– Beh? che c’è? – gli disse sorridendo.
di
Joe Cabot
genere
prime esperienze
“Ma guarda un po’ Roberta…”
Cesare l’aveva vista in classe ogni giorno per i 5 anni passati da compagni di classe all’ISIS “Felice Ippolito” e non l’aveva mai veramente considerata una ragazza. Per capirci, il suo abito tipico era una salopette di jeans e felpe un numero più grandi, portava i capelli rossi, ma tagliati corti, per lo più infilati in un berretto alla Meg Griffin.
Quindi, quando l’aveva ritrovata in quell’appartamento di amici, circa sei mesi dopo la maturità, infilata in una tuta-pigiama, e si era andati sul discorso degli studenti di ingegneria riconoscibili dai vestiti grezzi, era venuto fuori che aveva mollato la salopette, e lui si era fatto una gran risata e, complice la canna che stava girando, aveva dichiarato che se avesse visto Roberta vestita da donna l’avrebbe portata a cena fuori alla Petit Paris, che per loro studenti squattrinati era un posto ultra chic, e si sarebbe vestito a sua volta in giacca e cravatta. E lei, senza scomporsi, gli aveva dato appuntamento per la sera successiva.
Il giorno dopo era stato svegliato da un messaggio di Roberta che lo metteva in guardia dal darle buca. Stentò a ricordare, poi pensò ad uno scherzo, poi gli arrivò la foto di un vestito blu, da donna, disteso sul letto, e una più esplicita minaccia riguardante un paio di cesoie e il non pagare le scommesse.
Un amico fighetto gli aveva prestato un vestito e un ambulante per strada lo convinse a comprare una rosa rossa, che contribuì ancora di più a farlo sentire in imbarazzo quando entrò alla Petit Paris. Pensò che probabilmente non si sarebbe presentato nessuno, e sarebbe diventato lo zimbello dell’intera facoltà. Si avvicinò al banco per chiedere dov’era il tavolo prenotato, già pensando a come scusarsi per dover annullare la prenotazione, e fu allora che, con la coda dell’occhio, vide due scarpe con il tacco che sorreggevano due gambe calzate di nero. Alzò gli occhi e vide il volto arrossato di Roberta che gli sorrideva. Non solo era vestita da donna, ma era pure truccata e, semplicemente, non sembrava lei. Però era lei. Ma era come se non l’avesse vista mai. E mentre pensava queste cose la guardava inebetito.
– Beh? che c’è? – gli disse sorridendo.
“Ma guarda un po’ Roberta…”
– Quella è per me? – disse lei indicando la rosa. Pareva davvero stupita.
– Cosa? Ah, sì, certo – rispose a suo agio come una balena spiaggiata. La sua voce lo tranquillizzava. Se chiudeva gli occhi riconosceva la stessa inflessione, lo stesso tono con cui l’aveva sentita parlare di calcio o di meccanica a ricreazione per anni.
Dopo l’aperitivo, sparirono altri due mezzi litri di bollicine, e mangiarono un antipasto misto mare prima di passare alle linguine allo scoglio. Risero parecchio raccontandosi vecchi aneddoti delle superiori, dimenticando come erano vestiti e dove si trovavano ma d’un tratto Cesare, subito dopo aver ordinato altro vino e mentre la guardava battagliare con un gambero cercando di aprirne la coda con coltello e forchetta, pensò che era carina. Le efelidi sugli zigomi a ben pensarci erano graziose e d’un tratto Roberta disse di essere proprio imbranata, sorrise e le comparì una fossetta sulla guancia. Cesare arrossì, e la guardò negli occhi per vedere se lei se n’era accorta. Per fortuna era impegnata col gambero.
“Ma da quando ha gli occhi verdi?” si chiese confuso. “Sarà il trucco…”
Roberta scoppiò a ridere, perché il gambero le era scappato dal piatto. Sempre ridendo si diede della ‘mani di merda’, si scusò per l’espressione e, dopo uno sguardo fugace ai vicini di tavolo, si decise a raccogliere il fuggitivo con le mani, strapparne la coda e portarla alla bocca. Diede un morso e un po’ di sugo le schizzò il labbro su cui reggeva ancora un po’ di rossetto. Di nuovo rise e si portò un dito al labbro per raccogliere lo schizzetto e portarlo alla bocca. Cesare notò per la prima volta che si era messa lo smalto sulle unghie corte, ma curate.
– Sono proprio una porcellina – disse alzando gli occhi sui suoi un attimo, prima di riabbassarli perché stavolta fu lei ad arrossire, visto che lui la stava guardando in un modo nuovo, che non sapeva definire, ma sapeva di aver aspettato 5 anni di essere guardata così da lui.
– Sei carina, Roberta.
– Grazie, Cesare. Anche tu.
Si concentrarono sul cibo, in verità senza smettere di spiarsi di sottecchi e sorridersi, dapprima imbarazzati, poi divertiti dalla novità, infine complici. Presero il caffè, niente dolce, e brindarono con pelinkovez.
Uscirono e si incamminarono lungo i portici. Dopo qualche passo, le dita si trovarono da sole, a partire dai mignoli, e Cesare ricordò tutto la vita la sensazione del polso di lei che, per la prima volta, si strusciava contro il suo. Ad un semaforo si dovettero fermare in attesa del verde e Roberta gli si avvicinò. Si baciarono. Verde, rosso, poi di nuovo verde, mentre radi nottambuli o ritardatari passavano loro accanto intabarrati per la fredda brezza che su loro due, ventenni innamorati, non aveva alcun effetto.
Quando smisero, ricominciarono, e poi si staccarono solo per guardarsi un po’ negli occhi e scoppiare a ridere mentre finalmente passavano la strada. Vagarono senza meta per qualche centinaio di passi e alla fine si trovarono davanti l’ingresso di un hotel. L’interno era molto illuminato, la hall ampia, il mobilio stiloso. Si guardarono e, mentre Cesare si faceva i suoi calcoli per capire quanto gli era restato sul conto dopo il ristorante, Roberta, eccitata, disse: “saliamo?”
E poi aggiunse “guarda che pago io.”
– Sicura?
“Altrochè”, si disse Roberta, trascinandoselo dentro.
La camera era più anonima che graziosa, ma non ci badarono perché era la loro prima stanza d’albergo e parve loro meravigliosa.
Appena soli lei gli saltò addosso, gli si infilò in bocca con la sua bocca, le sue labbra, la sua lingua. Si lasciò cadere alle spalle il cappotto e poi gli sfilò giaccone e giacca come una furia. Dovette aiutarla con la cravatta perché aveva l’aria di volergliela strappare e per poco non gli fece saltare i bottoni della camicia. Solo allora smise di baciarlo e si staccò un attimo, fissandolo negli occhi con una sguardo da pantera affamata, con la bocca socchiusa e il respiro affannato. Roberta lo desiderava e non c’era altro che quel desiderio nei gesti frenetici con coi gli sfilò la canotta e si buttò sul suo petto con le labbra tumide. Non c’era che quel desiderio, il desiderio di sentire le sua mani da maschio sul suo corpo da femmina, quando gliele prese e se le tirò addosso. E quando sentì nelle mani dell’uomo lo stesso suo desiderio impazzì. Si sfilò il maglioncino e lui fece appena in tempo a vedere l’inizio dei suoi seni, resi tondeggianti dal pushup – che si ritrovò la mano di lei sulla nuca e gli toccò di infilare il viso tra quel ben di dio. Aveva un odore invitante, e la sua pelle rosea, spruzzata di efelidi, contrastava con il contorno nero della canottierina e del reggiseno.
Roberta buttò la testa all’indietro, inebriata come non mai, e rise sentendo la bocca di Cesare che cercava di capire il da farsi tra i suoi seni. Sperò trovasse presto la via dei capezzoli, che sentiva indurirsi contro il pizzo del reggiseno. Gli mollò la nuca per slacciarselo e se lo fece scivolare dalle spalle con un gesto di magia, e Cesare all’improvviso si trovò davanti due seni portentosi sottolineati più che nascosti dalla canottierina nera, sorretta da due capezzoli. Rimase come una bambino davanti ad una vetrina di dolci finchè lei gli afferrò di nuovo la nuca, ma stavolta gliela forzò all’indietro, tenendolo per i capelli, per infilargli di nuovo la lingua in bocca prima di spingerlo via e farlo cadere a sedere sul letto. Prima che lui ci capisse qualcosa, lei si era buttata in ginocchio, e armeggiava sulla sua patta.
Prima di Roberta, c’era stata Silvia che però lo faceva come fosse una procedura, una cosa da fare ad un certo punto della serata, ma Roberta no. Lo prese in bocca golosa, come da bambina apriva i regali di Natale. Cesare alzò il capo tanto da vedere la sua testa, la sua bocca, fare su e giù, lei sollevò lo sguardo, lasciò il boccone, gli sorrise, gli afferrò le mani e riprese il boccone in bocca. Strinse forte una mano, mentre scendeva con la bocca fin quasi alla base, e si posò l’altra sulla nuca, invitandola a guidarla. Prima di Cesare c’era stato Giulio, che se lo faceva fare così, mettendoglielo e rimettendoglielo in bocca, finchè gli pareva, tenendole ferma la testa. Ma Cesare no. Era rimasto fermo come timoroso di farle male, e allo stesso tempo il suo cazzo pareva pulsare, forte eppure languido. Quando alzò gli occhi aveva una faccia che non gli aveva mai visto, era bellissimo, e lo riprese in bocca immaginando che le entrasse a fondo nella vagina. Lui invece di ficcarglielo e rificcarglielo, la lasciò fare toccandole la nuca come se avesse toccato una rosa. Lei si sentì sciogliere, si sentì come priva di ossa, si sentì solo carne e pelle, e la voglia di essere riempita raggiunse il culmine.
Prima di Cesare c’era stato Franco, ma non contava quell’esperienza rabbiosa, che assomigliava più ad un togliersi il pensiero, che era durata allo stesso poco e troppo. Ora invece si sentiva pronta, più che pronta. La gonna cadde ai suoi piedi in un attimo, e poi fu la volta dei collant, delle mutandine. Gli salì sopra sorridendogli, godendosi ogni goccia di stupore e meraviglia che quel bellissimo viso tradiva, arrossendo emozionata per quello che il suo sguardo le diceva. I suoi occhi erano a tratti da bimbo serio, a tratti avevano i lampi dell’uomo che non era ancora e che stava iniziando a diventare proprio lì, in quel momento.
Prima di Roberta c’era stata Silvia, ma non quella con cui stava alle superiori, quella dell’ultimo dell’anno. Gli aveva detto che era carino, e se l’era portato di sopra. Lui pensava di limonarci, magari di tastarla un po’. Invece era finito dentro di lei, e ricordava poco, se non un po’ di imbarazzo mentre lei, con una sigaretta in bocca, si metteva a posto la gonna, per tornare di sotto. Invece quando Roberta si sollevò per spogliarsi, non riuscì a togliere gli occhi dal suo viso meraviglioso, da quegli occhi verdi. La vide arrossire, e sorridere, mentre gli saliva sopra con movimenti da anaconda. Si fece scivolare dentro il link piano, dopo esserselo strusciata tra le labbra già roride. Quando fu dentro, tutto dentro con un grande sospiro, Roberta si sentì felice, e Cesare si sentì felice. Lei si abbandonò su di lui, trovando rifugio sulla sua spalla, e lui la abbracciò baciandole la testa. Il pene pulsò, e altrettanto fece la vagina, senza che nessuno dei due ne fosse consapevole. Lei girò il volto, e si baciarono, e lentamente lei cominciò a muovere i fianchi, e non ci misero molto a perdere il controllo. Lei si sollevò e si sfilò le canottierina e lui raggiunse immediatamente con la bocca quei seni che gli erano scoppiati in faccia. Lei gemette e prese a cavalcare un po’ come veniva, finchè con balzo scappò via e si lasciò cadere al suo fianco, ansimando.
Lui rimase con l’affare a mo’ di pennone, con il vuoto attorno a sé, e la guardò finchè lei non si voltò, ansimante e rossa, di nuovo con lo sguardo da pantera affamata.
– Montami – sussurrò.
Lui scattò come una molla. Aveva ancora i pantaloni alle caviglie e se ne liberò in fretta, assieme ai calzini, mentre lei lo fissava felina, scivolando sui gomiti al centro del letto. E quindi le fu sopra. E la montò. E fu tutta un’anarchia di mani, piedi, labbra, odori, saliva, muscoli, peli, anfratti, lingue e cazzo in fica, e fica in cazzo, e sospiri e gemiti, e pure parolacce e paroline (che non riveleremo, perché troppo intime) fino alla fine, fino alla fine.
FINE
[voti e commenti sono molto graditi]
Cesare l’aveva vista in classe ogni giorno per i 5 anni passati da compagni di classe all’ISIS “Felice Ippolito” e non l’aveva mai veramente considerata una ragazza. Per capirci, il suo abito tipico era una salopette di jeans e felpe un numero più grandi, portava i capelli rossi, ma tagliati corti, per lo più infilati in un berretto alla Meg Griffin.
Quindi, quando l’aveva ritrovata in quell’appartamento di amici, circa sei mesi dopo la maturità, infilata in una tuta-pigiama, e si era andati sul discorso degli studenti di ingegneria riconoscibili dai vestiti grezzi, era venuto fuori che aveva mollato la salopette, e lui si era fatto una gran risata e, complice la canna che stava girando, aveva dichiarato che se avesse visto Roberta vestita da donna l’avrebbe portata a cena fuori alla Petit Paris, che per loro studenti squattrinati era un posto ultra chic, e si sarebbe vestito a sua volta in giacca e cravatta. E lei, senza scomporsi, gli aveva dato appuntamento per la sera successiva.
Il giorno dopo era stato svegliato da un messaggio di Roberta che lo metteva in guardia dal darle buca. Stentò a ricordare, poi pensò ad uno scherzo, poi gli arrivò la foto di un vestito blu, da donna, disteso sul letto, e una più esplicita minaccia riguardante un paio di cesoie e il non pagare le scommesse.
Un amico fighetto gli aveva prestato un vestito e un ambulante per strada lo convinse a comprare una rosa rossa, che contribuì ancora di più a farlo sentire in imbarazzo quando entrò alla Petit Paris. Pensò che probabilmente non si sarebbe presentato nessuno, e sarebbe diventato lo zimbello dell’intera facoltà. Si avvicinò al banco per chiedere dov’era il tavolo prenotato, già pensando a come scusarsi per dover annullare la prenotazione, e fu allora che, con la coda dell’occhio, vide due scarpe con il tacco che sorreggevano due gambe calzate di nero. Alzò gli occhi e vide il volto arrossato di Roberta che gli sorrideva. Non solo era vestita da donna, ma era pure truccata e, semplicemente, non sembrava lei. Però era lei. Ma era come se non l’avesse vista mai. E mentre pensava queste cose la guardava inebetito.
– Beh? che c’è? – gli disse sorridendo.
“Ma guarda un po’ Roberta…”
– Quella è per me? – disse lei indicando la rosa. Pareva davvero stupita.
– Cosa? Ah, sì, certo – rispose a suo agio come una balena spiaggiata. La sua voce lo tranquillizzava. Se chiudeva gli occhi riconosceva la stessa inflessione, lo stesso tono con cui l’aveva sentita parlare di calcio o di meccanica a ricreazione per anni.
Dopo l’aperitivo, sparirono altri due mezzi litri di bollicine, e mangiarono un antipasto misto mare prima di passare alle linguine allo scoglio. Risero parecchio raccontandosi vecchi aneddoti delle superiori, dimenticando come erano vestiti e dove si trovavano ma d’un tratto Cesare, subito dopo aver ordinato altro vino e mentre la guardava battagliare con un gambero cercando di aprirne la coda con coltello e forchetta, pensò che era carina. Le efelidi sugli zigomi a ben pensarci erano graziose e d’un tratto Roberta disse di essere proprio imbranata, sorrise e le comparì una fossetta sulla guancia. Cesare arrossì, e la guardò negli occhi per vedere se lei se n’era accorta. Per fortuna era impegnata col gambero.
“Ma da quando ha gli occhi verdi?” si chiese confuso. “Sarà il trucco…”
Roberta scoppiò a ridere, perché il gambero le era scappato dal piatto. Sempre ridendo si diede della ‘mani di merda’, si scusò per l’espressione e, dopo uno sguardo fugace ai vicini di tavolo, si decise a raccogliere il fuggitivo con le mani, strapparne la coda e portarla alla bocca. Diede un morso e un po’ di sugo le schizzò il labbro su cui reggeva ancora un po’ di rossetto. Di nuovo rise e si portò un dito al labbro per raccogliere lo schizzetto e portarlo alla bocca. Cesare notò per la prima volta che si era messa lo smalto sulle unghie corte, ma curate.
– Sono proprio una porcellina – disse alzando gli occhi sui suoi un attimo, prima di riabbassarli perché stavolta fu lei ad arrossire, visto che lui la stava guardando in un modo nuovo, che non sapeva definire, ma sapeva di aver aspettato 5 anni di essere guardata così da lui.
– Sei carina, Roberta.
– Grazie, Cesare. Anche tu.
Si concentrarono sul cibo, in verità senza smettere di spiarsi di sottecchi e sorridersi, dapprima imbarazzati, poi divertiti dalla novità, infine complici. Presero il caffè, niente dolce, e brindarono con pelinkovez.
Uscirono e si incamminarono lungo i portici. Dopo qualche passo, le dita si trovarono da sole, a partire dai mignoli, e Cesare ricordò tutto la vita la sensazione del polso di lei che, per la prima volta, si strusciava contro il suo. Ad un semaforo si dovettero fermare in attesa del verde e Roberta gli si avvicinò. Si baciarono. Verde, rosso, poi di nuovo verde, mentre radi nottambuli o ritardatari passavano loro accanto intabarrati per la fredda brezza che su loro due, ventenni innamorati, non aveva alcun effetto.
Quando smisero, ricominciarono, e poi si staccarono solo per guardarsi un po’ negli occhi e scoppiare a ridere mentre finalmente passavano la strada. Vagarono senza meta per qualche centinaio di passi e alla fine si trovarono davanti l’ingresso di un hotel. L’interno era molto illuminato, la hall ampia, il mobilio stiloso. Si guardarono e, mentre Cesare si faceva i suoi calcoli per capire quanto gli era restato sul conto dopo il ristorante, Roberta, eccitata, disse: “saliamo?”
E poi aggiunse “guarda che pago io.”
– Sicura?
“Altrochè”, si disse Roberta, trascinandoselo dentro.
La camera era più anonima che graziosa, ma non ci badarono perché era la loro prima stanza d’albergo e parve loro meravigliosa.
Appena soli lei gli saltò addosso, gli si infilò in bocca con la sua bocca, le sue labbra, la sua lingua. Si lasciò cadere alle spalle il cappotto e poi gli sfilò giaccone e giacca come una furia. Dovette aiutarla con la cravatta perché aveva l’aria di volergliela strappare e per poco non gli fece saltare i bottoni della camicia. Solo allora smise di baciarlo e si staccò un attimo, fissandolo negli occhi con una sguardo da pantera affamata, con la bocca socchiusa e il respiro affannato. Roberta lo desiderava e non c’era altro che quel desiderio nei gesti frenetici con coi gli sfilò la canotta e si buttò sul suo petto con le labbra tumide. Non c’era che quel desiderio, il desiderio di sentire le sua mani da maschio sul suo corpo da femmina, quando gliele prese e se le tirò addosso. E quando sentì nelle mani dell’uomo lo stesso suo desiderio impazzì. Si sfilò il maglioncino e lui fece appena in tempo a vedere l’inizio dei suoi seni, resi tondeggianti dal pushup – che si ritrovò la mano di lei sulla nuca e gli toccò di infilare il viso tra quel ben di dio. Aveva un odore invitante, e la sua pelle rosea, spruzzata di efelidi, contrastava con il contorno nero della canottierina e del reggiseno.
Roberta buttò la testa all’indietro, inebriata come non mai, e rise sentendo la bocca di Cesare che cercava di capire il da farsi tra i suoi seni. Sperò trovasse presto la via dei capezzoli, che sentiva indurirsi contro il pizzo del reggiseno. Gli mollò la nuca per slacciarselo e se lo fece scivolare dalle spalle con un gesto di magia, e Cesare all’improvviso si trovò davanti due seni portentosi sottolineati più che nascosti dalla canottierina nera, sorretta da due capezzoli. Rimase come una bambino davanti ad una vetrina di dolci finchè lei gli afferrò di nuovo la nuca, ma stavolta gliela forzò all’indietro, tenendolo per i capelli, per infilargli di nuovo la lingua in bocca prima di spingerlo via e farlo cadere a sedere sul letto. Prima che lui ci capisse qualcosa, lei si era buttata in ginocchio, e armeggiava sulla sua patta.
Prima di Roberta, c’era stata Silvia che però lo faceva come fosse una procedura, una cosa da fare ad un certo punto della serata, ma Roberta no. Lo prese in bocca golosa, come da bambina apriva i regali di Natale. Cesare alzò il capo tanto da vedere la sua testa, la sua bocca, fare su e giù, lei sollevò lo sguardo, lasciò il boccone, gli sorrise, gli afferrò le mani e riprese il boccone in bocca. Strinse forte una mano, mentre scendeva con la bocca fin quasi alla base, e si posò l’altra sulla nuca, invitandola a guidarla. Prima di Cesare c’era stato Giulio, che se lo faceva fare così, mettendoglielo e rimettendoglielo in bocca, finchè gli pareva, tenendole ferma la testa. Ma Cesare no. Era rimasto fermo come timoroso di farle male, e allo stesso tempo il suo cazzo pareva pulsare, forte eppure languido. Quando alzò gli occhi aveva una faccia che non gli aveva mai visto, era bellissimo, e lo riprese in bocca immaginando che le entrasse a fondo nella vagina. Lui invece di ficcarglielo e rificcarglielo, la lasciò fare toccandole la nuca come se avesse toccato una rosa. Lei si sentì sciogliere, si sentì come priva di ossa, si sentì solo carne e pelle, e la voglia di essere riempita raggiunse il culmine.
Prima di Cesare c’era stato Franco, ma non contava quell’esperienza rabbiosa, che assomigliava più ad un togliersi il pensiero, che era durata allo stesso poco e troppo. Ora invece si sentiva pronta, più che pronta. La gonna cadde ai suoi piedi in un attimo, e poi fu la volta dei collant, delle mutandine. Gli salì sopra sorridendogli, godendosi ogni goccia di stupore e meraviglia che quel bellissimo viso tradiva, arrossendo emozionata per quello che il suo sguardo le diceva. I suoi occhi erano a tratti da bimbo serio, a tratti avevano i lampi dell’uomo che non era ancora e che stava iniziando a diventare proprio lì, in quel momento.
Prima di Roberta c’era stata Silvia, ma non quella con cui stava alle superiori, quella dell’ultimo dell’anno. Gli aveva detto che era carino, e se l’era portato di sopra. Lui pensava di limonarci, magari di tastarla un po’. Invece era finito dentro di lei, e ricordava poco, se non un po’ di imbarazzo mentre lei, con una sigaretta in bocca, si metteva a posto la gonna, per tornare di sotto. Invece quando Roberta si sollevò per spogliarsi, non riuscì a togliere gli occhi dal suo viso meraviglioso, da quegli occhi verdi. La vide arrossire, e sorridere, mentre gli saliva sopra con movimenti da anaconda. Si fece scivolare dentro il link piano, dopo esserselo strusciata tra le labbra già roride. Quando fu dentro, tutto dentro con un grande sospiro, Roberta si sentì felice, e Cesare si sentì felice. Lei si abbandonò su di lui, trovando rifugio sulla sua spalla, e lui la abbracciò baciandole la testa. Il pene pulsò, e altrettanto fece la vagina, senza che nessuno dei due ne fosse consapevole. Lei girò il volto, e si baciarono, e lentamente lei cominciò a muovere i fianchi, e non ci misero molto a perdere il controllo. Lei si sollevò e si sfilò le canottierina e lui raggiunse immediatamente con la bocca quei seni che gli erano scoppiati in faccia. Lei gemette e prese a cavalcare un po’ come veniva, finchè con balzo scappò via e si lasciò cadere al suo fianco, ansimando.
Lui rimase con l’affare a mo’ di pennone, con il vuoto attorno a sé, e la guardò finchè lei non si voltò, ansimante e rossa, di nuovo con lo sguardo da pantera affamata.
– Montami – sussurrò.
Lui scattò come una molla. Aveva ancora i pantaloni alle caviglie e se ne liberò in fretta, assieme ai calzini, mentre lei lo fissava felina, scivolando sui gomiti al centro del letto. E quindi le fu sopra. E la montò. E fu tutta un’anarchia di mani, piedi, labbra, odori, saliva, muscoli, peli, anfratti, lingue e cazzo in fica, e fica in cazzo, e sospiri e gemiti, e pure parolacce e paroline (che non riveleremo, perché troppo intime) fino alla fine, fino alla fine.
FINE
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