Il gioco della ninfomane tettona - capitolo 1 di 4

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tradimenti

L’aria sapeva di salsedine e crema solare, un profumo che sapeva di vacanza, di libertà. Il sole di mezzogiorno batteva forte sul piazzale del villaggio turistico, facendo luccicare il cemento chiaro e arroventando l’aria attorno alle auto in sosta. Mia madre discuteva con l’addetta alla reception, mio padre si occupava delle valigie, e io… beh, io lasciavo che la noia mi scivolasse addosso mentre osservavo la scena con il telefono in mano, aspettando solo di potermene andare.
L’ingresso del resort era imponente, con una grande veranda coperta da una tettoia in legno intrecciato, da cui pendevano lampade in stile etnico che oscillavano leggere al vento. Più in là, oltre il vialetto bordato di palme, si intravedeva il cuore del villaggio: bungalow dai tetti in paglia, piscine azzurre che riflettevano il sole, bar all’aperto con ombrelloni di paglia e musica estiva che si mescolava al vociare allegro dei turisti.
Mia sorellina, invece, non vedeva l’ora di iniziare la sua vacanza. Aveva già deciso che il baby club sarebbe stato il suo regno per le prossime due settimane. Lo aveva individuato subito, un’area delimitata da una staccionata colorata, piena di giochi, scivoli e gonfiabili. Un piccolo esercito di bambini correva in ogni direzione, rincorso da animatrici vestite con divise bianche e blu.
«Posso andare?» chiese mia sorella, strattonando mia madre per un braccio.
L’animatrice al banco informazioni sorrise, abbassandosi per parlarle con voce dolce. «Certo! Ti aspettiamo oggi pomeriggio per il laboratorio di pittura e i giochi in piscina.»
Io, invece, non avevo nulla di tutto questo. Nessun gruppo di amici con cui passare le giornate, nessun programma preciso. Solo l’idea di un’estate lunga e torrida, tra tuffi in piscina e pomeriggi a guardare il mare, aspettando la sera per trovare qualcosa di interessante da fare.
O almeno, così credevo.
Perché fu proprio in quel momento, mentre alzavo lo sguardo distrattamente verso l’area del baby club, che la vidi per la prima volta.
E tutto il resto… smise di avere importanza.

All’inizio, non la notai davvero. C’erano troppi bambini che correvano, troppi genitori che parlavano con gli animatori, troppa confusione. Ma poi lo sguardo mi cadde su di lei, e tutto sembrò rallentare.
Lucrezia.
Era china su una bimba che si rifiutava di lasciare la mano della madre, cercando di convincerla con un sorriso morbido e rassicurante. Un sorriso che, in qualche modo, sembrava nascondere qualcosa di più. Era il sorriso di una ragazza che sapeva esattamente quanto potere avesse su chiunque la guardasse.
Indossava un completino sportivo attillato, una t-shirt bianca con il logo del baby club stampato sopra e degli shorts blu così corti che scoprivano l’attaccatura perfetta delle sue cosce. E che cosce. Piene, sode, con quella forma irresistibile che catturava l’attenzione senza bisogno di sforzi. E sopra… un fondoschiena da capogiro, alto e tondo, che quei pantaloncini valorizzavano in modo quasi crudele.
L’avevo già scansionata con lo sguardo prima ancora di rendermene conto. Poi salii con gli occhi lungo il suo corpo e fu anche peggio.
Era bassina, ma proporzionata come un’opera d’arte. Formosa nei punti giusti, con un seno abbondante che la maglietta aderente stringeva e sollevava senza pietà. Aveva la pelle abbronzata, un colore caldo e intenso che la rendeva ancora più magnetica, ma sotto il tessuto bianco si intravedeva nettamente il chiaro stacco del seno, un contrasto che urlava sensualità.
Il viso era dolce, ma non di quella dolcezza ingenua e inconsapevole. C’era qualcosa di malizioso nel modo in cui muoveva le labbra, piccole e leggermente carnose, sempre incurvate in un sorriso accennato, come se sapesse esattamente cosa stavi pensando.
Gli occhi erano la parte più letale. Sottili, scuri, pungenti. Ti guardavano e ti agganciavano come un amo, ti seducevano senza bisogno di parole. Sembravano studiarti, sfidarti, come se sapessero già che avresti ceduto.
I capelli corti e ondulati le sfioravano appena le spalle, castano scuro, leggermente spettinati, in quel modo che sembrava casuale ma che su di lei risultava perfetto. E poi c’erano quei piccoli difetti, i brufoli qua e là, qualche lieve imperfezione sulla pelle, che invece di sminuirla la rendevano ancora più reale, più irresistibile.
Era il tipo di ragazza che non passava inosservata, il tipo di ragazza che ti faceva desiderare cose che non avresti dovuto desiderare.
E io l’avevo appena trovata.

Il villaggio turistico aveva un suo ritmo, un'energia particolare che ti avvolgeva e ti faceva sentire parte di qualcosa, anche se eri appena arrivato. La mattina si partiva lenti, tra colazioni all’aperto e prime nuotate in piscina. Il pomeriggio, invece, le attività prendevano il sopravvento: tornei di beach volley, corsi di acquagym, sfide a ping-pong. E poi la sera, con le luci soffuse e la musica che si diffondeva dal bar centrale, il villaggio si trasformava in un piccolo universo brulicante di gente.
Ed era proprio in quel contesto che iniziai a sentire parlare di lei.
Avevo passato la giornata bighellonando tra il mare e la piscina, ma la mia attenzione finiva sempre per tornare su Lucrezia. Ogni volta che passavo nei pressi del baby club, il mio sguardo la cercava automaticamente.
C’era qualcosa di ipnotico in lei, qualcosa che andava oltre la semplice attrazione. Non era solo il suo corpo perfetto, né il modo in cui i suoi shorts abbracciavano il suo fondoschiena da urlo. Era il suo atteggiamento. Quel sorriso sempre presente, la sicurezza con cui si muoveva, lo sguardo malizioso che lanciava ogni tanto, come se sapesse esattamente di essere osservata.
La sera, seduto su una delle sdraio vicino al bar, sentii per caso un paio di ragazzi parlare di lei. Non feci apposta ad ascoltare. O meglio, non all’inizio.
«Ma hai visto chi c’è anche quest’anno?» disse uno, ridacchiando mentre mescolava il suo cocktail con la cannuccia. «Lucrezia.»
L’altro alzò le sopracciglia, sorpreso. «Quella dell’animazione?»
«Quella che l’anno scorso se l’è fatta mezza staff, vorrai dire.»
Mi si accese un’attenzione istintiva. Rimanendo apparentemente disinteressato, continuai a fissare il bicchiere d’acqua che avevo davanti, mentre il mio orecchio restava ben sintonizzato sulla conversazione.
«Ma aspetta… ho sentito che stavolta è cambiata.»
Il primo annuì con aria sorniona. «Eh sì. Pare che quest’anno si sia fidanzata.»
«No.» Il secondo rimase a bocca aperta. «Lucrezia? Ma che, sul serio?»
«Giuro. Uno che sta tipo a cinquecento chilometri da qui.»
Il secondo fece una smorfia. «Quindi niente più colpi di testa?»
Il primo sospirò, alzando le mani. «Eh, sembra di no. Stavolta fa la seria. Almeno così dicono.»
Restai impassibile, ma dentro di me la tensione si annodava in un modo delizioso e perverso.
Lucrezia. Fidanzata. Inafferrabile. Ma con una reputazione che la precedeva come un profumo lasciato nell’aria.
Poco dopo la vidi, a pochi metri di distanza, mentre chiacchierava con un paio di animatori vicino al palco delle attività serali. Rideva, piegandosi leggermente in avanti, e il modo in cui la maglietta le sfiorava il seno mi tolse il fiato.Sembrava completamente inconsapevole degli sguardi che le si posavano addosso, o forse ne era perfettamente cosciente e se ne compiaceva.
Avevo già capito che non sarei riuscito a togliermela dalla testa.

il giorno successivo volò via velocemente.

La sera stava calando sul villaggio, portando con sé quell’aria densa di salsedine e il suono lontano della musica dal bar centrale. Ero diretto verso il mio bungalow quando notai qualcosa che mi fece rallentare il passo.
La porta del bungalow dell’animazione era aperta.
Solo di pochi centimetri, appena quanto bastava per lasciar intravedere l’interno. Non ci avrei fatto caso, se non avessi riconosciuto il profumo familiare di bagnoschiuma e il suono morbido di piedi nudi sul pavimento.
Lucrezia.
Il cuore mi diede un colpo violento nel petto.
Guardai intorno, ma il vialetto era deserto. Non sapevo cosa mi avesse spinto a farlo, ma prima che potessi fermarmi… entrai.
Il bungalow dell’animazione era piccolo, con pochi letti a castello e un disordine tipico di chi lo abitava per un’intera stagione estiva. La porta del bagno era aperta, e da dentro filtrava la luce calda della lampada sopra lo specchio. Il vapore ancora sospeso nell’aria sapeva di vaniglia e cocco.
E lì, davanti a me, c’era Lucrezia.
Completamente nuda.
Si stava asciugando con calma, una mano che stringeva l’asciugamano tra i capelli bagnati, l’altra che scivolava lungo il fianco per raccogliere le ultime gocce d’acqua. La pelle scura, ancora umida, brillava sotto la luce, e lo stacco chiaro del seno sembrava un invito proibito.
Rimasi immobile.
Era perfetta.
Le curve abbondanti, il fondoschiena alto e sodo, le cosce piene nel punto giusto. Ma ciò che mi tolse il respiro non fu solo il suo corpo. Fu il modo in cui si muoveva.
Naturale, rilassata, ignara della mia presenza.
Finché, all’improvviso, non si voltò.
I nostri sguardi si incrociarono.
Il sangue mi si gelò nelle vene. Per un attimo infinito non disse nulla.
Non gridò. Non si coprì.
Mi guardò. Dritto negli occhi.
Poi sorrise.
Un sorriso piccolo, un angolo della bocca che si sollevava appena. Non c’era imbarazzo nei suoi occhi sottili e pungenti. Solo una malizia tagliente, consapevole.
Lasciò scivolare l’asciugamano lungo il fianco, come se non avesse fretta. Come se volesse che guardassi.
E poi, con una lentezza esasperante, spinse la porta e la chiuse.
Lasciandomi lì.
A bocca asciutta. Con il cuore in gola. E un desiderio impossibile da contenere.

Tornai nel mio bungalow con il cuore che ancora batteva forte nel petto. La stanza era in penombra, il soffitto di legno illuminato solo dalle luci soffuse che filtravano dalla finestra. Avevo bisogno di una doccia.
L’acqua calda scivolava lungo il mio corpo, ma non riusciva a lavare via l’immagine che avevo impressa nella mente.
Lucrezia.
Le gocce che correvano sulla sua pelle abbronzata. Il riflesso del suo seno sodo nello specchio. Il suo sorriso, maledettamente consapevole.
Era nuda davanti a me.
Mi aveva visto.
E non aveva fatto nulla per fermarmi.
Era bastato quel pensiero a farmi perdere il controllo. Chiusi gli occhi, la testa appoggiata contro le piastrelle umide, lasciando che il piacere mi consumasse. Pensavo a lei. A come sarebbe stato sfiorare quella pelle ancora umida di doccia, sentire il calore delle sue cosce strette intorno a me, mordere quel sorriso malizioso per farlo sparire sulle mie labbra.
Non ci volle molto. Venni con un gemito soffocato, il petto che si sollevava e abbassava, il nome di Lucrezia sospeso nella mia mente come un segreto inconfessabile.
Rimasi sotto l’acqua per qualche minuto, cercando di riprendere fiato, poi uscii, mi asciugai e mi vestii in fretta. Dovevo raggiungere la mia famiglia al centro del villaggio, dove si svolgevano le attività serali.
Ma soprattutto… dovevo vederla di nuovo.

La musica della baby dance riempiva la piazza principale del villaggio, tra bambini urlanti e genitori stanchi. Mia sorella rideva e saltava con gli altri, mentre io vagavo con lo sguardo, cercando lei.
E poi la vidi.
Vestita.
Uno short di jeans corto, talmente corto che lasciava scoperte le cosce tornite e abbronzate. Una canotta bianca aderente che sembrava fatta apposta per esaltare il seno abbondante, senza reggiseno sotto. I capelli ancora leggermente umidi, spettinati come se si fosse appena cambiata di fretta.
E quel sorriso. Maledetto sorriso.
Si muoveva con leggerezza tra gli altri animatori, come se nulla fosse, come se non mi avesse appena lasciato a bocca asciutta chiudendomi la porta in faccia.
Eppure, quando incrociò il mio sguardo, qualcosa nei suoi occhi si accese.
Si avvicinò.
“Ehi, che fai tutto solo?” La sua voce era morbida, un po’ giocosa.
Alzai le spalle, cercando di mantenere un minimo di controllo. “Aspetto che mia sorella finisca di scatenarsi.”
Lucrezia si fermò a pochi centimetri da me. Troppo vicina per essere un caso.
Troppo vicina per non sentire il suo profumo.
Vaniglia. E qualcosa di più caldo, più intenso. Forse desiderio.
Mi guardò con quel solito sorriso e, con naturalezza, passò un dito sull’orlo della sua canotta, come per sistemarla.
Il tessuto si tese sul seno nudo.
Fu un attimo. Un gesto distratto, eppure studiato. Una maledetta provocazione.
“Sai,” mormorò avvicinandosi appena, “oggi ho avuto la strana sensazione di essere osservata.”
Il sangue mi si gelò nelle vene.
Non poteva saperlo. Non poteva essere sicura.
Ma il suo sguardo diceva il contrario.
Invece di rispondere, mi limitai a guardarla negli occhi. Lei inclinò la testa di lato, come se mi stesse studiando. Poi si bagnò appena le labbra, lasciandosi sfuggire un piccolo sorriso divertito.
“Buona serata…” sussurrò infine, e si allontanò, mescolandosi di nuovo tra gli altri animatori.
Mi stava facendo impazzire.
E il peggio era che lo sapeva.
Restai lì, con il cuore che batteva forte, mentre la guardavo svanire tra la folla.
Sapevo solo una cosa.
Questa era solo l’inizio.
scritto il
2025-02-24
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