Il convento sul monte: suor Maria Beatrice

di
genere
etero

Non avrei potuto scegliere un inverno peggiore, per cominciare il mio lavoro in quel paesotto dove l’Ovesca si tuffa nel Toce. Nevicava come non ne avesse ancora fatta e, quel sabato sera, ero andato a letto col preciso intento di dormire fino a tardi. Mi ero dato, come unico impegno, di andare a messa, ma anche questo sarebbe sato soggetto ad un minimo di schiarita. La settimana era stata pesante ed avevo proprio bisogno di riposare.
Fui svegliato da qualcuno che bussava alla porta: in verità pareva, piuttosto, che qualcuno volesse abbatterla, per entrare senza il mio permesso. Mentre davo voce, sperando che servisse a questo qualcuno per tranquillizzarsi e salvare, così, la mia porta, il mio sguardo corse alla finestra. Non filtrava un filo di luce.
Aprii la porta di malavoglia e fui investito da due venti gelidi: uno era quello del tempo fuori, l’altro quello di un ragazzo disperato, poco più che ventenne, ipotizzai, che mi travolse, scuotendomi per le braccia:
“Dottore, dottore, mio figlio sta morendo: ti prego, andiamo!”
Provai a chiedere qualcosa, ma ricevetti come risposta che uscisse di casa e si mettesse in posizioni di chi deve marciare. E di fretta anche.
“Mi dia almeno il tempo di mettere le scarpe!”
“Metti gli stivali… e andiamo. Dai, dottore!”
Infilai gli stivali e lo seguii.
“Dove dobbiamo andare?”
“A Montescheno!”
“Montescheno?”
“Sì, ma abito proprio all’inizio del paese!”
Era chiaro che muovere qualsiasi obiezione sarebbe stato inutile. E, sinceramente, anche poco allineato a ciò che mi aveva spinto a diventare medico.
Camminammo per più di un’ora: lo seguivo per quella che diceva essere una scorciatoia, fino a raggiungere una casa fatiscente, col tetto in beola che ospitava una giovanissima donna, un bambino di appena due anni, con evidenti problemi di respirazione. Ed una capra.
Guardai la ragazza: piangeva e mi implorava con lo sguardo, lo stesso che si rivolge all’icona di un santo. O della Madonna!
Mi avvicinai al letto e posai una mano sulla fronte del bambino: scottava! Auscultai: un rantolo si sostituiva al respiro. Dovevo abbassare la temperatura, per evitare danni al cervello: non era certo il ghiaccio a mancare, con tutta la neve che c’era. Diedi un antibiotico, iniettandolo: quel corpo morto non ebbe alcuna reazione. Rimasi lì, accanto al bimbo, sperando che la febbre si abbassasse un po’. Aprii gli occhi che era quasi mezzogiorno: non fu facile spiegare ai genitori che non avevo fatto un miracolo, che il loro bambino era ancora lontano dal guarire e che, quel flebile segnale di miglioramento, era dovuto solo al fatto che la febbre si era abbassata.
“Ora, uno di voi sa fare le iniezione’”
Scossero il capo entrambi. Rimasi ancora, il tempo di insegnare loro come fare, poi presi la via del ritorno, assicurando che sarei tornato a vedere il bimbo ogni giorno.
Ma dire via del ritorno è una gran parola, in quel deserto di neve. Faticai a mantenermi sulla pista, usando tutti i riferimenti che mi fu possibile individuare. Ma la mia giornata no non era finita. Arrivato a casa, trovai che la porta era aperta: entrai guardingo, ma ogni cosa sembrava essere al suo posto.
“Buon pomeriggio, dottore!” la voce mi aggredì alle spalle. “Non si può mai stare tranquilli.” Mi voltai: all’angolo, proprio dove c’è la mia scrivania, seduto dietro questa, c’era un uomo che non avevo mai visto.
“Chi è lei? Cosa vuole da me?”
“Tranquillo, dottore! È solo una visita di cortesia. Pare che abbiamo una conoscenza in comune.”
“Se lo dice lei: io non so di chi parla.”
“Flora!”
“Flora?”
“Già, mia moglie. Si dice in giro… e la voce è arrivata anche in Svizzera… che tu voglia mettere becco, e non solo, nella sua vita privata. Ora se del resto potrei anche fregarmene, ma non me ne frego, di quello che succede tra me e mia moglie non mi piace che qualcuno si interessi. Mia moglie è un po’ sbadata, capita che abbia qualche incidente. Tutto qui! Capito, dottore? TUTTO QUI! Ora me ne vado, sicuro che hai capito. Sei uno che ha studiato, no? Sei intelligente! Ti lascio solo un promemoria, non si sa mai.” Il pugno mi colpii alla bocca dello stomaco, mandandomi al tappeto, nel vero senso della parola. Non lo vidi uscire, ma il gelo ed il silenzio che mi avvolsero, mi fecero capire che ero solo, finalmente. Non l’avrebbe passata liscia, pensai. Ma, per il momento, volevo solo tornare a letto: non avevo neanche voglia di mangiare; mi tirai su a fatica, accompagnandomi ad una sedia che sfruttai come sostegno. Ma ero appena riuscito a mettermi in posizione eretta, sia pur piegato in avanti, in posizione antalgica, che lo spirito nero di quella domenica si materializzò una volta di più.
“Posso entrare?” una voce di donna, giovane, fresca “Buon pomeriggio, dottore! Ma… si sente bene?”
“Sì… sì, certo! Buon pomeriggio, sorella!” dinanzi a me, nel abito grigio delle suore del convento che dominava il paese, arroccato all’imbocco della valle, una giovane suora sollecitò il mio interesse di giovane uomo. Mi colpirono i suoi occhi color di un cielo di primavera e le sue labbra modellate perfettamente e non resistetti dal lasciare che il mio sguardo la analizzasse per tutto il corpo. Cercai di immaginare le curve che si celavano sotto quel vestito quasi informe e mi dissi che doveva essere una bella donna.
Peccato non fosse disponibile, pensai tra me.
Quando tornai a guardarla, capii dai suoi occhi che mi aveva letto dentro. Ma non manifestava alcun imbarazzo.
“Qualcosa non va, sorella?”
“Più di qualcosa!”
“Mi dica?”
“Sarà meglio chiudere la porta!”
“Ha ragione, ma non sarà semplice. Ho avuto una visita che non ha voluto attendere il mio ritorno per entrare.”
Riuscì a chiudere, sfruttando un chiavistello che consentiva di sbirciare dall’interno, pur non spalancando la porta.
“Quando mi voltai, lei era distesa sul letto che usavo per visitare, con la tonaca sollevata fino in vita e completamente nuda sotto.
“Ho un problema proprio lì, dottore!”
“Di che si tratta, esattamente?” chiesi, deglutendo a fatica. Era anche più bella di come l’avevo immaginata, con le cosce perfettamente tornite. Gli unici peli che si potevano vedere erano quelli che incorniciavano la sua fica. Il resto doveva averlo raso, ma qualcuno doveva averla aiutata a farlo. Pensai che non dovesse essere una pratica comune in un convento, ma in fondo la cosa non mi interessava.
“Credo che debba visitarmi per capirlo: non saprei come descriverlo!”
Mi ronzava nella testa l’ipotesi che quello di cui aveva bisogno quella bela suora fosse una buona razione di cazzo. Tuttavia, mi avvicinai con discrezione e fare professionale. Non dimenticavo quanto fosse stata di merda quella giornata e non avevo alcun bisogno di complicarla ancora di più. Lavai le mani, prima di schiudere le grandi labbra per osservare.
“Non vedo segni di irritazione o infezione.”
Infilai un dito: mi rispose un sospiro. Non era vergine.
“Aspetti!”
Presi un po’ di crema di vasellina e la passai sulla mano, poi tornai ad infilare il dito… poi due e poi tutta la mano.
“Sente fastidio, così?”
“No, dottore. Anzi, ora va meglio!” non potevo più sbagliare, aveva proprio bisogno di una razione di cazzo. Almeno quanto io avevo bisogno di una scopata: dopo quella volta con Flora non ero più stato con una donna. Continuai a stuzzicarla, accendendo ancora di più le sue voglie.
“Dottore, tu capisci subito la diagnosi!”
“Veramente, non era difficile, anche se insolito!”
“Dammelo, dottore!”
Le offrii il mio cazzo e lei lo fece sparire nella sua bocca, dimostrandomi una certa padronanza dell’arte della fellatio
“Il mio letto è decisamente più grande: potrei visitarti più accuratamente!”
Mentre ci avvicinavamo al mio letto, si sfilò la tonaca completamente, esibendomi un corpo meravigliosamente proporzionato, di una pelle bianchissima, un seno ritto, sormontato da due areole rosa e due capezzoli pronunciati, resi chiodi dall’eccitazione. Ci mettemmo nella posizione del 69. La sua fica aveva un odore che mi inebriava, portando la mia erezione al massimo livello, mentre tornava ad imboccarsi. Solo i peli mi davano fastidio e glielo dissi.
“Magari, la prossima volta, me li farò radere prima!”
“Magari la prossima volta lascerai che lo faccia io.”
Mi sorrise, mentre tornavo a penetrarla con tutta la mano, fino a farla sparire del tutto in quella caverna.
Era così dolce il miele che distillava che lo avrei bevuto tutto. Mi resi conto che non sapevo neanche il suo nome.
“Come ti chiami?” le chiesi, senza cessare quel che sato facendole.
“Credi sia importante?”
“No, ma mi piace saperlo!”
“Prima, mi chiamavo Rosanna!”
“Come prima!”
“Prima di diventare suora.”
“Ed ora?”
“Ora sono suor Maria Beatrice! Soddisfatto? Puoi continuare a scoparli?”
Non me lo feci ripetere e, voltandomi, la penetrai, strappandole un sospiro di piacere, un attimo prima che le sue labbra cercassero le mie. Facemmo l’amore per un tempo indeterminato, mentre fuori nevicava ed il cielo si faceva via via più scuro. Non so quante volte venne. Non so quante venni io.
Si alzò di scatto, dopo essere venuta ancora una volta.
“Devo proprio andare!”
“Immagino: dovrai dare delle spiegazione!”
“No! Devo andare perché fa buio. La superiora è molto comprensiva. Vedrai che ti piacerà, quando la conoscerai. È stato bello, dottore: parlerò bene di te… e non mi giudicare!”
“Non lo farò! È stato bello anche per me!”


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scritto il
2025-02-17
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