"E dire che ti odiavo" parte 2

di
genere
etero

I nostri atteggiamenti, da quel giorno, subirono cambiamenti impercettibili ma presenti.
Dico nostri perché con il tempo stavamo diventando qualcosa di simile ad una squadra.
Ci dividevamo i compiti, Riccardo si fidava di me e mi lasciava molta autonomia, ed iniziò perfino a dedicarmi momenti di pausa per spiegarmi alcune patologie che intendevo approfondire.
Mi stimava. Non lo diceva apertamente ma io lo vedevo, lo percepivo. Sorrideva più spesso. A mezza bocca, quasi di nascosto.
Una mattina la nostra paziente più amabile, una vecchietta affetta da demenza senile, con totale limpidezza mi chiese, indicando Riccardo: “Lui è tuo marito, vero?”.
Mi ritrovai ad arrossire, iniziai a balbettare.
Riccardo, divertito, prese la parola: “Certo, e a casa abbiamo anche due splendidi bambini!”.
La paziente sorrise, beata, e sogghignò.
Non avevo il coraggio di guardarlo in faccia.
Che cosa mi stava succedendo? Io avevo poco più di vent’anni e avevo sempre frequentato ragazzi della mia età. Riccardo ne aveva quaranta, era un uomo adulto, un uomo grande.
Inoltre, dalle sue attenzioni quasi tenere e presenti, era evidente che mi vedesse solo come una ragazzina che deve crescere. Non poteva di certo vedermi in “quel modo”.
Questa considerazione mi infastidì, colpì il mio ego in una profondità non prevista.
In quel periodo mi stavo vedendo con Giovanni, un mio compagno di corso. Il nostro rapporto era tiepido ed iniziato da poco. Non ero convinta fin dall’inizio, a dire la verità, ma lo stress dei turni e dello studio necessitava inevitabilmente di un canale di sfogo.
Il sesso tra me e Giovanni era quello che si può definire mediocre. Non tanto tecnicamente, dal momento che non c’era alcun problema rilevante. Ma mi annoiava.
Non era in grado di avvolgermi la mente, scavarla, arrovellarla. Non aveva nemmeno mani troppo abili, a dirla tutta.
Alcune sere, quando i nostri turni coincidevano, mi portava a mangiare una pizza, dove inevitabilmente ci trovavamo a parlare di esami e di ospedali, alternando discorsi vuoti ad ampie fette di silenzio.
Poi, come da prassi, saliva da me a bere un calice di rosso e finivamo a letto. O sul divano, dove capitava. Una dose chirurgica di sesso per succhiarmi via i pensieri e la stanchezza mentale.
Non riuscivo mai a raggiungere l’orgasmo con lui, se non aiutandomi con la mia stessa mano, nel mentre.
Mi domandavo perché dovessi accontentarmi di quello scenario, di quella pizza, sempre la solita margherita perché non avevo voglia di guardare il menù, di quelle parole banali. Di quel pezzo di carne che dovevo trattenere tra le cosce, inumidita il minimo indispensabile, come una concessione corporale, una penitenza, quasi.
I miei conflitti su Riccardo iniziarono a farsi sentire anche nel mio rapporto con Giovanni.
Una sera, a letto, mentre mi sfiorava i seni mi trovai ad immaginare, ad occhi chiusi, che tipo di approccio potesse avere Riccardo con le donne. Di fondo, era un uomo molto algido. Quando si trovava a gestire le urgenze restava impassibile e sicuro, non perdeva mai il controllo. Lo ammiravo per questo.
D’un tratto quelle mani che avvolgevano la mia carne sensibile come tentacoli non erano più quelle del mio compagno di corso. Erano mani più grandi, con dita dritte, unghie limate. Quelle mani con cui avevo visto manovrare pompe infusionali, applicare elettrodi, succhiare via il sangue.
Mi sentii strana. Scacciai il pensiero e tornai su Giovanni. Forse per la prima volta, mi accorsi di quanto quel corpo dentro il mio letto per me valesse meno di niente.
Fu una consapevolezza orribile, ma mi fece sentire leggera.
La mattina dopo, ancora un po' frastornata, entrai in guardiola per prendere le consegne. Riccardo era seduto sul tavolo, mi lanciò uno sguardo fugace. Avvampai. Sentii il calore arrampicarsi sulle guance, il collo esplodere, il cuore accelerare.
Mi feci strada a testa bassa fingendo di voler raggiungere la mia bottiglietta d’acqua, alla quale mi incollai per bere, sempre voltata, tentando di far sparire quel rossore imbarazzante e terribilmente reale.
Avevo lasciato i capelli sciolti, prima di legarli, e avevo truccato un po’ di più gli occhi.
Riccardo prese i fogli della terapia, mi si accostò, e senza guardarmi mi disse, con disinvoltura: “Sei troppo sexy per lavorare con me, oggi”.
Ammutolii. La parola “sexy” sulle sue labbra era qualcosa di inimmaginabile e allo stesso tempo inopportuno.
Pronunciata da qualsiasi altro uomo, l’avrei trovata kitsch.
Pronunciata da lui fu l’inizio della certezza che per Riccardo io non ero una ragazzina. Ero una donna.
Una donna sexy. Una donna che si sarebbe scopato volentieri.
scritto il
2018-05-09
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