"E dire che ti odiavo" parte 3
di
Isabella91
genere
etero
A partire da quel giorno, mi sembrò di tornare una ragazzina delle medie. Mi ritrovai carica di un entusiasmo quasi infantile. Ero piena di energia, cantavo sotto la doccia, la sera a letto fantasticavo. Al suono della sveglia delle 5.30 sorridevo, non indugiavo più sotto le coperte. Mi alzavo e facevo colazione, mi truccavo sorridendo, prestando attenzione ai dettagli. Mi cospargevo il corpo di crema ricca e profumata, cambiavo pettinatura.
Arrivavo in reparto fresca e con il sorriso stampato in faccia. Pregustavo sempre il momento prima di varcare la soglia della guardiola. Il momento in cui i nostri sguardi si sarebbero incrociati, all’alba di un nuovo giorno.
Iniziai a percepire la tensione, l’aria più condensata tra i nostri corpi vicini. Le sue mani che si muovevano sui fogli, le mie che sullo stesso carrello scartavano compresse. Sembrava che tra le nostre dita ci fosse un filo. Senza nemmeno sfiorarsi era come se fossero in qualche modo unite, attratte.
Riccardo scherzava, mi prendeva in giro, io fingevo di arrabbiarmi.
“Ce l’hai il fidanzato, Isabella?”, mi chiese un giorno, senza guardarmi direttamente.
Presa contropiede dalla domanda, iniziai a balbettare. “Preferisco stare da sola. Sto pensando solo alla mia carriera”.
Suonò patetico.
“Intendo qualcuno nella tua vita, non un futuro marito”, incalzò, sempre con il suo tono calmo.
Farfugliai qualcosa.
Lui rise. “Ho capito”.
Poi arrivò un sabato pomeriggio.
Riccardo mi stava dettando cosa scrivere nelle consegne, sul grosso quaderno. Con una mano mi trovavo costretta a mantenere ferma la parte sinistra strabordante di fogli, per impedire che ricadessero sulla pagina bianca, dove stavo scrivendo. Mi distrassi un attimo. C’era stato un rumore. Guardai d’istinto fuori dalla guardiola, senza spostare le mani, interrompendo la scrittura.
Allora la sentii. La sua mano, calda, morbida, si era posata sulla mia. Un solo istante, così breve e fugace da farmi domandare se potesse essere stato un mio delirio percettivo.
Guardai Riccardo di sottecchi. La sua espressione era impassibile come sempre.
Il cuore mi batteva fortissimo. Mi dimenticai della formulazione della consegna.
“Puoi ripetere, per favore?”, gli chiesi sommessamente.
Lui sorrise. Ripeté.
La sera del mio primo turno di notte in quel nuovo reparto cenai prestissimo. Preparai un’intera moka di caffè, mi feci la doccia, indossai il mio completo intimo di pizzo nero, il mio preferito. Mi piaceva l’idea che restasse celato sotto la divisa.
Quando arrivai, dopo aver distribuito l’ultima terapia e preparato l’occorrente per i prelievi della mattina successiva, Riccardo mi spiegò l’organizzazione.
Avremmo fatto a turno con gli altri colleghi per rispondere ai campanelli, alternandoci per appoggiarci un po’ sulle brandine.
Le brandine erano in un’area separata. Il primo turno per riposare toccò a noi e ad un’altra collega.
Ci sistemammo alla meglio con delle lenzuola pulite. La sua brandina era di fronte alla mia.
Tolsi la divisa carica di penne e forbici e restai con la maglietta bianca. Mi stesi.
Lui fece lo stesso. Cercai di rilassarmi. La notte sarebbe stata molto lunga e avevo bisogno di acquisire un po’ di forze.
Non riuscivo a prendere sonno. Sentivo lui dall’altra parte, così lontani seppur nella stessa stanza, in una posa così personale ed intima, quella del riposo, senza occhiali, senza scarpe, coperti dai lenzuoli.
Udii un bisbiglio. La collega gli stava sussurrando qualcosa. Trasalii. Fu un colpo nel fianco.
Restai immobile per un secondo. La sentii ridacchiare. Lui le rispose un flebile: “Dai, dormi”.
D’istinto mi alzai, afferrai la divisa, annebbiata. Il contenuto delle tasche si rovesciò rovinosamente sul pavimento, facendo sobbalzare anche loro.
“Dove vai?”, mi sussurrò Riccardo.
“Non ho sonno. Vado ad aiutare in guardiola con i campanelli”, risposi, gelida.
Riccardo se la faceva con quella, ecco tutto. Come avevo fatto ad essere così cieca?
Mi sentii stupida, una vera cretina. Tutti i segnali, la sua mano sulla mia, gli sguardi, gli apprezzamenti, allora erano frutto della mia fantasia.
Immaginai Riccardo in quella stanza che, con la mano infilata nei pantaloni di quella collega del cazzo, mi derideva insieme a lei.
La ragazzina innamorata. La studentessa gelosa.
Ora avevo davanti agli occhi l’immagine del suo cazzo che usciva dall’elastico della divisa, turgido e pronto per la bocca volgare di quella donna.
Fui invasa da un moto di rabbia e gelosia incontrollabili.
Suonò un campanello. Andai a rispondere e, quando tornai, indugiai davanti alla porta della stanza delle brandine. Ero pronta a sentire dei gemiti, a subire la testimonianza del loro reciproco desiderio.
Invece c’era solo silenzio.
Allora immaginai lui che le serrava la bocca con la mano e le sussurrava all’orecchio: “Stai zitta”.
Cercai di ricompormi. E se invece quel rapporto intimo fosse stato solo nella mia testa? Stavo perdendo lucidità in quella condizione di attesa.
Quando, un’ora dopo, uscirono per dare il cambio, mi mostrai del tutto distaccata, in una ridicola parvenza di indifferenza.
Riccardo faceva battute come suo solito, come se nulla fosse.
Accese la piccola tv. “Che cosa volete vedere?”, chiese gioviale.
Io non risposi.
Claudia, la collega, squittì: “Quello che vuoi tu”.
Avrei voluto strangolarla.
Restai zitta per tutto il tempo, sorbendomi un programma di cucina che Claudia sembrava gradire molto, viste le sue risatine.
Finalmente, all’ennesimo campanello, decise di alzare il culo ed andare a rispondere al posto mio.
Io e Riccardo rimanemmo da soli.
Io avevo lo sguardo forzatamente incollato alla tv, impassibile.
“Sei arrabbiata?”, mi chiese.
Questo era un tipo di domanda che, per il nostro rapporto professionale, valicava nettamente il limite che avremmo dovuto mantenere.
Riccardo, alla fine del tirocinio, avrebbe dovuto compilare una scheda dettagliata per giudicare il mio lavoro. Mi avrebbe dato un voto. Avrebbe potuto anche decidere di bocciarmi e farmi ripetere il mese.
“No, perché? Mi vedrai strana perché ho esagerato con il caffè”, mentii.
Era buio, c’era solo la luce intermittente dello schermo.
Mi prese un polso. Trasalii.
“Ti sento la frequenza, stai calma”, mi disse.
Mi tenne quel polso quasi con veemenza. Sentivo le sue dita premere sulla mia arteria radiale. Il resto della mano come a trattenermi, in quella concessione di contatto.
Lo guardai stringendo i denti, fermando il respiro che sentivo crescere. Il mio desiderio trattenuto tra le viscere, e anche il suo, come percepii dall’intensità di quel contatto, era quasi disperato.
Aprii la bocca come per dire qualcosa.
Riccardo si avvicinò. “Sei tachicardica”.
Deglutii la saliva: “Lo so”.
Sentimmo i passi di Claudia che stava tornando in guardiola.
“Finiscila con il caffè”, mi sibilò, e con uno scatto mi abbandonò il polso.
Arrivavo in reparto fresca e con il sorriso stampato in faccia. Pregustavo sempre il momento prima di varcare la soglia della guardiola. Il momento in cui i nostri sguardi si sarebbero incrociati, all’alba di un nuovo giorno.
Iniziai a percepire la tensione, l’aria più condensata tra i nostri corpi vicini. Le sue mani che si muovevano sui fogli, le mie che sullo stesso carrello scartavano compresse. Sembrava che tra le nostre dita ci fosse un filo. Senza nemmeno sfiorarsi era come se fossero in qualche modo unite, attratte.
Riccardo scherzava, mi prendeva in giro, io fingevo di arrabbiarmi.
“Ce l’hai il fidanzato, Isabella?”, mi chiese un giorno, senza guardarmi direttamente.
Presa contropiede dalla domanda, iniziai a balbettare. “Preferisco stare da sola. Sto pensando solo alla mia carriera”.
Suonò patetico.
“Intendo qualcuno nella tua vita, non un futuro marito”, incalzò, sempre con il suo tono calmo.
Farfugliai qualcosa.
Lui rise. “Ho capito”.
Poi arrivò un sabato pomeriggio.
Riccardo mi stava dettando cosa scrivere nelle consegne, sul grosso quaderno. Con una mano mi trovavo costretta a mantenere ferma la parte sinistra strabordante di fogli, per impedire che ricadessero sulla pagina bianca, dove stavo scrivendo. Mi distrassi un attimo. C’era stato un rumore. Guardai d’istinto fuori dalla guardiola, senza spostare le mani, interrompendo la scrittura.
Allora la sentii. La sua mano, calda, morbida, si era posata sulla mia. Un solo istante, così breve e fugace da farmi domandare se potesse essere stato un mio delirio percettivo.
Guardai Riccardo di sottecchi. La sua espressione era impassibile come sempre.
Il cuore mi batteva fortissimo. Mi dimenticai della formulazione della consegna.
“Puoi ripetere, per favore?”, gli chiesi sommessamente.
Lui sorrise. Ripeté.
La sera del mio primo turno di notte in quel nuovo reparto cenai prestissimo. Preparai un’intera moka di caffè, mi feci la doccia, indossai il mio completo intimo di pizzo nero, il mio preferito. Mi piaceva l’idea che restasse celato sotto la divisa.
Quando arrivai, dopo aver distribuito l’ultima terapia e preparato l’occorrente per i prelievi della mattina successiva, Riccardo mi spiegò l’organizzazione.
Avremmo fatto a turno con gli altri colleghi per rispondere ai campanelli, alternandoci per appoggiarci un po’ sulle brandine.
Le brandine erano in un’area separata. Il primo turno per riposare toccò a noi e ad un’altra collega.
Ci sistemammo alla meglio con delle lenzuola pulite. La sua brandina era di fronte alla mia.
Tolsi la divisa carica di penne e forbici e restai con la maglietta bianca. Mi stesi.
Lui fece lo stesso. Cercai di rilassarmi. La notte sarebbe stata molto lunga e avevo bisogno di acquisire un po’ di forze.
Non riuscivo a prendere sonno. Sentivo lui dall’altra parte, così lontani seppur nella stessa stanza, in una posa così personale ed intima, quella del riposo, senza occhiali, senza scarpe, coperti dai lenzuoli.
Udii un bisbiglio. La collega gli stava sussurrando qualcosa. Trasalii. Fu un colpo nel fianco.
Restai immobile per un secondo. La sentii ridacchiare. Lui le rispose un flebile: “Dai, dormi”.
D’istinto mi alzai, afferrai la divisa, annebbiata. Il contenuto delle tasche si rovesciò rovinosamente sul pavimento, facendo sobbalzare anche loro.
“Dove vai?”, mi sussurrò Riccardo.
“Non ho sonno. Vado ad aiutare in guardiola con i campanelli”, risposi, gelida.
Riccardo se la faceva con quella, ecco tutto. Come avevo fatto ad essere così cieca?
Mi sentii stupida, una vera cretina. Tutti i segnali, la sua mano sulla mia, gli sguardi, gli apprezzamenti, allora erano frutto della mia fantasia.
Immaginai Riccardo in quella stanza che, con la mano infilata nei pantaloni di quella collega del cazzo, mi derideva insieme a lei.
La ragazzina innamorata. La studentessa gelosa.
Ora avevo davanti agli occhi l’immagine del suo cazzo che usciva dall’elastico della divisa, turgido e pronto per la bocca volgare di quella donna.
Fui invasa da un moto di rabbia e gelosia incontrollabili.
Suonò un campanello. Andai a rispondere e, quando tornai, indugiai davanti alla porta della stanza delle brandine. Ero pronta a sentire dei gemiti, a subire la testimonianza del loro reciproco desiderio.
Invece c’era solo silenzio.
Allora immaginai lui che le serrava la bocca con la mano e le sussurrava all’orecchio: “Stai zitta”.
Cercai di ricompormi. E se invece quel rapporto intimo fosse stato solo nella mia testa? Stavo perdendo lucidità in quella condizione di attesa.
Quando, un’ora dopo, uscirono per dare il cambio, mi mostrai del tutto distaccata, in una ridicola parvenza di indifferenza.
Riccardo faceva battute come suo solito, come se nulla fosse.
Accese la piccola tv. “Che cosa volete vedere?”, chiese gioviale.
Io non risposi.
Claudia, la collega, squittì: “Quello che vuoi tu”.
Avrei voluto strangolarla.
Restai zitta per tutto il tempo, sorbendomi un programma di cucina che Claudia sembrava gradire molto, viste le sue risatine.
Finalmente, all’ennesimo campanello, decise di alzare il culo ed andare a rispondere al posto mio.
Io e Riccardo rimanemmo da soli.
Io avevo lo sguardo forzatamente incollato alla tv, impassibile.
“Sei arrabbiata?”, mi chiese.
Questo era un tipo di domanda che, per il nostro rapporto professionale, valicava nettamente il limite che avremmo dovuto mantenere.
Riccardo, alla fine del tirocinio, avrebbe dovuto compilare una scheda dettagliata per giudicare il mio lavoro. Mi avrebbe dato un voto. Avrebbe potuto anche decidere di bocciarmi e farmi ripetere il mese.
“No, perché? Mi vedrai strana perché ho esagerato con il caffè”, mentii.
Era buio, c’era solo la luce intermittente dello schermo.
Mi prese un polso. Trasalii.
“Ti sento la frequenza, stai calma”, mi disse.
Mi tenne quel polso quasi con veemenza. Sentivo le sue dita premere sulla mia arteria radiale. Il resto della mano come a trattenermi, in quella concessione di contatto.
Lo guardai stringendo i denti, fermando il respiro che sentivo crescere. Il mio desiderio trattenuto tra le viscere, e anche il suo, come percepii dall’intensità di quel contatto, era quasi disperato.
Aprii la bocca come per dire qualcosa.
Riccardo si avvicinò. “Sei tachicardica”.
Deglutii la saliva: “Lo so”.
Sentimmo i passi di Claudia che stava tornando in guardiola.
“Finiscila con il caffè”, mi sibilò, e con uno scatto mi abbandonò il polso.
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