chiedevo sempre che me lo facessero mentre io mi masturbavo. Mi venivano così dei meravigliosi orgasmi. Lui aveva una lingua meravigliosa, che sapeva maneggiare come un ramarro.
Avevo questi pensieri in testa, di tempi felici, mentre camminavo, con la pioggerella che scrosciava sull’ombrello. Ora stavo per vedere il famigerato maestro di canto Arnaldi, e non ne avevo parlato con la mamma che di lui non voleva sentir parlare. Cosa mai le avrei detto se fosse diventato proprio lui il mio nuovo insegnante. Se lui mi avesse preso, s’intende. E se non mi avesse preso? Lasciai quei pensieri e ripresi a riflettere del passato.
Cantare era stata da sempre la mia passione. Avevo cominciato presto, quando ero ancora una ragazzina. La voce era bella, tutti lo dicevano. A scuola era sempre a me che si chiedeva di cantare nelle grandi occasioni, così, una volta finite le scuole la scelta del canto come professione era stata più che ovvia.
Il sesso che avevo cominciato a fare così presto e il canto, che anche quello fu così precoce, si erano ritrovati intrecciati tra loro, senza darsi alcun fastidio a vicenda. Anzi, le due cose andavano perfettamente d’accordo. La mia spregiudicatezza nel sesso sembrava aiutarmi ad affrontare qualsiasi imbarazzo o indecisione che mi mi si presentasse cantando. Andare sulla scena a un saggio o a un concerto non mi davano alcun timore.
Fu difficile la scelta della prima insegnante, anche perché c’era di mezzo la mamma e io secondo lei non potevo scegliere da sola. Non era una questione di prezzo, perche il conto in banca che il nonno mi aveva aperto per le lezioni di canto e per diventare, come diceva lui, una stella dell’opera, mi permetteva qualsiasi insegnante.
Da quella prima che avevo avuto ancora ragazzina ero poi passata ad una seconda e poi a una terza, sempre tutte donne, perché la mamma voleva così. Quando poi conobbi la quarta avevo già passato i venti anni. Sapevo che la strada sarebbe stata lunga per diventare una brava soprano, ma ora cominciavo ad avere fretta.
II maestro Arnaldi, dal quale mi stavo dirigendo adesso, mi era stato consigliato sin dall’inizio come uno dei più bravi in città, ed ero noto per aver formato alcuni dei più bravi cantanti di ultima generazione. Di lui si diceva però che fosse una persona burbera, severa, a volte perfino violenta, che maltrattava a volte gli allievi. Si diceva che alcuni li avesse addirittura sbattuti fuori dalla porta. Ma erano solo dicerie. Non avevamo mai incontrato qualcuno che lo avesse conosciuto personalmente.
Ora però, dopo la brutta catastrofe che aveva sconvolto la mia vita, non avevo più altra scelta. E se non andava con lui dovevo dire addio al canto e dare un nuovo corso alla mia vita. Questo mi faceva stare molto male.
Tutti i problemi erano nati con l’improvvisa apparizione di un uomo nella mia vita quando avevo appena iniziato i corsi con la quarta insegnante, in un momento in cui mi era parso di essere prossima al traguardo.
L’avevo incontrato per caso, quell’uomo, nel bar non lontano da casa, dove andavo quasi ogni giorno. Era bello, elegante e una decina d’anni più anziano di me. Era diverso da tutti quegli uomini con cui mi ero vista in quegli anni.
Ricordo che l’avevo già notato altre volte prima in quel bar, ma ora che gli stavo più vicino, al bancone a bere il cappuccino, gli vedevo meglio il suo bel volto. Ricordo che fu lui a parlarmi per primo. Mi chiese se anch’io abitavo da quelle parti, visto che ero spesso lí, in quel bar. Cominciammo a parlare e il tempo passò in fretta. Ad un tratto guardai l’orologio e mi accorsi che ero in ritardo alla lezione. Lui si offerse allora di accompagnarmi in macchina. Aveva una BMW parcheggiata non lontano. Mi fece salire. Gli raccontai delle lezioni di canto, del mio sogno di fare carriera, di diventare una brava cantante lirica. Ricordo che lui rimase molto impressionato. Era un buon conoscitore di musica e andava spesso a concerti. Conosceva bene anche la musica operistica e aveva i suoi cantanti preferiti. Parlammo tutto il tempo senza interruzione, così il tragitto durò poco. Ci salutammo e mentre stavo uscendo dalla macchina ricordo che ebbi l’impressione che mi volesse dire qualcosa, ma che poi si trattenne.
Lo rividi allo stesso bar qualche giorno dopo. Io avevo anche allora la mia lezione, così salimmo nuovamente sulla sua macchina. Questa volta fu lui a raccontarmi di sé. Mi disse che aveva un’attività di consulenza per conto di una multinazionale americana con sede a Milano. Si era trasferito qui solo da poco tempo. Ricordo che mi disse di avere ancora i suoi genitori a Milano, dove andava quasi ogni fine settimana.
Mentre stavo uscendo dalla macchina, questa volta lui mi prese per un braccio. Aveva solo alcune cose da sbrigare in ufficio, mi disse. Se volevo mi poteva venire a prendere al termine della lezione. Quel giorno ne avrei avuto per un paio di ore. Gli risposi di si, che mi avrebbe fatto piacere.
Ricordo che ero sfinita quel giorno perché era stata una lezione molto spossante che durò più del solito. Mi stava aspettando e io dovetti scusarmi per il ritardo. Lui però mi guardò sorridendo e mentre avviava il motore ricordo che mi disse che chi aspetta qualcosa di buono non aspetta mai troppo. Mi riportò a casa e lungo il tragitto mi raccontò che si sarebbe assentato per un po’. Non sapeva quanto tempo sarebbe stato via ma ci saremmo rivisti al bar. Non ci fu altro quella sera, ma fu meglio così perchè io ero molto stanca.
Trascorse così del tempo e quando finalmente lo rividi ero al solito bar. Me ne stavo al bancone immersa nei miei pensieri quando una mano si pose su una mia spalla. Mi girai e lo vidi al mio fianco, sorridente. Mi spiegò di essere stato all’estero ma che ora era contento di essere tornato al bar, pronto ad accompagnarmi alla mia lezione. Ridemmo tutti e due. Mi dissi sorpresa che ero contenta di rivederlo. Mi dava una sensazione di sicurezza che non avevo mai provato prima con un uomo. In macchina mi chiese se avevo fatto progressi durante la sua assenza. Gli spiegai che avevo una maestra severa che non mi faceva mai complimenti, così non sapevo mai se facevo progressi o meno.
Ricordo che lo vidi molto di buon umore quel giorno, o forse ero io che lo vedevo così dopo averlo atteso tutto quel tempo. Si, mi sorpresi a pensare in quel modo e mi domandai se per caso non mi stessi innamorando, ma non potevo saperlo perché non lo ero mai stata.
Mi disse che non poteva venirmi a prendere più tardi ma poi aggiunse subito che doveva chiedermi una cosa. Mi disse che il prossimo venerdi al teatro comunale davano un concerto di musica sinfonica. Mi chiese se avevo voglia di andarci con lui. Io non ci ero mai stata ad un concerto, ma conoscevo buona parte dei classici e a casa avevo una buona collezione di dischi. Gli risposi subito che ne sarei stata felice.
I giorni passarono molto in fretta. Quel venerdì io mi agghindai bene badando però a non esagerare. Ricordo che ero soddisfatta quando mi guardai allo specchio. La mamma era tutta incuriosita quando le dissi che andavo al concerto con un uomo. Mi fece un sacco di domande e io le risposi piuttosto seccata. Non aveva nient’altro a cui pensare, la mia povera mamma, e a volte mi sentivo soffocare dalla sua perenne curiosità.
Quando scesi in strada era già ad attendermi. Il concerto fu bellissimo e io ero entusiasta quando uscimmo dalla sala. Lui fu molto contento. Eravamo usciti dal teatro e ci stavamo ora dirigendo a piedi verso il centro. La macchina era in un parcheggio sotterraneo. Ricordo che lui si fermò e senza preamboli disse che era ora di mangiare. Mi avrebbe portato in un posticino che lui conosceva, dove si mangiava molto bene, mi disse.
Io non ero molto abituata ai ristoranti. Con le amiche si andava sempre in pizzeria e con i ragazzi che avevo frequentato era più o meno lo stesso. Il ristorante dove mi portò non era un Michelin, ma era molto elegante. Non era il tipo di locale che preferivo, ma io mi sentii subito a mio agio con lui vicino a me. Mi dava un sacco di sicurezza. Mangiammo e bevemmo divinamente bene ed eravamo molto allegri quando uscimmo dal ristorante. Non eravamo molto lontani dal parcheggio dove avevamo la macchina. Lui mi prese per mano e io gliela strinsi. Guardavamo le vetrine dei negozi mentre camminavamo tranquilli come se ci fossimo conosciuti da una vita. C’era già intesa tra noi, lo sentii appena presagli la mano. Arrivammo al parcheggio sotterraneo. Dovemmo scendere un paio di piani lungo una scala, ma arrivati in basso lui mi attirò a se e ci baciammo. Fu un lungo bacio in cui ci dicemmo tutto. C’era desiderio, c’era passione e in me c’era qualcosa di nuovo, provavo devozione, una cosa per me del tutto nuova.
Fu così che iniziò una relazione fantastica, un magnifico sogno da cui però dovetti più tardi risvegliarmi tragicamente.
Quella prima sera lui mi portò a casa sua. Un attico, non grande, ma elegante, con un bel terrazzo e la vista sulla città. Mi prese ancora tra le sue braccia e mi baciò nuovamente. Ricordo che volle lui spogliarmi e lo fece con lentezza baciandomi ogni lembo di carne che trovava. Si fermò a lungo sui miei capezzoli, che sfiorò con dolcezza con la sua lingua. Mi mise a sedere sul letto e poi si chinò con la testa a raggiungermi dove io lo desideravo dal primo momento che l’avevo visto.
Mi accorsi subito che c’era qualcosa di nuovo in me. Sentivo un desiderio imperioso di darmi a lui. Volevo che fosse lui a godere. Lo attirai così a me, gli abbassai i pantaloni, gli presi il cazzo con le mani e me lo portai in bocca. Lo tenni a lungo finché non fu lui a scostarsi da me per togliersi gli abiti che aveva addosso. Rimanemmo così ambedue nudi, abbracciati per un attimo, prima di riallacciarci. Durò a lungo, questo nostro primo amplesso e fu lui a condurre. Io conoscevo ormai bene il mio corpo e sapevo cosa volevo e io lo guidai a lungo cambiando posizioni senza mai staccarci. Ricordo che fui io a farlo venire la prima volta, mentre ci trovavamo capovolti, io con la mia bocca a succhiarlo e lui con la lingua dentro di me. Ad un tratto fu tale lo spasimo che provai che accelerai la pressione delle mie labbra finché lui non mi esplose in bocca.
Rimanemmo a lungo così, sdraiati, abbracciati l’uno all’altro. Lui accarezzava me ed io facevo lo stesso con lui. Non ci volle molto per lui per riprendersi e questa volta fu ancora più bello perché avevamo ripreso coscienza dei nostri sensi.
Quella notte rimasi lì con lui.
Passò così del tempo in cui ci vedevamo quasi ogni giorno. O meglio non ci vedevamo solo quando lui era in viaggio per lavoro o era a Milano dai genitori. Andavamo al cinema, ai concerti, al ristorante. Oppure restavamo a casa sua. Compravamo qualcosa al ristorante cinese o a volta la pizza. E quando restavamo a casa sua ci amavamo quasi tutto il tempo. La parola ”scopata” era scomparsa dalla mia testa, perché noi ci ”amavamo”. O perlomeno così tutto lasciava credere. Alcuni fine settimana lui non andava a Milano e allora andavamo in gita. Ricordo che mi portò una volta sul Lago Maggiore, un’altra a Portofino, un’altra ancora in Corsica, che lui conosceva molto bene.
Erano ormai trascorsi alcuni mesi e tutto andava a gonfie vele, compreso le mie lezioni di canto, che si erano fatte più intense in vista di un’importante esibizione che avrei dovuto fare di qui a poco. L’insegnante era entusiasta di me e si riprometteva un bel successo.
Le sole ombre tra noi erano i suoi viaggi a Milano. Col tempo venne spontaneo per me chiedergli se non potevo seguirlo quando lui doveva vedere i suoi genitori. Lui mi rispondeva sempre di si, ma poi per qualche ragione non era possibile. Nella sua camera da letto c’era una loro foto. Spesso guardandola mi diceva che sarebbe stato felice che loro mi potessero presto conoscere. Il tempo passava però e io stavo ancora aspettando.
Quando eravamo a casa sua lui era spesso al telefono. Per non disturbarmi lui si chiudeva in camera da letto e io non avevo alcuna possibilità di ascoltare cosa dicesse nè con chi parlasse. Erano spesso telefonate di lavoro e io non avevo nessuna ragione di sospettare che ci fosse altro. Perché la nostra relazione era perfetta, così perlomeno credevo, e la mia fiducia in lui era assoluta.
Una sera lo vidi uscire dalla sua camera a passi spediti. Mi disse che non c’era vino a casa e sarebbe uscito per comprarne al ristorante più vicino. Mi sfiorò con un bacio e uscì. Io entrai in camera per cambiarmi e notai il telefono che lui aveva lasciato sul letto. Fui presa dalla tentazione di guardarlo. C’era ancora la sua ultima telefonata registrata, un cliente. Mi venne la curiosità di guardare l’album delle foto. Ora che ci pensavo, lui stranamente non mi aveva mai fotografata. Quando mi si aprì l’album vidi subito alcune foto della madre, poi improvvisamente quella di un bambino e poi ancora dello stesso bambino diverse foto in situazioni diverse. Poi improvvisamente mi apparve una foto dove una giovane donna aveva in braccio lo stesso bambino. Continuai nervosamente a guardare e d’un tratto mi apparve un’altra foto dove lui, abbracciato alla donna, reggeva in braccio il bambino. Non potevo crederci. Andai a vedere allora i messaggi. Trovai tra gli ultimi arrivati il nome ripetuto della stessa donna. Ne aprii uno a caso. Mi bastò per capire.
La mia prima reazione fu di rabbia. Una furibonda rabbia mi fece scagliare il cellulare contro la parete. Mi alzai, corsi a vestirmi e di corsa uscii da quella casa sbattendo la porta. Mi precipitai per la scala. Dovevo raggiungere la strada senza essere vista. Aprii il portone e mi precipitai fuori. Corsi dalla parte opposta a quella che mi avrebbe portato a casa e continuai a correre con tutte le mie forze finché non raggiunsi casa mia. Salii le scale di corsa. Aprii la porta di casa, la richiusi dietro a me. Corsi in camera e mi richiusi dentro. Mi gettai allora sul letto e crollai in un pianto dirotto.
Vano fu il ripetuto bussare alla porta da parte di mia mamma quella sera. Rimasi chiusa a piangere sul letto distrutta.
Non so quanto a lungo rimasi lì a piangere. Ero affranta e non riuscivo a capire nulla. Un momento mi domandavo se era vero o ero solo un brutto sogno. Poi mi domandavo disperata perchè doveva succedere proprio a me. Non riuscivo a capire che l’uomo che avevo amato potesse essere lo stesso che mi aveva mentito in quel modo orrendo. Mi domandavo come potevo non essermi accorta che quell’uomo era un mostro. Mille domande mi facevo e nessuna risposta mi sapevo dare. E allora piangevo e mi disperavo. La vita mi si era rivoltata contro e io non volevo più viverla. Uscii di camera a notte inoltrata e in bagno cercai i sonniferi della mamma. Li trovai e stetti un attimo con la boccetta in mano. Prenderne in mano una manciata e ingoiarle tutte e farla finita, mi domandai. Stetti un attimo a pensare, poi ne presi solo due, bevetti dell’acqua e ritornai in camera. Ero affranta, poco dopo sentii l’effetto dei sonniferi giungermi alla testa. Mi addormentai e dormii un sonno terribile pieno di brutti sogni e quando mi risvegliai sentivo un’enorme pesantezza in testa.
Uscii la mattina dalla camera. Quando la mamma mi vide impallidì e poi mi corse incontro e io scoppiai a piangere tra le sue braccia mentre lei mi abbracciava e mi stringeva forte. Fu brava, la mamma, in quel frangente e fu proprio allora che il nostro rapporto cambiò. Lei rivide in me tutta la sofferenza che aveva vissuto e seppe così rispettare la mia. E fu lei a salvarmi. Ma io mi sentivo fallita. Come donna, come cantante, come tutto. Mi sentivo profondamente infelice.
Da quel giorno mi trascurai, decisi come di portare il lutto. Non andai alle lezioni di canto, chiusi il cellulare e non risposi alle telefonate che certamente ricevetti dall’insegnante di canto, che avrebbe dovuto dirigere la mia esibizione e non lo potè fare. Potevo considerare il mio rapporto con lei chiuso per sempre. Cosa avrei fatto ora non me lo domandai neppure.
Rimasi chiusa in casa per oltre una settimana e andavo in giro da una camera all’altra tutto il giorno in pigiama. Mi giunse un giorno una lettera. Riconobbi la sua scrittura e la gettai direttamente nel cestino. Dovevo dimenticare quell’uomo, dovevo cancellarne le sembianze dalla mia mente. Ma mi era impossibile. Ogni giorno mi tornavano a mente frangenti di quei nostri incontri, a casa sua, in macchina, in un ristorante, in letto. Ogni volta era una terribile scossa per me, che mi bruciava dentro. Ci vollero alcune settimane perché tutte le ferite si rimarginassero, perché tutto quel dolore che avevo addosso si attenuasse un poco.
Quando tornai ad uscire lo feci senza alcuna meta. Mi guardavo sempre intorno per non fare brutti incontri e per non essere riconosciuta mi vestivo ora con jeans e maglioni. A volte avevo un berretto in testa e portavo sempre gli occhiali scuri.
Passarono in questo modo un paio di mesi e io cominciai a riprendere un po’ del mio vigore fisico, ma mi sentivo ancora sperduta. Cominciai a rivedere alcune delle mie amiche, che rimasero tutte sorprese nel vedermi così cambiata. Mentii dicendo che ero stata ammalata.
Nel frattempo i miei folti capelli ricci erano cresciuti a dismisura e io non avevo fatto nulla per curarmeli. Andavo perciò sempre in giro spettinata, senza alcun trucco.
Fu la mamma un giorno che mentre io ero fuori aveva messo un disco di Cecilia Bartoli ad alto volume. Rientrando a casa sentii quella musica e qualcosa avvenne in me che mi fece piangere. Ma questa volta erano lacrime buone, che mi fecero bene. Mi sedetti sul divano e la mamma corse a sedersi vicino a me. Le chiesi di abbassare il volume e poi le dissi che volevo riprendere le lezioni di canto.
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