Il convento sul monte: Primavera
di
Troy2a
genere
etero
Nessun inverno, per quanto rigido e lungo possa essere, durerà mai in eterno. Così, anche quello del 1950 finii, con un ultima abbondante nevicata la mattina di Pasqua, il 9 di aprile. Con l’allungarsi delle giornate ed il contemporaneo venir meno di tanti malanni, trovai anche il tempo di fare qualche passeggiata in montagna, cosa che adoravo. Ero stato a trovare Flora altre due volte, ed ogni volta ne erano seguiti guai per entrambi. L’ultima ne presi veramente tante e, probabilmente, se non si fosse trovato a passare il padre del bimbo che avevo curato, quello di Montescheno, mi avrebbe ammazzato. Mi ero convinto che, per il bene di entrambi, fosse necessario interrompere le nostre frequentazioni. Eppure, quella donna mi era entrata nel sangue, nel cuore, nel cervello: c’erano quasi vent’anni di differenza tra di noi, ma ero convinto di amarla. Era una sensazione nuova, mai provata prima, se non nei confronti di mia madre. Ma proprio per questo, non volevo che potesse accaderle qualcosa di male. Così, mi svegliai una mattina con un’altra donna accanto.
“Boia, svegliati! Abbiamo fatto una cazzata!”
Lei aprii con fatica gli occhi, mi guardò con l’aria di chi si trattiene dal far partire una mitraglia di improperi.
“Che hai? È Domenica: non verrà nessuno!”
“Ma al convento si saranno accorte che non ci sei.”
Non riuscii a trattenere uno scoppio di ilarità, poi mi tirò a se per baciarmi.
“La superiora è comprensiva: sa che sono un po’ birichina. Abbiamo tutto il tempo che vogliamo e, a dire il vero, ieri sera non sei stato il massimo. Ma io sono buona e ti do la possibilità di riparare.”
Dicendolo, aveva preso ad accarezzarmi tutto il corpo con movenze lente e leggere alle quali, sapeva, non ero indifferente. Anche l’accusa che aveva appena lanciato mi stimolava a far giustizia, anche se non la consideravo per nulla veritiera. Mi incuneai tra le sue cosce, lisce e vellutate da parer di seta, fino a raggiungere quel magnifico tesoro che celava. Le mordicchiai il clitoride, strappandole i primi gemiti della lussuria, mentre con le mani spingeva la mia testa verso un limite già raggiunto, stante l’impenetrabilità dei corpi. Avevo imparato, ormai, che il primo orgasmo lo avrebbe raggiunto rapidamente, ma che sarebbe servito solo ad aumentare a dismisura la sua fame di sesso, di godere: furono sufficienti alcuni colpi di lingua, dati sapientemente, perché mi spruzzasse di un miele viscose ed inebriante. Poi mi sollevò il capo, tirandomi su, e mi ripulii tutto, leccandomi il volto. E tornò a baciarmi.
“Fottimi, ora! Non resisto più.”
“Sta tranquilla che ne ho tutte le intenzioni. Ed oggi ti rompo anche il culo.”
“Mi vuoi sodomizzare? Oddio, non l’ho mai fatto. Mi prometti che farai piano.”
Non risposi: la penetrai, ascoltando la sinfonia di gemiti di piacere e osservando l’aspetto beato e sognante che, ad occhi chiusi, ogni volta accompagnavano la congiunzione dei nostri corpi. Non potei non fare un confronto con il modo di fare l’amore di Flora, così acerbo, nonostante l’età, quasi selvaggio. Provavo qualcosa anche per questa giovane donna? O stavo solo confondendo un’attrazione sessuale per un sentimento benn più nobile? Cosa importava, ora? Di certo, in quel momento, lì c’erano un uomo ed una donna che si stavano donando, che si stavano regalando reciprocamente momenti di piacere intenso, indimenticabile. Il suo corpo si muoveva, sotto i miei colpi, cercando di assecondare il mio ritmo, anche se talvolta finivamo fuori giri. I suoi capezzoli puntavano verso il mio torace, sfiorandolo quando il mio corpo si abbassava, allontanandosi quando, invece, tornavo su.
“Ora vengo io su di te!”
Mi lasciai ribaltare; lei si mise a cavalcioni su di me, impalandosi il mio lui, che mi sembrò sbattesse sulla parete dell’utero. Assunse un movimento che, da lento al limite del braditismo, andò ad aumentare, man mano che il secondo orgasmo si avvicinava, fino a diventare una cavalcata forsennata, condita da versi e frasi sconnesse, urlate mentre il capo si dimenava, facendo ondeggiare selvaggiamente i capelli. Infine si abbandonò su di me, il respiro affannato, le labbra che si sperticavano in piccoli baci, talvolta morsi, al mio torace, al mio collo, alle mie labbra. Poi si rialzò: sembrò quasi guardarmi con aria di sfida. Si sfilò il mio cazzo, per puntarlo con decisione verso l’orifizio anale. Sapevo che non ce l’avrebbe fatta, ma ci mise tutto l’impegno.
“Vieni qui!” Le dissi “ Lo preparo un po’!” per la prima volta ebbi l’impressionne che non sapesse bene cosa fare, allora la presi per i fianchi e la portai sopra la mia testa: in ginocchio, la sua fica era oscenamente offerta ai miei occhi e alla mia lingua, ma non era quello che volevo. Le feci capire di venire ancora più su e, finalmente, la splendida rosellina anale si offrii a me. Leccai e fistai piano con un dito, che facevo roteare dentro di lei. Poi due, e tre.
“Riproviamo?” chiesi.
Non battè ciglio: tornò nella posizione di prima e, sia pure con un po’ di fatica, si fece scivolare il cazzo nel budello. Ora gli occhi erano strizzati in una smorfia di dolore, mentre cominciava ad andare su e giù, una lacrima le scivolò lungo la guancia.
“Fa male, ma è bello!” mi disse, poco prima che i muscoli del viso cominciassero ad allentarsi e sul suo bel viso tornasse l’espressione beata che tanto mi piaceva quando facevamo l’amore.
Restammo a letto tutta la mattina. Fu una scelta: all’ora di pranzo, probabilmente, sarebbe stato più facile uscire senza essere visti. Lei prese la strada che si inerpicava verso il monte, dove a qualche centinaio di metri sorgeva il convento, dominante sull’intero paese. Io, invece, andai a mangiare un boccone all’osteria, dove, quando ormai ero a fine pasto, mi raggiunse il sindaco.
“Buondì, dottore! Posso offrirla un bicchiere?”
“Grazie! Ho già bevuto abbastanza. Anzi, se non la offende, le lascio la mia caraffa. Andrò a fare un giro in montagna, per digerire!”
Lui afferrò il boccale e si versò un bicchiere, come dire: nessuna offesa! Salutai, pagai il conto e mi incamminai verso un sentiero che avevo visto spesso, ma che avevo escluso fino ad allora dai miei percorsi, per via che era ancora troppo coperto di neve. Era un sentiero che, più degli altri, si inoltrava nel bosco, tra castagni e faggi. Avrò camminato per una buona mezz’ora, quando mi trovai nei pressi di una radura, dove s’ergeva una piccola costruzione, una di quelle usate per dare rifugio ai pastori che portassero all’alpe le mandrie. Stavo per uscire alla luce del sole, quando la porta della casa si aprii: avevo pensato non ci fosse alcuno, perché le imposte dell’unica finestra erano serrate. La testa di una donna fece capolino, guardando a destra e sinistra, poi, lentamente uscii, incamminandosi verso la parte opposta a me. Guardò dietro la casa, poi girò su se stessa per venire verso di me: mi acquattai dietro il tronco di un albero, non prima di aver riconosciuto in quella donna, alta, robusta sui 50 anni, la moglie del sindaco. Con fare circospetto, guardò anche da quest’altro lato della casa, poi, evidentemente rinfrancata, tornò sui suoi passi e sparì dentro casa. L’istinto mi suggerì di abbandonare il sentiero e ridiscesi il pendio di alcuni metri, appiattendomi ancora quasi coricandomi sul terreno. Sentii la porta sbattere e il rumore sordo di un catenaccio; poi una risata e le voci di un uomo e di una donna che si scambiavano frasi oscene. Le voci si avvicinavano: il cuore sembrava esplodere nel mio petto. Ora riuscivo a vedere entrambi: con la moglie del sindaco, c’era il marito di Flora.
“Diventi ogni volta più troia!”
“Hai paura di non tenermi testa?”
“Tu vieni domenica che ti faccio fare iul pieno per un’altra settimana!”
“Tu lascia che quello stronzo se ne vada all’osteria e vengo a svuotarti come oggi: vedrai chi si arrende prima!”
“L’ho detto: sei proprio una troia:”
Si baciarono, con la mano di lui che palpeggiava il gran culo della donna, poi lei si incamminòsul sentiero, verso il paese, lui, invece, prese la direzione opposta.
Quando mi decisi ad abbandonare il mio posto e tornare sul sentiero, di lui non c’era traccia e lei era solo un puntino, all’altezza delle prime case del paese.
“Boia, svegliati! Abbiamo fatto una cazzata!”
Lei aprii con fatica gli occhi, mi guardò con l’aria di chi si trattiene dal far partire una mitraglia di improperi.
“Che hai? È Domenica: non verrà nessuno!”
“Ma al convento si saranno accorte che non ci sei.”
Non riuscii a trattenere uno scoppio di ilarità, poi mi tirò a se per baciarmi.
“La superiora è comprensiva: sa che sono un po’ birichina. Abbiamo tutto il tempo che vogliamo e, a dire il vero, ieri sera non sei stato il massimo. Ma io sono buona e ti do la possibilità di riparare.”
Dicendolo, aveva preso ad accarezzarmi tutto il corpo con movenze lente e leggere alle quali, sapeva, non ero indifferente. Anche l’accusa che aveva appena lanciato mi stimolava a far giustizia, anche se non la consideravo per nulla veritiera. Mi incuneai tra le sue cosce, lisce e vellutate da parer di seta, fino a raggiungere quel magnifico tesoro che celava. Le mordicchiai il clitoride, strappandole i primi gemiti della lussuria, mentre con le mani spingeva la mia testa verso un limite già raggiunto, stante l’impenetrabilità dei corpi. Avevo imparato, ormai, che il primo orgasmo lo avrebbe raggiunto rapidamente, ma che sarebbe servito solo ad aumentare a dismisura la sua fame di sesso, di godere: furono sufficienti alcuni colpi di lingua, dati sapientemente, perché mi spruzzasse di un miele viscose ed inebriante. Poi mi sollevò il capo, tirandomi su, e mi ripulii tutto, leccandomi il volto. E tornò a baciarmi.
“Fottimi, ora! Non resisto più.”
“Sta tranquilla che ne ho tutte le intenzioni. Ed oggi ti rompo anche il culo.”
“Mi vuoi sodomizzare? Oddio, non l’ho mai fatto. Mi prometti che farai piano.”
Non risposi: la penetrai, ascoltando la sinfonia di gemiti di piacere e osservando l’aspetto beato e sognante che, ad occhi chiusi, ogni volta accompagnavano la congiunzione dei nostri corpi. Non potei non fare un confronto con il modo di fare l’amore di Flora, così acerbo, nonostante l’età, quasi selvaggio. Provavo qualcosa anche per questa giovane donna? O stavo solo confondendo un’attrazione sessuale per un sentimento benn più nobile? Cosa importava, ora? Di certo, in quel momento, lì c’erano un uomo ed una donna che si stavano donando, che si stavano regalando reciprocamente momenti di piacere intenso, indimenticabile. Il suo corpo si muoveva, sotto i miei colpi, cercando di assecondare il mio ritmo, anche se talvolta finivamo fuori giri. I suoi capezzoli puntavano verso il mio torace, sfiorandolo quando il mio corpo si abbassava, allontanandosi quando, invece, tornavo su.
“Ora vengo io su di te!”
Mi lasciai ribaltare; lei si mise a cavalcioni su di me, impalandosi il mio lui, che mi sembrò sbattesse sulla parete dell’utero. Assunse un movimento che, da lento al limite del braditismo, andò ad aumentare, man mano che il secondo orgasmo si avvicinava, fino a diventare una cavalcata forsennata, condita da versi e frasi sconnesse, urlate mentre il capo si dimenava, facendo ondeggiare selvaggiamente i capelli. Infine si abbandonò su di me, il respiro affannato, le labbra che si sperticavano in piccoli baci, talvolta morsi, al mio torace, al mio collo, alle mie labbra. Poi si rialzò: sembrò quasi guardarmi con aria di sfida. Si sfilò il mio cazzo, per puntarlo con decisione verso l’orifizio anale. Sapevo che non ce l’avrebbe fatta, ma ci mise tutto l’impegno.
“Vieni qui!” Le dissi “ Lo preparo un po’!” per la prima volta ebbi l’impressionne che non sapesse bene cosa fare, allora la presi per i fianchi e la portai sopra la mia testa: in ginocchio, la sua fica era oscenamente offerta ai miei occhi e alla mia lingua, ma non era quello che volevo. Le feci capire di venire ancora più su e, finalmente, la splendida rosellina anale si offrii a me. Leccai e fistai piano con un dito, che facevo roteare dentro di lei. Poi due, e tre.
“Riproviamo?” chiesi.
Non battè ciglio: tornò nella posizione di prima e, sia pure con un po’ di fatica, si fece scivolare il cazzo nel budello. Ora gli occhi erano strizzati in una smorfia di dolore, mentre cominciava ad andare su e giù, una lacrima le scivolò lungo la guancia.
“Fa male, ma è bello!” mi disse, poco prima che i muscoli del viso cominciassero ad allentarsi e sul suo bel viso tornasse l’espressione beata che tanto mi piaceva quando facevamo l’amore.
Restammo a letto tutta la mattina. Fu una scelta: all’ora di pranzo, probabilmente, sarebbe stato più facile uscire senza essere visti. Lei prese la strada che si inerpicava verso il monte, dove a qualche centinaio di metri sorgeva il convento, dominante sull’intero paese. Io, invece, andai a mangiare un boccone all’osteria, dove, quando ormai ero a fine pasto, mi raggiunse il sindaco.
“Buondì, dottore! Posso offrirla un bicchiere?”
“Grazie! Ho già bevuto abbastanza. Anzi, se non la offende, le lascio la mia caraffa. Andrò a fare un giro in montagna, per digerire!”
Lui afferrò il boccale e si versò un bicchiere, come dire: nessuna offesa! Salutai, pagai il conto e mi incamminai verso un sentiero che avevo visto spesso, ma che avevo escluso fino ad allora dai miei percorsi, per via che era ancora troppo coperto di neve. Era un sentiero che, più degli altri, si inoltrava nel bosco, tra castagni e faggi. Avrò camminato per una buona mezz’ora, quando mi trovai nei pressi di una radura, dove s’ergeva una piccola costruzione, una di quelle usate per dare rifugio ai pastori che portassero all’alpe le mandrie. Stavo per uscire alla luce del sole, quando la porta della casa si aprii: avevo pensato non ci fosse alcuno, perché le imposte dell’unica finestra erano serrate. La testa di una donna fece capolino, guardando a destra e sinistra, poi, lentamente uscii, incamminandosi verso la parte opposta a me. Guardò dietro la casa, poi girò su se stessa per venire verso di me: mi acquattai dietro il tronco di un albero, non prima di aver riconosciuto in quella donna, alta, robusta sui 50 anni, la moglie del sindaco. Con fare circospetto, guardò anche da quest’altro lato della casa, poi, evidentemente rinfrancata, tornò sui suoi passi e sparì dentro casa. L’istinto mi suggerì di abbandonare il sentiero e ridiscesi il pendio di alcuni metri, appiattendomi ancora quasi coricandomi sul terreno. Sentii la porta sbattere e il rumore sordo di un catenaccio; poi una risata e le voci di un uomo e di una donna che si scambiavano frasi oscene. Le voci si avvicinavano: il cuore sembrava esplodere nel mio petto. Ora riuscivo a vedere entrambi: con la moglie del sindaco, c’era il marito di Flora.
“Diventi ogni volta più troia!”
“Hai paura di non tenermi testa?”
“Tu vieni domenica che ti faccio fare iul pieno per un’altra settimana!”
“Tu lascia che quello stronzo se ne vada all’osteria e vengo a svuotarti come oggi: vedrai chi si arrende prima!”
“L’ho detto: sei proprio una troia:”
Si baciarono, con la mano di lui che palpeggiava il gran culo della donna, poi lei si incamminòsul sentiero, verso il paese, lui, invece, prese la direzione opposta.
Quando mi decisi ad abbandonare il mio posto e tornare sul sentiero, di lui non c’era traccia e lei era solo un puntino, all’altezza delle prime case del paese.
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