Il convento sul monte: Flora
di
Troy2a
genere
etero
Anno 1950
L’Italia fa ancora i conti con un passato doloroso ed un presente difficile. Io faccio i conti con tutto questo ed anche di più. Mio padre è appena tornato a casa, dal carcere: ha pagato il fatto di non aver mai preso le distanze dal suo passato fascista, anche se non ha mai fatto male a nessuno e neanche ha avuto privilegi. Altri come lui hanno saputo saltare il fosso ed essere sempre dalla parte dei vincitori. Io sono un giovane medico, appena finito di specializzarmi in cardiologia: mi aspetterebbe un brillante futuro, partendo, magari, dall’ospedale della mia città, dove mi sono specializzato. Ma c’è un altro ma. In questi duri anni, con mio padre lontano, si è creato uno strano rapporto con mia madre, che tracima dall’amore filiale. È lei a chiedermi di andare via, di rifarmi una vita.
Mi informo: nell’Alto novarese, nell’Ossola partigiana un borgo è rimasto senza dottore. Non ci penso due volte, abbraccio i miei, non senza stringere una volta ancora il seno di mia madre sul mio petto e parto.
Alla stazione c’è un piccolo comitato d’accoglienza che storce un po’ il naso a vedermi così giovane. Il sindaco, uno dei tanti passati dal ruolo di Podestà a questo nuovo, mi prende sottobraccio e ci incamminiamo, seguiti dal codazzo del prete, del farmacista e del maresciallo dei carabinieri della vicina stazione.
“Figliolo!” il suo alito sa di vino e di aglio, nonostante non sia ancora ora di pranzo “Questo è un piccolo borgo, niente a che fare con la città da dove vieni. Ma, se ci sai fare, troverai da passare il tuo tempo anche qui!” si gira e fa l’occhietto agli altri che si sciolgono in un sorriso, mentre il parroco giunge le mani e si segna, o forse si segna e poi giunge le mani. “Devi stare attento, però: qui i fucili, ormai, sparano solo per la caccia, ma le lingue sono affilate come pugnali.”
Per un attimo mi passa per la testa che si sia saputo qui, quello che a Novara non si sa,ossia di me e mia madre. Ma scaccio via questa stupida idea, mentre, passo dopo passo, arriviamo ad una piccola casa, quasi sulla piazza del paese.
“Questa è stata requisita ad un maledetto fascista!” sentenzia il primo cittadino “Non è grandissima, ma riuscirai a viverci in attesa di sistemarti meglio. Qui accanto, dove teneva il calesse, potresti ricavarci lo studio…”
“Grazie! Ma credo che avrò bisogno di un calesse per muovermi: non ho ancora la macchina e, a dire il vero, neanche la patente. Farò studio nella mia camera: aggiungerò un lettino per le visite.”
“Fa come vuoi! Ora, andiamo a mangiare all’osteria: ti presentiamo all’oste, con cui abbiamo già parlato. Mangerai lì, i primi giorni: cucina bene e si pagherà poco, vedrai!”
Quando riuscii a liberarmi di quei tre, sentii un enorme senso di liberazione: non mi piacevano, nessuno dei tre, ma il sindaco era quello che consideravo il più viscido di tutti. Mi buttai sul letto: ero partito che era ancora buio pesto e non è che la notte fossi riuscito a riposare. Mi addormentai quasi subitoe dormii di un sonno pesante; mi svegliò un deciso bussare alla porta. Andai ad aprire: sull’uscio apparve la figura di una
donna a cui non seppi, sul momento, dare un’età. Era coperta fin sopra i capelli per proteggersi dal vento gelido che tirava in quel tardo pomeriggio di montagna. Ma anche per coprire dei segni per me inequivocabili.
“Cosa è successo?” chiesi senza neanche salutare
“Sono caduta giù per le scale.” Lo disse senza palesare nessuna emozione. Feci per toglierle il fazzoletto, ma mi fermò la mano.
“Ho bisogno di dare un’occhiata: credo sia venuta da me perché sono un medico.” Sciolse il nodo e liberò un volto dai bei lineamenti, anche se solcati da alcune rughe che testimoniavano anni di vita vissuta e di fatiche. Aveva un occhio nero ed un segno rossastro, come di una vergata data con chissà che. “Sicura di essere caduta?” annuii, senza convinzione, col capo. “Solo qui?” chiesi ancora. Rispose no, sempre con un cenno della testa. “Si spogli!” rimase immobile, a fissarmi. “Benedetta donna, come vuole che la visiti vestita?” Sfilò il logoro vestito, rimanendo con un paio di mutandoni ed una maglia di lana. Mi sorpresi a pensare che aveva un bel corpo, nonostante tutto. Sollevai la maglia e trovai altri segni, come quello sul volto. Ed altri ancora sui glutei, per quello che mi consentii di esplorare. Era evidente che non era stata una caduta a ridurla così, ma lo era altrettanto che non mi avrebbe mai detto cosa, o meglio chi lo aveva fatto. La medicai con quel poco che avevo nella mia borsa e rimasi a parlare con lei per un bel po’, prima che andasse via. Senza che se ne accorgesse, la seguii fino a casa sua, una modesta abitazione, proprio alla fine del ponte di legno sul torrente. Sbirciai dentro: c’era solo lei, in una stanza tenuta perfettamente in ordine, dove sembrava regnare la monotonia della solitudine. Mi allontanai, prima che potesse vedermi; all’osteria trovai chi mi aspettavo. Chiesi chi fosse e cosa potesse esserle accaduto.
“Dottore, dottore! Non mi sono spiegato bene: devi imparare a stare l tuo posto qui. Vedere, vedi, certo: ma poi devi dimenticare quello che hai visto!” scappai via: quell’uomo mi piaceva sempre meno.
L’indomani fu una giornata di durissimo lavoro: la gente aspettava il dottore, come si aspetta Gesù a Natale. Mi liberai solo nel tardo pomeriggio: avevo una fame tremenda, ma volevo andare a vedere quella donna. Mi aprii ed ebbe un moto di stupore.
“Dottore! Che ci fai qui?”
“Volevo vedere come andava: si spogli!”
“Va molto meglio, non c’è bisogno!”
“Si tratta solo di un minuto. Passo un po’ di questa pomata che ho preso in farmacia e vado.” Riluttante, seguii il rito del giorno prima. Mi sorpresi ad eccitarmi, mentre passavo la mano su quella pelle segnata.
“Chi ti ha ridotta così?” chiesi improvvidamente, passando a quel tu che la sua ignoranza e semplicità aveva usato fin dal primo momento.
“L’ho detto: sono caduta!” disse, d’un fiato mentre si ricopriva. Dovevo conquistarmi la sua fiducia: pensai che parlare della sua casa, di quanto fosse pulita e profumasse di cose buone appena fatte potesse aiutare a rompere il ghiaccio. Ed in effetti il ghiaccio si sciolse. Mi parlo di una vita vuota, vissuta da sola per la maggior parte del tempo. Ma proprio quando stava per dirmi qualcosa di più si fermò.
“Gradisci un bicchiere di vino?”
“No, grazie! Sono a digiuno da ieri sera e se bevo qualcosa pensò che starò male!”
Senza parlare, prese due piatti di stagno laccato e due bicchieri, due cucchiai e sistemò tavola mentre la guardavo senza riuscire a dire nulla. Trasse una pignatta dal fuoco e con un mestolo di legno versò un povero stufato di verdure nei piatti. Sciolse un tovagliolo che era sul tavolo, liberando un tozzo di pane nero e duro come mai mi era capitato di vedere.
“Davvero, non c’è bisogno!” provai a dire.
“Tu hai fame! Io mangerò con qualcuno dopo non so quanto tempo!” mi fece sentire importante, come se fossi io a dare a lei e non viceversa.
Mangiammo conversando, come se ci conoscessimo da sempre e finalmente uscii tutto il male che covava dentro, di un marito che tornava dalla Svizzera, dove probabilmente aveva un’altra donna, solo una volta al mese e la picchiava, così, senza un perché, o andandolo a trovare col lanternino.
Parlando, non ci eravamo accorti che il buio era sceso del tutto e che aveva cominciato a nevicare.
“Non puoi tornare a casa ora!” lo diceva in preda ad un enorme nervosismo, roteando lo sguardo in quella minuscola stanza alla ricerca di qualcosa che sapeva non esserci.
“Tranquilla, Flora!” sì, finalmente sapevamo i nostri nomi. “Non devo poi fare tanta strada.”
“No! Non puoi! Dormirò per terra.” Continuammo a confrontarci su posizioni divergenti, poi capitolai io.
“Va bene Dormirò qui, ma a condizione che dividiamo il letto: sta tranquilla che mi terrò lontano.”
Mi guardò come fosse stata colpita da una frustata, balbettò qualcosa di incomprensibile, prima di cedere, arrossendo in volto dalla vergogna.
Entrambi non avevamo fatto i conti con la natura: io non giacevo con una donna da mesi e lei molto di più con un uomo: fui io a cercarla, nel cuore della notte, fidando che stesse dormendo. Allungai le mani verso il suo culo e, non appena lo toccai, la sentii piangere, ma senza che si ritraesse.
“Scusami, Flora! Non volevo, è stato più forte di me. Vado via subito!” feci per alzarmi, ma la sua mano mi prese per il braccio.
“Non piango per quello che hai fatto tu, ma per quello che voglio io. Ti prego, resta! Ma poi, domani, dovremo dimenticare tutto. Fare finta di non conoscerci neanche.”
Mi piegai su di lei e la baciai: la sua pelle profumava di pulito e di innocenza, mentre la carezzavo spingendomi sempre più infondo, ad esplorare il suo sesso, ricoperto da una folta peluria. Lei faceva altrettanto col mio corpo, con movimento che si scioglievano sempre più nella lussuria, dall’iniziale titubanza. La sua fica era un lago di umori, quando le mie dita si intrufolarono in lei, cominciando un ditalino lento e appassionato. Ci volle veramente poco, prima che esplodesse in un orgasmo devastante, dal quale si riprese con la voglia di conoscere da vicino il mio cazzo. Lo scappellò con una lentezza inusitata, prima di avvicinare la lingua e poi prenderlo in bocca. Anche a me bastarono pochissimi movimenti della sua lingua e delle sue labbra per sputarle in gola il mio piacere. Mi guardò disgustata.
“Non avevo mai fatto!”
“Cosa?”
“Non avevo mai assaggiato il succo di un uomo.”
“Scusami!”
“Ed ora?”
“Ora vorrei entrare in te!”
“Davvero?”
Senza rispondere la sollevai per i fianchi e le sfilai i mutandoni. La penetrai con dolcezza, forse non lo avevo mai fatto così. Il suo respiro si fece pesante in un attimo, mentre si avvinghiava a me con le sue braccia forti.
“Ti prego: fai piano! Sono ancora fertile.”
La scopai con tutta la tenerezza di cui ero capace, facendo attenzione ai segnali del mio corpo, per evitare di venirle dentro e, quando mi sentii prossimo, mi sfilai da lei. Avrei voluto sborrare sulla sua pancia, per fare meno danni possibile, ma lei volle di nuovo prenderlo in bocca. Ed allora mi girai, dando vita ad un sessantanove che lei non si aspettava. La sua fica sapeva di buono, il suo clitoride vibrava come fosse dotato di vita propria, mentre entrambi raggiungevamo un nuovo orgasmo e lei ingoiava tutto il mio sperma ed io il suo nettare. Quando la guardai, aveva di nuovo la faccia disgustata.
“Perché lo hai fatto?”
“Perché ho voluto, perché ho capito che ti piace che io ingoi il tuo seme. Ora dormiamo almeno un’ora: poi dovrai andare, prima che il paese si svegli e ti veda uscire da qui!”
L’Italia fa ancora i conti con un passato doloroso ed un presente difficile. Io faccio i conti con tutto questo ed anche di più. Mio padre è appena tornato a casa, dal carcere: ha pagato il fatto di non aver mai preso le distanze dal suo passato fascista, anche se non ha mai fatto male a nessuno e neanche ha avuto privilegi. Altri come lui hanno saputo saltare il fosso ed essere sempre dalla parte dei vincitori. Io sono un giovane medico, appena finito di specializzarmi in cardiologia: mi aspetterebbe un brillante futuro, partendo, magari, dall’ospedale della mia città, dove mi sono specializzato. Ma c’è un altro ma. In questi duri anni, con mio padre lontano, si è creato uno strano rapporto con mia madre, che tracima dall’amore filiale. È lei a chiedermi di andare via, di rifarmi una vita.
Mi informo: nell’Alto novarese, nell’Ossola partigiana un borgo è rimasto senza dottore. Non ci penso due volte, abbraccio i miei, non senza stringere una volta ancora il seno di mia madre sul mio petto e parto.
Alla stazione c’è un piccolo comitato d’accoglienza che storce un po’ il naso a vedermi così giovane. Il sindaco, uno dei tanti passati dal ruolo di Podestà a questo nuovo, mi prende sottobraccio e ci incamminiamo, seguiti dal codazzo del prete, del farmacista e del maresciallo dei carabinieri della vicina stazione.
“Figliolo!” il suo alito sa di vino e di aglio, nonostante non sia ancora ora di pranzo “Questo è un piccolo borgo, niente a che fare con la città da dove vieni. Ma, se ci sai fare, troverai da passare il tuo tempo anche qui!” si gira e fa l’occhietto agli altri che si sciolgono in un sorriso, mentre il parroco giunge le mani e si segna, o forse si segna e poi giunge le mani. “Devi stare attento, però: qui i fucili, ormai, sparano solo per la caccia, ma le lingue sono affilate come pugnali.”
Per un attimo mi passa per la testa che si sia saputo qui, quello che a Novara non si sa,ossia di me e mia madre. Ma scaccio via questa stupida idea, mentre, passo dopo passo, arriviamo ad una piccola casa, quasi sulla piazza del paese.
“Questa è stata requisita ad un maledetto fascista!” sentenzia il primo cittadino “Non è grandissima, ma riuscirai a viverci in attesa di sistemarti meglio. Qui accanto, dove teneva il calesse, potresti ricavarci lo studio…”
“Grazie! Ma credo che avrò bisogno di un calesse per muovermi: non ho ancora la macchina e, a dire il vero, neanche la patente. Farò studio nella mia camera: aggiungerò un lettino per le visite.”
“Fa come vuoi! Ora, andiamo a mangiare all’osteria: ti presentiamo all’oste, con cui abbiamo già parlato. Mangerai lì, i primi giorni: cucina bene e si pagherà poco, vedrai!”
Quando riuscii a liberarmi di quei tre, sentii un enorme senso di liberazione: non mi piacevano, nessuno dei tre, ma il sindaco era quello che consideravo il più viscido di tutti. Mi buttai sul letto: ero partito che era ancora buio pesto e non è che la notte fossi riuscito a riposare. Mi addormentai quasi subitoe dormii di un sonno pesante; mi svegliò un deciso bussare alla porta. Andai ad aprire: sull’uscio apparve la figura di una
donna a cui non seppi, sul momento, dare un’età. Era coperta fin sopra i capelli per proteggersi dal vento gelido che tirava in quel tardo pomeriggio di montagna. Ma anche per coprire dei segni per me inequivocabili.
“Cosa è successo?” chiesi senza neanche salutare
“Sono caduta giù per le scale.” Lo disse senza palesare nessuna emozione. Feci per toglierle il fazzoletto, ma mi fermò la mano.
“Ho bisogno di dare un’occhiata: credo sia venuta da me perché sono un medico.” Sciolse il nodo e liberò un volto dai bei lineamenti, anche se solcati da alcune rughe che testimoniavano anni di vita vissuta e di fatiche. Aveva un occhio nero ed un segno rossastro, come di una vergata data con chissà che. “Sicura di essere caduta?” annuii, senza convinzione, col capo. “Solo qui?” chiesi ancora. Rispose no, sempre con un cenno della testa. “Si spogli!” rimase immobile, a fissarmi. “Benedetta donna, come vuole che la visiti vestita?” Sfilò il logoro vestito, rimanendo con un paio di mutandoni ed una maglia di lana. Mi sorpresi a pensare che aveva un bel corpo, nonostante tutto. Sollevai la maglia e trovai altri segni, come quello sul volto. Ed altri ancora sui glutei, per quello che mi consentii di esplorare. Era evidente che non era stata una caduta a ridurla così, ma lo era altrettanto che non mi avrebbe mai detto cosa, o meglio chi lo aveva fatto. La medicai con quel poco che avevo nella mia borsa e rimasi a parlare con lei per un bel po’, prima che andasse via. Senza che se ne accorgesse, la seguii fino a casa sua, una modesta abitazione, proprio alla fine del ponte di legno sul torrente. Sbirciai dentro: c’era solo lei, in una stanza tenuta perfettamente in ordine, dove sembrava regnare la monotonia della solitudine. Mi allontanai, prima che potesse vedermi; all’osteria trovai chi mi aspettavo. Chiesi chi fosse e cosa potesse esserle accaduto.
“Dottore, dottore! Non mi sono spiegato bene: devi imparare a stare l tuo posto qui. Vedere, vedi, certo: ma poi devi dimenticare quello che hai visto!” scappai via: quell’uomo mi piaceva sempre meno.
L’indomani fu una giornata di durissimo lavoro: la gente aspettava il dottore, come si aspetta Gesù a Natale. Mi liberai solo nel tardo pomeriggio: avevo una fame tremenda, ma volevo andare a vedere quella donna. Mi aprii ed ebbe un moto di stupore.
“Dottore! Che ci fai qui?”
“Volevo vedere come andava: si spogli!”
“Va molto meglio, non c’è bisogno!”
“Si tratta solo di un minuto. Passo un po’ di questa pomata che ho preso in farmacia e vado.” Riluttante, seguii il rito del giorno prima. Mi sorpresi ad eccitarmi, mentre passavo la mano su quella pelle segnata.
“Chi ti ha ridotta così?” chiesi improvvidamente, passando a quel tu che la sua ignoranza e semplicità aveva usato fin dal primo momento.
“L’ho detto: sono caduta!” disse, d’un fiato mentre si ricopriva. Dovevo conquistarmi la sua fiducia: pensai che parlare della sua casa, di quanto fosse pulita e profumasse di cose buone appena fatte potesse aiutare a rompere il ghiaccio. Ed in effetti il ghiaccio si sciolse. Mi parlo di una vita vuota, vissuta da sola per la maggior parte del tempo. Ma proprio quando stava per dirmi qualcosa di più si fermò.
“Gradisci un bicchiere di vino?”
“No, grazie! Sono a digiuno da ieri sera e se bevo qualcosa pensò che starò male!”
Senza parlare, prese due piatti di stagno laccato e due bicchieri, due cucchiai e sistemò tavola mentre la guardavo senza riuscire a dire nulla. Trasse una pignatta dal fuoco e con un mestolo di legno versò un povero stufato di verdure nei piatti. Sciolse un tovagliolo che era sul tavolo, liberando un tozzo di pane nero e duro come mai mi era capitato di vedere.
“Davvero, non c’è bisogno!” provai a dire.
“Tu hai fame! Io mangerò con qualcuno dopo non so quanto tempo!” mi fece sentire importante, come se fossi io a dare a lei e non viceversa.
Mangiammo conversando, come se ci conoscessimo da sempre e finalmente uscii tutto il male che covava dentro, di un marito che tornava dalla Svizzera, dove probabilmente aveva un’altra donna, solo una volta al mese e la picchiava, così, senza un perché, o andandolo a trovare col lanternino.
Parlando, non ci eravamo accorti che il buio era sceso del tutto e che aveva cominciato a nevicare.
“Non puoi tornare a casa ora!” lo diceva in preda ad un enorme nervosismo, roteando lo sguardo in quella minuscola stanza alla ricerca di qualcosa che sapeva non esserci.
“Tranquilla, Flora!” sì, finalmente sapevamo i nostri nomi. “Non devo poi fare tanta strada.”
“No! Non puoi! Dormirò per terra.” Continuammo a confrontarci su posizioni divergenti, poi capitolai io.
“Va bene Dormirò qui, ma a condizione che dividiamo il letto: sta tranquilla che mi terrò lontano.”
Mi guardò come fosse stata colpita da una frustata, balbettò qualcosa di incomprensibile, prima di cedere, arrossendo in volto dalla vergogna.
Entrambi non avevamo fatto i conti con la natura: io non giacevo con una donna da mesi e lei molto di più con un uomo: fui io a cercarla, nel cuore della notte, fidando che stesse dormendo. Allungai le mani verso il suo culo e, non appena lo toccai, la sentii piangere, ma senza che si ritraesse.
“Scusami, Flora! Non volevo, è stato più forte di me. Vado via subito!” feci per alzarmi, ma la sua mano mi prese per il braccio.
“Non piango per quello che hai fatto tu, ma per quello che voglio io. Ti prego, resta! Ma poi, domani, dovremo dimenticare tutto. Fare finta di non conoscerci neanche.”
Mi piegai su di lei e la baciai: la sua pelle profumava di pulito e di innocenza, mentre la carezzavo spingendomi sempre più infondo, ad esplorare il suo sesso, ricoperto da una folta peluria. Lei faceva altrettanto col mio corpo, con movimento che si scioglievano sempre più nella lussuria, dall’iniziale titubanza. La sua fica era un lago di umori, quando le mie dita si intrufolarono in lei, cominciando un ditalino lento e appassionato. Ci volle veramente poco, prima che esplodesse in un orgasmo devastante, dal quale si riprese con la voglia di conoscere da vicino il mio cazzo. Lo scappellò con una lentezza inusitata, prima di avvicinare la lingua e poi prenderlo in bocca. Anche a me bastarono pochissimi movimenti della sua lingua e delle sue labbra per sputarle in gola il mio piacere. Mi guardò disgustata.
“Non avevo mai fatto!”
“Cosa?”
“Non avevo mai assaggiato il succo di un uomo.”
“Scusami!”
“Ed ora?”
“Ora vorrei entrare in te!”
“Davvero?”
Senza rispondere la sollevai per i fianchi e le sfilai i mutandoni. La penetrai con dolcezza, forse non lo avevo mai fatto così. Il suo respiro si fece pesante in un attimo, mentre si avvinghiava a me con le sue braccia forti.
“Ti prego: fai piano! Sono ancora fertile.”
La scopai con tutta la tenerezza di cui ero capace, facendo attenzione ai segnali del mio corpo, per evitare di venirle dentro e, quando mi sentii prossimo, mi sfilai da lei. Avrei voluto sborrare sulla sua pancia, per fare meno danni possibile, ma lei volle di nuovo prenderlo in bocca. Ed allora mi girai, dando vita ad un sessantanove che lei non si aspettava. La sua fica sapeva di buono, il suo clitoride vibrava come fosse dotato di vita propria, mentre entrambi raggiungevamo un nuovo orgasmo e lei ingoiava tutto il mio sperma ed io il suo nettare. Quando la guardai, aveva di nuovo la faccia disgustata.
“Perché lo hai fatto?”
“Perché ho voluto, perché ho capito che ti piace che io ingoi il tuo seme. Ora dormiamo almeno un’ora: poi dovrai andare, prima che il paese si svegli e ti veda uscire da qui!”
3
3
voti
voti
valutazione
5.7
5.7
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Le brave mamme: Monica
Commenti dei lettori al racconto erotico