Gli zii perbene - Parte 05
di
Esperançia D'Escobar
genere
dominazione
Marisa la afferrò per un polso e la spinse a stendersi sulle sue ginocchia. I capelli caddero davanti agli occhi e si sparpagliarono in morbide volute sul pavimento, appoggiò le mani a terra attenta a non tirarli. Un dito gelido s’insinuò oltre l’elastico delle mutandine, lo agganciò e «Queste ora le togliamo» tirò giù fino alle ginocchia.
«No!» Sabrina si torse all’indietro per recuperare l’indumento con una mano, ma a Marisa bastò inclinare la gamba su cui lei era appoggiata per scaricare tutto il suo peso sul braccio che la ragazza aveva lasciato a sostenerla. Perse l’equilibrio e fu costretta a lasciare le mutandine sotto il controllo di Marisa, che le calò fin sotto le ginocchia.
Perdere quell’ultimo baluardo, per quanto insignificante, la fece arrossire fin sulle radici dei capelli «No, quelle lasciale… no, zia, ti preg—»
Lo schiaffo a mano aperta che la colpì proprio al centro la fece trasalire più per l’umiliazione che per il dolore, ma non fece in tempo a urlare che ne piovvero altri tre come se al posto del braccio zia Marisa avesse avuto un martello pneumatico «Ogni parola che ti viene detta può essere vitale, vediamo se - così - te - lo - ricordi!» e sottolineò ogni parola con uno sculaccione dato con tutti i sentimenti.
Lei sgambettò, ma tutto quello che ottenne fu di far scivolare le mutandine fino alle caviglie «Basta, basta, ti prego!» strillò mentre nuove lacrime distruggevano il poco trucco sopravvissuto fino a quel momento.
Marisa si fermò «Vuoi andartene?» e passò la gamba esterna sopra le gambe di Sabrina, bloccando lei e qualsiasi tentativo di rimettere a posto la biancheria «Ti basta dirlo e tutto questo avrà termine immediatamente, dipende da cosa decidi di fare. Te ne vai, ti assumi la responsabilità e questa storia finisce qui.» si aggiustò il peso di Sabrina sull’unica gamba che ancora la reggeva, alla ragazza parve solida come un tronco «Resti perché vuoi rimediare ai tuoi errori, allora affronti la punizione e da domattina capirai cosa significa studiare sul serio.»
Sabrina singhiozzò «Resto.»
Marisa si chinò di lato, la sentì afferrare qualcosa, poi tornò eretta e disse «Adesso chiedimi di nuovo “Mi perdoni, signora Marisa, ho sbagliato, merito qualsiasi punizione lei decida di impormi” ti do dieci secondi per farlo, poi i colpi a te riservati raddoppieranno.»
«Ma me ne avete già dati trenta!» protestò lei tra le lacrime.
«sei, cinque, quat—»
«Mi perdoni, signora Marisa, ho sbagliato, merito qualsiasi punizione lei decida di impormi»
«E dopo la punizione ci sarà da farti scontare tutte queste mancanze. Devi imparare che con noi non si scherza e, me lo stai dimostrando tu stessa, è una lezione di cui hai estremo bisogno.» qualcosa di piatto e duro la colpì sulle natiche martoriate. Urlò, ma mentre il fiato le usciva senza più controllo il secondo colpo giunse e tramutò il suo urlo in un ululato.
«Dovrei chiamarti Lassie» la schernì Marisa «Ma sei troppo giovane per capire questa battuta, in compenso queste altre» e fece atterrare sulle sue chiappe ormai color ciliegia, altri tre colpi di tagliere dati a piena forza «le capisci eccome!»
«Basta, ti prego zia, basta!» urlò incapace di fare altro che appoggiare la testa a terra e usare le mani per parare i colpi. Voleva che tutto finisse e un pensiero le balenò nella testa: appena fosse rimasta sola col suo smartphone avrebbe chiamato papà, il suo paparino, e lo avrebbe implorato di mandare Camillo a prenderla e portarla via da quel luogo.
Marisa le afferrò le mani una dopo l’altra e gliele bloccò con una presa che pareva una morsa d’acciaio - ma era solo una delle sue mani - dietro la schiena.
Un colpo fortissimo la colpì al centro, un po’ più in basso, tanto che si sentì sollevare.
Urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
Papà mi dispiace, ahia, mi dispiace, mi dispiac—
Urlava, piangeva, sgambettava incapace di capire dove fossero volate le mutandine, scivolate oltre le caviglie.
Quando Marisa ebbe finito, le tolse la gamba che la bloccava e liberò le mani. Si alzò in piedi e si coprì il pube, un punto esclamativo nero che aveva curato nei dettagli. I suoi occhi saettavano di qua e di là in cerca degli slip.
Li vide di traverso su una sedia al tavolo da pranzo.
Stava per lanciarsi al recupero, ma si ricordò di quello che le aveva detto Marisa «Posso riprendermi—» ma non fece a tempo a completare la domanda.
«Certo che puoi e devi: la sedia del capotavola non è il posto più indicato per quella roba, prendi anche i pantaloni che hai lasciato a terra davanti al divano, poi dirigiti al solito angolo accanto al caminetto e appoggia tutto in terra accanto a te.»
Marisa si avvicinò alla credenza e proseguì «Faccia al muro, mi raccomando, così quando Eugenio verrà per darti la sua parte saprà che ho lavorato bene»
Sabrina rimase immobile, la bocca spalancata. Le gote presero a bruciarle, tanto quanto il fondoschiena; la ripassata appena ricevuta da Marisa le aveva lasciato un bel po’ di segni.
«Devo aggiungere un’altra mancanza? Hai capito che a ogni mancanza da parte tua corrisponderà una nuova punizione da parte nostra? Mettiti nella posizione che ti ho indicato, alla svelta!» Marisa, il micidiale tagliere d’ulivo ancora stretto nel pugno, le indicò l’angolo accanto al camino.
La ragazza si mosse e fece per piazzarsi nell’angolo indicato, ma sussultò quando Marisa la sgridò: «Signorina, recupera i vestiti come ti ho ordinato!».
Sempre più rossa in viso Sabrina riattraversò la stanza e dovette chinarsi fino a terra per eseguire l’ordine.
Marisa trasse dalla credenza tovaglia, piatti e posate. Sabrina la seguì con la coda dell’occhio mentre, col cuore che le pareva essere finito sotto i piedi, prendeva posizione accanto al camino.
«Posso rivestirmi?» domandò prima di posare a terra i vestiti.
«Sei sorda o mi stai prendendo in giro?» la zia continuava ad aggiustare la posizione di piatti e posate, poi di fronte al silenzio di Sabrina «Rispondi!»
Sabrina scosse la testa e intrecciò le mani sul capo, prima che arrivasse un’altra sgridata «Ci sento, ma non voglio che zio Eugenio… »
«Figurati se può essere interessato a una sciacquetta come te, adesso resta in silenzio e guarda il muro finché non verrai chiamata.» appoggiò l’ultimo cucchiaio sul tavolo «E ricordati che sei sempre libera di prendere le tue cose e andartene in qualsiasi momento. Se resti è perché sei tu che vuoi tutto questo.»
«No!» Sabrina si torse all’indietro per recuperare l’indumento con una mano, ma a Marisa bastò inclinare la gamba su cui lei era appoggiata per scaricare tutto il suo peso sul braccio che la ragazza aveva lasciato a sostenerla. Perse l’equilibrio e fu costretta a lasciare le mutandine sotto il controllo di Marisa, che le calò fin sotto le ginocchia.
Perdere quell’ultimo baluardo, per quanto insignificante, la fece arrossire fin sulle radici dei capelli «No, quelle lasciale… no, zia, ti preg—»
Lo schiaffo a mano aperta che la colpì proprio al centro la fece trasalire più per l’umiliazione che per il dolore, ma non fece in tempo a urlare che ne piovvero altri tre come se al posto del braccio zia Marisa avesse avuto un martello pneumatico «Ogni parola che ti viene detta può essere vitale, vediamo se - così - te - lo - ricordi!» e sottolineò ogni parola con uno sculaccione dato con tutti i sentimenti.
Lei sgambettò, ma tutto quello che ottenne fu di far scivolare le mutandine fino alle caviglie «Basta, basta, ti prego!» strillò mentre nuove lacrime distruggevano il poco trucco sopravvissuto fino a quel momento.
Marisa si fermò «Vuoi andartene?» e passò la gamba esterna sopra le gambe di Sabrina, bloccando lei e qualsiasi tentativo di rimettere a posto la biancheria «Ti basta dirlo e tutto questo avrà termine immediatamente, dipende da cosa decidi di fare. Te ne vai, ti assumi la responsabilità e questa storia finisce qui.» si aggiustò il peso di Sabrina sull’unica gamba che ancora la reggeva, alla ragazza parve solida come un tronco «Resti perché vuoi rimediare ai tuoi errori, allora affronti la punizione e da domattina capirai cosa significa studiare sul serio.»
Sabrina singhiozzò «Resto.»
Marisa si chinò di lato, la sentì afferrare qualcosa, poi tornò eretta e disse «Adesso chiedimi di nuovo “Mi perdoni, signora Marisa, ho sbagliato, merito qualsiasi punizione lei decida di impormi” ti do dieci secondi per farlo, poi i colpi a te riservati raddoppieranno.»
«Ma me ne avete già dati trenta!» protestò lei tra le lacrime.
«sei, cinque, quat—»
«Mi perdoni, signora Marisa, ho sbagliato, merito qualsiasi punizione lei decida di impormi»
«E dopo la punizione ci sarà da farti scontare tutte queste mancanze. Devi imparare che con noi non si scherza e, me lo stai dimostrando tu stessa, è una lezione di cui hai estremo bisogno.» qualcosa di piatto e duro la colpì sulle natiche martoriate. Urlò, ma mentre il fiato le usciva senza più controllo il secondo colpo giunse e tramutò il suo urlo in un ululato.
«Dovrei chiamarti Lassie» la schernì Marisa «Ma sei troppo giovane per capire questa battuta, in compenso queste altre» e fece atterrare sulle sue chiappe ormai color ciliegia, altri tre colpi di tagliere dati a piena forza «le capisci eccome!»
«Basta, ti prego zia, basta!» urlò incapace di fare altro che appoggiare la testa a terra e usare le mani per parare i colpi. Voleva che tutto finisse e un pensiero le balenò nella testa: appena fosse rimasta sola col suo smartphone avrebbe chiamato papà, il suo paparino, e lo avrebbe implorato di mandare Camillo a prenderla e portarla via da quel luogo.
Marisa le afferrò le mani una dopo l’altra e gliele bloccò con una presa che pareva una morsa d’acciaio - ma era solo una delle sue mani - dietro la schiena.
Un colpo fortissimo la colpì al centro, un po’ più in basso, tanto che si sentì sollevare.
Urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
Papà mi dispiace, ahia, mi dispiace, mi dispiac—
Urlava, piangeva, sgambettava incapace di capire dove fossero volate le mutandine, scivolate oltre le caviglie.
Quando Marisa ebbe finito, le tolse la gamba che la bloccava e liberò le mani. Si alzò in piedi e si coprì il pube, un punto esclamativo nero che aveva curato nei dettagli. I suoi occhi saettavano di qua e di là in cerca degli slip.
Li vide di traverso su una sedia al tavolo da pranzo.
Stava per lanciarsi al recupero, ma si ricordò di quello che le aveva detto Marisa «Posso riprendermi—» ma non fece a tempo a completare la domanda.
«Certo che puoi e devi: la sedia del capotavola non è il posto più indicato per quella roba, prendi anche i pantaloni che hai lasciato a terra davanti al divano, poi dirigiti al solito angolo accanto al caminetto e appoggia tutto in terra accanto a te.»
Marisa si avvicinò alla credenza e proseguì «Faccia al muro, mi raccomando, così quando Eugenio verrà per darti la sua parte saprà che ho lavorato bene»
Sabrina rimase immobile, la bocca spalancata. Le gote presero a bruciarle, tanto quanto il fondoschiena; la ripassata appena ricevuta da Marisa le aveva lasciato un bel po’ di segni.
«Devo aggiungere un’altra mancanza? Hai capito che a ogni mancanza da parte tua corrisponderà una nuova punizione da parte nostra? Mettiti nella posizione che ti ho indicato, alla svelta!» Marisa, il micidiale tagliere d’ulivo ancora stretto nel pugno, le indicò l’angolo accanto al camino.
La ragazza si mosse e fece per piazzarsi nell’angolo indicato, ma sussultò quando Marisa la sgridò: «Signorina, recupera i vestiti come ti ho ordinato!».
Sempre più rossa in viso Sabrina riattraversò la stanza e dovette chinarsi fino a terra per eseguire l’ordine.
Marisa trasse dalla credenza tovaglia, piatti e posate. Sabrina la seguì con la coda dell’occhio mentre, col cuore che le pareva essere finito sotto i piedi, prendeva posizione accanto al camino.
«Posso rivestirmi?» domandò prima di posare a terra i vestiti.
«Sei sorda o mi stai prendendo in giro?» la zia continuava ad aggiustare la posizione di piatti e posate, poi di fronte al silenzio di Sabrina «Rispondi!»
Sabrina scosse la testa e intrecciò le mani sul capo, prima che arrivasse un’altra sgridata «Ci sento, ma non voglio che zio Eugenio… »
«Figurati se può essere interessato a una sciacquetta come te, adesso resta in silenzio e guarda il muro finché non verrai chiamata.» appoggiò l’ultimo cucchiaio sul tavolo «E ricordati che sei sempre libera di prendere le tue cose e andartene in qualsiasi momento. Se resti è perché sei tu che vuoi tutto questo.»
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