Tentazione a Pagamento Capitolo 1 – “Il prezzo del desiderio”

di
genere
etero

Mi chiamo Luca, ho diciotto anni e frequento la quinta superiore di un liceo scientifico che, a voler essere generosi, definirei una bettola. I muri sono crepati, il pavimento è coperto da piastrelle consumate che sembrano ricordare tempi migliori, e le aule puzzano sempre di umidità e disinfettante. Non è un posto dove ci si sente a casa, e nemmeno uno di quelli dove pensi di costruirti un futuro. Più che un liceo, sembra un allevamento di scimmie, un luogo in cui il caos regna sovrano e nessuno sa davvero perché si trovi lì.

Io, invece, lo so. Ci sto solo perché devo.

Non che sia uno di quei geni che aspirano alla lode o che abbiano grandi ambizioni. Me la cavo decentemente, ma preferisco stare per conto mio. Non è un’opzione, è una necessità. A scuola, non ho amici. Gli altri mi ignorano, quando va bene, o mi prendono in giro per il mio modo di fare. Ricciolino, alto e con gli occhiali spessi che mi scivolano continuamente sul naso, sono il tipo di ragazzo che si perde nei fumetti e nei videogiochi mentre il resto della classe urla, litiga o flirta apertamente tra i banchi.

Per me, questa scuola è solo una tappa obbligata da superare il più in fretta possibile. Le persone che ci stanno dentro? Preferirei non avere nulla a che fare con loro. Sono sempre rumorose, invadenti, pronte a spettegolare e a ficcare il naso dove non dovrebbero. Insomma, non il mio tipo.

Passo la maggior parte delle giornate in silenzio, chiuso nel mio mondo, cercando di evitare sguardi o commenti. Non mi dispiace stare da solo, anzi, ci sono momenti in cui mi chiedo se la solitudine non sia la mia unica vera compagnia.

Di recente avevo iniziato un lavoro part-time in un centro giochi per bambini. Non era nulla di speciale, ma era un modo per guadagnare qualcosa e distrarmi dalla monotonia della scuola. Il mio compito era semplice: intrattenere i bambini e dare una mano con le attività quotidiane. Mi avevano detto che avrei avuto una sola collega a supportarmi, ma non mi avevano detto chi fosse.

Il primo giorno, appena arrivai, scoprii che la mia collega sarebbe stata Teresa.

Teresa. La ragazza che non avrei mai immaginato di incontrare lì.

Era nella mia classe, e se a scuola io ero invisibile, lei era l’esatto opposto. Popolare, sempre al centro dell’attenzione, con quel modo di fare spavaldo e sicuro di sé che la faceva sembrare immune a tutto. I ragazzi attorno a lei prendevano confidenza senza alcun freno: battute spinte, mani sulle spalle – o su altre parti del corpo – che lei accettava con un mezzo sorriso o uno sguardo provocante. Era rozza, sfacciata, una di quelle ragazze che non hanno paura di dire ciò che pensano e, soprattutto, di farlo ad alta voce.

Poteva permetterselo. Perché Teresa era incredibilmente bella.

La sua carnagione chiara sembrava fatta per esaltare il contrasto con quei lunghissimi capelli castano scuro, ondulati e morbidi, che le scendevano fino a metà schiena. Il suo viso era un’opera d’arte: affilato, ma perfettamente bilanciato da due labbra carnose e lunghe, sempre leggermente dischiuse, e un naso piccolo e appuntito che sembrava disegnato. Gli occhi, grandi e di un verde brillante, erano la sua arma più letale. Seducenti, quasi ipnotici, incorniciati da sopracciglia sottili e curate con precisione.

E poi c’era il suo corpo.

Alto, slanciato e tremendamente sensuale. Il seno abbondante e apparentemente morbido attirava inevitabilmente gli sguardi, mentre la sua pancia piatta dava al suo fisico un’armonia che sembrava irreale. Il fondoschiena, grande e perfettamente sodo, e le cosce piene e invitanti completavano un quadro che rendeva impossibile non guardarla. Ogni suo movimento sembrava studiato per attirare attenzione, e il suo abbigliamento, sempre attillato o sportivo ma con un tocco provocante, faceva il resto.

Non potevo credere che avrei passato i pomeriggi lavorando fianco a fianco con lei.

Teresa mi riconobbe subito appena mi vide al centro giochi. Si avvicinò con un sorriso che sembrava mettere a nudo tutta la mia goffaggine.

“Ma guarda chi c’è! Luca, no? Della mia classe!” disse, appoggiandosi al tavolo davanti a me, con un’aria rilassata ma piena di curiosità. “Non ti avevo mai visto lavorare qui. Che ci fai in un posto come questo?”

Alzai lo sguardo per un momento, imbarazzato, e risposi sottovoce. “Lavoro.”

Lei rise. “Eh, questo l’avevo capito, genio. Intendevo, com’è che ti è venuto in mente di venire qui? Non sembravi il tipo.”

Scrollai le spalle. “Serve un lavoro.”

Sembrava divertita dalla mia mancanza di entusiasmo, ma non si arrese. “Ah, ma guarda te… il nostro piccolo topo di biblioteca è pure un lavoratore! Chi l’avrebbe mai detto?”

Non sapevo cosa rispondere, quindi rimasi zitto, fissando il pavimento. Teresa, o meglio, Tresy come avrei scoperto di doverla chiamare, non sembrava turbata dal mio silenzio. Anzi, si avvicinò ancora di più, inclinando la testa per cercare il mio sguardo.

“Sai che sei proprio un tipo strano? Sempre zitto. Ma, oh, magari sei uno di quelli che si sciolgono dopo un po’. Ci vuole tempo, eh? Ci arrivo.”

“Non credo,” mormorai.

Lei scoppiò a ridere, quasi come se trovasse divertente ogni cosa che dicevo – o non dicevo. “Vedremo, vedremo. Comunque, chiamami Tresy, ok? Teresa mi fa sentire tipo… boh, una vecchia zia. Ti piace di più Tresy, no?”

“Ok, Tresy,” risposi, anche se sentire quel nome mi suonava strano.

I primi giorni trascorsero più piacevolmente di quanto avessi immaginato. Nonostante la mia riluttanza a parlare, Tresy continuava a riempire il silenzio con le sue chiacchiere spigliate e la sua energia. Mi parlava di tutto: dei bambini, dei compagni di classe, delle cose che amava fare. A volte mi prendeva in giro con un tono scherzoso, ma mai cattivo.

“Ma tu, Luca, li hai mai tenuti in braccio dei bambini? Tipo… senza farli cadere?” mi chiese un pomeriggio, mentre teneva una bambina in braccio con una naturalezza che non avrei mai immaginato da lei.

“No, mai,” risposi.

“Eh, si vede. Dovrei insegnarti un po’. Sennò fai figure di merda pure qua,” disse, ridendo, e io, per la prima volta, mi ritrovai a sorridere.

Mi piaceva il modo in cui Tresy trattava i bambini: giocava con loro con la sua solita aria rozza e sicura, ma senza mai perdere la gentilezza. E mi piaceva anche come mi trattava. Per la prima volta, sentivo di non essere invisibile.

Sembrava che, in quel mare di persone con cui non volevo avere nulla a che fare, ci fosse almeno una ragazza simpatica e buona. Tresy era così diversa dagli altri: diretta, spigliata, e non si faceva problemi a dirmi le cose in faccia. Per quanto fosse strano, iniziai a parlare di più con lei. Ogni tanto, durante il lavoro, ci ritrovavamo a chiacchierare e, senza accorgermene, iniziavo ad apprezzare quei momenti.

Un pomeriggio, mentre sistemavamo i giochi dei bambini dopo che il centro si era svuotato, mi guardò con quel suo sorriso provocante.
“Ma Luca, una cosa te la devo dire: perché cammini sempre con le spalle curve? Sei alto, ma sembri uno che vuole diventare nano. Raddrizzati un po’, no?”

Alzai lo sguardo, sorpreso. “Non lo so, sto comodo così.”

“Comodo un cazzo,” ribatté ridendo. “Se cammini così sembri un vecchio. Se stai dritto magari qualcuno ti guarda, no?”

“Non penso sia un problema per me,” mormorai, cercando di minimizzare.

Lei si fermò, piegando la testa di lato con aria teatrale. “Ecco, vedi? Questo tuo modo di buttarti giù. Devi smetterla. Magari non te ne accorgi, ma se ti comporti come se non valessi niente, la gente ci crede davvero. E poi chi se ne frega degli altri, no?”

Quelle parole mi colpirono più di quanto avrei voluto ammettere. Tresy era così, brutale e onesta, ma in qualche modo mi faceva riflettere. Non era solo per provocazione: sembrava genuina, come se volesse davvero aiutarmi.

“Ci proverò,” dissi, abbozzando un sorriso.

“Bravissimo. Oh, guarda, sta pure sorridendo. Un miracolo!” rise, facendomi arrossire.

I giorni passavano, e quella strana amicizia iniziava a piacermi davvero. Mi ritrovavo a volerla ascoltare, anche quando mi criticava o mi prendeva in giro. Tresy sembrava diversa dagli altri: più autentica, meno cattiva o superficiale. Stavo iniziando a pensare che forse, in questo postaccio, c’era almeno una persona su cui valesse la pena puntare.

Ma quell’immagine idilliaca non poteva durare.

Una mattina, arrivai a scuola piuttosto presto. I corridoi erano ancora vuoti e silenziosi, cosa che mi piaceva: almeno non dovevo incrociare sguardi o sentire risatine alle mie spalle. Mentre camminavo verso la classe, notai qualcuno uscire dal bagno in fondo al corridoio.

Era Tresy.

La vidi sistemarsi i capelli in modo distratto, con un’aria stanca, quasi sfatta. In una mano stringeva dei soldi. Pochi secondi dopo, dal bagno uscì un ragazzo, uno di quelli del terzo piano, noto per essere un tipo poco raccomandabile. Mi fermai di colpo, incapace di muovermi o di distogliere lo sguardo.

Lei non mi vide. Si allontanò lungo il corridoio come se niente fosse, i soldi ancora in mano.

In quel momento, l’immagine che avevo di lei crollò come un castello di carte. Tutto quello che avevo pensato di lei – la ragazza simpatica, diversa dagli altri, che mi parlava e mi faceva sentire meno invisibile – svanì. Realizzai che forse non era poi così diversa dagli altri. Probabilmente, anche lei era gentile solo per i suoi tornaconti.

Rimasi lì, fermo, sentendo un vuoto crescermi dentro. Non riuscivo a credere che Tresy, proprio lei, fosse capace di qualcosa del genere.

Dopo quella mattina, cominciarono a girare voci che non potevo ignorare. Si diceva che c’era una ragazza che faceva “favori” a pagamento nei bagni della scuola. All’inizio non ci volevo credere. Certo, nel nostro liceo le chiacchiere giravano più veloci del vento, e molte erano solo esagerazioni o cattiverie gratuite. Ma poi, inevitabilmente, il pensiero tornò a quella scena che avevo visto con i miei occhi: Tresy che usciva dal bagno con quei soldi in mano, seguita da quel ragazzo.

Era come se un pezzo del puzzle fosse andato al suo posto, e non mi piaceva affatto quello che stavo scoprendo.

Per giorni non riuscii a guardarla allo stesso modo. Quando lavoravamo al centro giochi, evitavo di parlare con lei più del necessario. Se prima trovavo piacevole chiacchierare e scherzare, ora mi limitavo a rispondere con frasi brevi, fredde, o a evitare del tutto il contatto visivo.

Lei se ne accorse subito. Tresy non era stupida, e soprattutto era troppo diretta per non farmelo notare.

“Ma che hai, Luca?” mi chiese un pomeriggio, mentre stavamo sistemando i colori che i bambini avevano sparpagliato ovunque. “Sei strano ultimamente. Non parli più, non scherzi. Che ti ho fatto?”

“Nulla,” risposi senza alzare lo sguardo.

“Ah, certo, nulla,” disse, incrociando le braccia e fissandomi. “Dai, dimmi. Non sei bravo a mentire, lo sai?”

Volevo dirle qualcosa. Spiegarle che avevo visto tutto, che avevo capito chi fosse davvero. Ma non potevo. Non ero abbastanza coraggioso, o forse semplicemente non volevo affrontare la verità.

“Non è niente, lascia stare,” tagliai corto, continuando a sistemare i pennarelli con mani tremanti.

Tresy sospirò, ma non insistette. Forse pensava che avessi solo bisogno di tempo, o che il mio solito carattere riservato stesse tornando fuori.

Ma per me era diverso. Non riuscivo più a vederla come prima. Ogni sorriso, ogni parola gentile che mi rivolgeva sembrava una bugia, un trucco per ottenere qualcosa. Non potevo fare a meno di pensare che la sua gentilezza fosse solo una facciata, e che in realtà fosse come tutti gli altri in quella scuola: opportunista, interessata solo a sé stessa.

Decisi di allontanarmi del tutto. Non volevo più avere a che fare con lei.

A fine giornata, il centro giochi si svuotò e il silenzio tornò a dominare la stanza. Stavo finendo di sistemare gli ultimi giochi sullo scaffale quando sentii la sua voce dietro di me.

“Luca, vieni qui un attimo,” disse Tresy con tono deciso.

Mi voltai lentamente, cercando di non incrociare il suo sguardo. “Che c’è?”

Lei si avvicinò, mettendosi a braccia conserte e fissandomi con quei suoi occhi verdi che avevano sempre un’intensità spaventosa. “Senti, non me la dai a bere. È da giorni che ti comporti in modo strano. Hai qualcosa contro di me?”

“Non ho niente contro di te,” risposi secco, provando a chiudere il discorso.

“Non è vero,” ribatté lei, facendo un passo avanti. “Non mi parli, eviti di guardarmi, mi rispondi come se ti stessi obbligando. Cos’è successo? Hai sentito qualcosa su di me?”

Quelle parole mi colpirono come un pugno. Era come se sapesse esattamente cosa stavo pensando. Forse, in fondo, se lo aspettava.

“Non voglio parlarne,” dissi, ma la voce mi tradì.

“No, adesso lo fai,” insistette Tresy, piantandomi davanti uno sguardo che non lasciava via di fuga. “Cosa cazzo ti passa per la testa, Luca?”

Inspirai profondamente. Non potevo più evitarlo. “Ti ho vista,” mormorai.

“Vista cosa?”

“Ti ho vista quella mattina,” sbottai, alzando finalmente lo sguardo su di lei. “Uscivi dal bagno con quei soldi in mano, seguita da un ragazzo. E poi… poi ho sentito le voci. So quello che fai.”

Lei rimase immobile per un attimo, come se quelle parole l’avessero colpita fisicamente. Ma subito dopo il suo sguardo cambiò, diventando duro, quasi feroce.

“E quindi?” disse, alzando leggermente il mento. “Mi hai vista e ora cosa fai? Mi giudichi? Mi guardi dall’alto in basso come tutti gli altri?”

“Non ti sto giudicando,” risposi, ma sapevo che non era del tutto vero.

“Ah no? Allora perché mi tratti così? Perché fai finta che io non esista?!” ribatté, la voce alzandosi di un tono. “Tu non sai niente di me, Luca. Niente. Eppure ti permetti di comportarti come se fossi migliore di me.”

“Non è questo,” cercai di spiegare, ma lei non mi lasciò finire.

“No, invece è proprio questo!” urlò, il viso rosso per l’ira. “Non hai idea di cosa c’è dietro, di cosa devo fare ogni giorno per andare avanti. Non sai un cazzo della mia vita, ma è più facile credere a due voci di corridoio e mettermi un’etichetta, no?!”

Le sue parole mi colpirono come una frustata. Rimasi senza fiato, incapace di rispondere.

“Tu pensi che io lo faccia perché mi piace?” continuò, la voce spezzata da un’emozione che non le avevo mai visto prima. “Pensi che io mi diverta? Sai cos’è dover sopravvivere in un mondo in cui se non fai qualcosa, sei fottuta? No, tu non lo sai. Perché tu non vivi la mia vita.”

La sua voce si incrinò, e per un attimo vidi un’ombra di vulnerabilità dietro la sua solita sicurezza. Non sapevo cosa dire. Mi sentivo piccolo, meschino, come se il mio giudizio fosse stato un pugnale che lei non meritava.

Tresy mi fissò per un lungo istante, il respiro pesante per la rabbia. Poi, all’improvviso, le sue labbra si piegarono in un mezzo sorriso, un’espressione carica di sfida.

“Forse ho capito perché sei così incazzato,” disse, inclinando leggermente la testa.

“Smettila, Tresy,” borbottai, distogliendo lo sguardo.

“No, no,” insistette, facendo un passo avanti. “Non è perché ti schifi. Non è nemmeno perché pensi di essere meglio di me. Sei arrabbiato perché sei geloso.”

“Ma che dici?”

“Ah, quindi non è vero?” rise amaramente. “Ti dà fastidio l’idea che io sia stata con altri, eh? Che magari qualcuno che manco ci pensa due volte possa avere quello che tu nemmeno osi chiedere?”

Deglutii, sentendo un calore scomodo salire lungo il collo. Tresy lo notò subito, e il suo sorriso si allargò.

“Vedi?” sussurrò, accorciando ancora di più la distanza tra di noi. “Ti rode, Luca. Lo vedo nei tuoi occhi. Ti dà fastidio che io sia così disponibile con tutti, tranne che con te.”

“Smettila,” ripetei, più debole stavolta.

Tresy rise di nuovo, bassa e roca, e alzò una mano, sfiorandomi appena il petto con le dita. “Sai, potresti sempre risolvere il problema…” sussurrò, gli occhi verdi che mi studiavano con attenzione.

Sentii un brivido attraversarmi la schiena. “Che vuoi dire?”

“Vuoi sapere com’è, no?” continuò lei, abbassando il tono di voce. “Perché non provi? Ti piacerebbe vedere cosa faccio dietro quelle porte, invece di immaginartelo?”

Rimasi immobile, il cuore che batteva forte contro le costole. La ragazza che fino a pochi giorni prima avevo visto come una figura quasi innocente ora mi stava provocando apertamente, mettendomi davanti a un bivio.

“Ti sto facendo uno sconto, eh,” aggiunse ironicamente, mordendosi il labbro inferiore. “Visto che sei speciale.”

La stanza sembrava rimpicciolirsi attorno a noi, mentre il mio cervello lottava contro qualcosa di molto più primordiale e incontrollabile.

Tresy mi fissava, aspettando una risposta.

Rimasi lì, impalato, incapace di dire una parola. Sentivo il cuore martellarmi nelle orecchie, il calore che mi saliva al viso, le mani leggermente sudate. Non sapevo come rispondere, non sapevo nemmeno come comportarmi.

Tresy non sembrava minimamente in imbarazzo. Anzi, il suo sorriso sfrontato si allargò ancora di più mentre mi osservava, come se si stesse divertendo a vedermi lottare con i miei pensieri.

“Dai, Luca, non fare quella faccia,” disse con tono leggero, mentre allungava una mano e mi sfiorava la spalla con le dita. “Sai che puoi chiamarmi quando vuoi, no? Se mai decidi di smettere di fare il moralista e vuoi davvero provare… beh, basta che mi fai un fischio.”

Mi lanciò un ultimo sguardo provocatorio, poi si girò e uscì, lasciandomi solo in quella stanza che all’improvviso sembrava troppo piccola per tutto il caos che avevo in testa.



Tornai a casa con la testa piena di pensieri che si accavallavano senza sosta. Cercavo di razionalizzare, di trovare un senso a quello che era appena successo, ma non ci riuscivo.

Forse aveva ragione lei.

Forse il mio problema era che la desideravo davvero.

Ero rimasto affascinato dal suo lato più spontaneo e dolce al centro giochi, da quella parte di lei che sembrava quasi genuina, vera. Ma poi, vederla sotto quella luce completamente diversa… mi irritava, mi confondeva.

Eppure mi eccitava.

L’idea di lei, della sua sicurezza, della sua sfrontatezza, del modo in cui mi aveva provocato, mi aveva fatto sentire un nodo allo stomaco. Non riuscivo a togliermi dalla testa il suono della sua voce, il modo in cui mi aveva guardato, come se sapesse esattamente cosa stavo provando.

Mi buttai sul letto, passando una mano tra i capelli ricci e scompigliandoli ancora di più.

Che dovevo fare?

Lasciare perdere? Trattarla come avevo deciso di fare prima, ignorarla e non farmi più coinvolgere?

Oppure…

Mi morsicai l’interno della guancia, mentre l’idea si insinuava sempre più forte nella mia mente.

Oppure potevo cedere.

Potevo chiamarla.

E vedere cosa sarebbe successo.

Mi passai una mano sulla nuca, incerto, evitando il suo sguardo per qualche secondo. Poi, quasi senza pensarci troppo, mormorai:

“Hai ragione su di me…”

Tresy alzò un sopracciglio, incuriosita, mentre si appoggiava di nuovo al lavandino.

“Ah sì? Su cosa?”

Deglutii, sentendo il cuore accelerare nel petto. “Voglio anche io quello che hanno gli altri.”

Per un attimo ci fu silenzio. Poi lei scoppiò a ridere, una risata bassa, divertita, quasi soddisfatta.

“Non avevo mai avuto dubbi,” disse, mordendosi il labbro inferiore mentre mi guardava con occhi pieni di malizia.

Fece un passo avanti, riducendo ancora di più la distanza tra noi, fino a quando il suo corpo sfiorò il mio. Sentii il suo profumo mescolarsi all’odore leggero di fumo della sigaretta appena spenta. Era una miscela travolgente, un contrasto che la rappresentava alla perfezione.

La sua mano scivolò lungo il mio torace, leggera come una carezza, e poi giù, più in basso, fino a fermarsi all’altezza della cintura dei miei pantaloni. Sentii il mio respiro farsi più pesante mentre le sue dita, con movimenti lenti e sicuri, iniziarono a premere attraverso il tessuto, massaggiandomi con una calma quasi crudele.

“Allora ti accontento,” sussurrò, inclinando la testa di lato mentre il suo tocco si faceva più insistente.

Era un gioco, e lo sapevo. Un gioco in cui lei aveva il controllo assoluto, e io, per la prima volta, mi sentivo disposto a lasciarle le redini.

Tresy si inginocchiò lentamente davanti a me, i suoi movimenti fluidi e sicuri come se avesse il pieno controllo della situazione. I suoi lunghi capelli castani scivolarono sulle spalle mentre mi guardava con un sorriso carico di malizia.

Le sue dita scivolarono lungo la mia cintura, slacciandola con una lentezza esasperante, quasi volesse assaporare ogni secondo. Abbassò i miei pantaloni insieme all’intimo, liberandomi dal tessuto che mi stringeva, ed io trattenni il respiro quando sentii il suo fiato caldo sfiorarmi la pelle.

Il suo sguardo si abbassò su di me, scrutandomi con un misto di curiosità e divertimento. Un leggero sorriso le increspò le labbra mentre la sua mano si chiudeva attorno a me con una delicatezza quasi crudele.

“Interessante,” sussurrò, il tono della sua voce basso e vellutato.

Tresy mantenne il contatto visivo con me mentre le sue dita iniziarono a scorrere con lentezza lungo la mia pelle, quasi a voler esplorare ogni centimetro, ogni reazione. Il suo tocco era caldo, sicuro, esperto, eppure sembrava giocare con il momento, assaporando la mia crescente tensione.

Con movimenti misurati, la sua mano si strinse leggermente, avvolgendomi con una presa delicata ma decisa, e poi iniziò a muoversi con un ritmo studiato. Il contrasto tra la sua pelle morbida e la mia sensibilità mi fece trattenere il fiato, mentre un’ondata di piacere si irradiava dal punto in cui mi toccava.

Il suo polso si muoveva con naturalezza, alternando movimenti lenti e profondi a brevi pause provocatorie, come se volesse tenermi sospeso sul filo dell’attesa. Il suo sguardo non mi lasciava, quei grandi occhi verdi si illuminavano di una malizia giocosa, osservando ogni mia minima reazione.

“Ti piace, eh?” sussurrò con un sorriso divertito, inclinando leggermente la testa. Il suo respiro caldo sfiorava la mia pelle, rendendo il momento ancora più intenso.

Io non risposi, ma il mio corpo parlava per me. Il battito accelerato, il respiro affannato, le mani contratte ai lati del corpo. Lei sembrava apprezzare il potere che aveva su di me, la sicurezza con cui mi faceva perdere il controllo.

I suoi movimenti si fecero più fluidi, seguendo il mio respiro, aumentando l’intensità con la stessa naturalezza con cui mi aveva trascinato fin lì. Ogni suo gesto era calcolato per amplificare il piacere, per portarmi sempre più vicino a un punto di non ritorno.

“Vedi?” mormorò, abbassando lo sguardo mentre continuava il suo gioco ipnotico. “Ti stai lasciando andare… finalmente.”

E aveva ragione. Con il suo tocco, il suo respiro, il suo sguardo sicuro e provocante, mi stava trascinando in un vortice da cui non volevo più uscire.

Tresy non aveva fretta. Continuava a guardarmi dal basso con quel sorriso carico di malizia, come se si stesse godendo ogni secondo di quella mia tensione. Le sue labbra morbide si posarono su di me con delicatezza all’inizio, quasi come un assaggio, prima di avvolgermi con un calore che mi fece trattenere il fiato.

La sua bocca si muoveva con una lentezza studiata, creando una dolce pressione che mi mandò un brivido lungo la schiena. Il suo tocco era caldo, umido, coinvolgente, e la sensazione era così intensa che per un attimo tutto il resto svanì. La sua lingua si muoveva con naturalezza, accompagnando ogni gesto con piccoli movimenti fluidi, aumentando il mio piacere in modo graduale, misurato.

Si muoveva con esperienza, con una sicurezza quasi ipnotica, alternando ritmi e intensità, quasi sapesse esattamente cosa fare per farmi perdere il controllo. Il suono appena percettibile della sua bocca che lavorava su di me si mescolava al mio respiro irregolare, mentre il suo sguardo rimaneva su di me, attento, curioso di ogni mia reazione.

Ogni volta che rallentava, lasciava un lieve vuoto che rendeva tutto ancora più esasperante, per poi ricominciare con un’intensità più profonda, più avvolgente, portandomi a una sensazione di estasi che mi faceva tremare le gambe.

Si stava godendo il momento, come se fosse un gioco solo suo, un potere che sapeva di avere e che esercitava con assoluta padronanza. E io, travolto da quel vortice di piacere, non potevo fare altro che abbandonarmi completamente a lei.

Il respiro mi si fece spezzato, il corpo teso mentre sentivo l’ondata di piacere travolgermi senza possibilità di controllo. Il calore del momento mi annebbiò la mente, lasciandomi in balia delle sensazioni che si riversavano su di me. Tresy rimase immobile per qualche istante, poi si scostò con una naturalezza quasi disarmante, come se nulla la toccasse davvero.

Si pulì con assoluta calma, tirando fuori le salviette dal suo zaino senza fretta, e mentre lo faceva mi guardò con un sorriso divertito. «Eh, sì… te l’avevo detto che alla fine avresti ceduto.»

Io non riuscivo ancora a rispondere. Il battito del cuore era ancora troppo accelerato, la mente troppo confusa per formulare un pensiero chiaro. C’era qualcosa di incredibilmente disarmante nel suo atteggiamento: nessun imbarazzo, nessun turbamento, solo quella solita sicurezza sfacciata che mi aveva sempre lasciato spiazzato.

Tresy si rimise in piedi, si stiracchiò appena, poi mi guardò con quel suo sguardo sornione. Allungò la mano con il palmo aperto, inclinando la testa di lato.

«Allora, bello mio, passiamo alle cose serie.» Fece un sorriso malizioso. «Sono venti euro.»

La sua voce tagliò l’aria come una lama, riportandomi bruscamente alla realtà. Per un attimo, il mio sguardo vacillò su di lei, come se non riuscissi a credere a quello che stava succedendo. Tresy notò la mia espressione e ridacchiò, divertita dalla mia reazione.

«Dai, non fare quella faccia!» esclamò con leggerezza. «Pensavi fosse un regalino? Suvvia.»

Non risposi. Sentivo un groviglio di emozioni contrastanti agitarsi dentro di me, ma la mia mano si mosse quasi automaticamente, tirando fuori i soldi e porgendoglieli. Lei li prese senza la minima esitazione, poi si avvicinò un’ultima volta, riducendo lo spazio tra noi con quel suo solito sorriso provocante.

«Comunque…» mormorò piano, le labbra appena incurvate, «mi sa che ci rivedremo presto.»

E senza aggiungere altro, si voltò e se ne andò con la stessa sicurezza con cui era venuta, lasciandomi lì, ancora confuso, ancora intrappolato in qualcosa che non sapevo spiegare. Ma soprattutto, lasciandomi con la consapevolezza che, nonostante tutto, forse non sarei stato in grado di dirle di no la prossima volta.

scritto il
2025-02-03
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