"Non ti sta piacendo, quindi"
di
Isabella91
genere
etero
Filippo come uomo non mi piaceva, non mi era mai piaciuto. Aveva le mani ampie e grassocce, le lentiggini e la pancia.
Eravamo amici da una decina d’anni. Una sera, dopo svariati calici di vino rosso, in preda alla disinvoltura alcolica mi aveva confidato di avermi dedicato quasi tutte le fantasie della sua adolescenza durante le sue frenetiche masturbazioni.
Ne ero sempre stata consapevole e forse, internamente, fremevo all’idea di sentirmi così desiderata nel mio corpo snello, nei miei seni piccoli e rotondi, da un allora ragazzo ormai diventato uomo, che non mi piaceva affatto.
Filippo sapeva che io fossi irraggiungibile, ma nella sua cameretta mi bramava, avvolto nelle lenzuola, dando spazio all’immaginazione più oscena.
Un venerdì mi invitò a cena. Le nostre cene erano cameratesche, scevre di ogni galanteria, nonostante lui insistesse ogni volta per pagare il conto.
Accettai l’invito, preparata ad una serata di chiacchiere piacevoli, come sempre accadeva con cadenza quasi mensile.
Al ristorante mangiammo dell’ottima carne, bevemmo vino, gustammo una cheesecake alle amarene.
L’aria era tiepida e terminammo presto la nostra cena, tanto che Filippo propose di prolungare di poco la serata fumando una sigaretta in macchina in uno spiazzo non lontano, immerso nel verde.
I solfiti del vino si stavano facendo sentire. Fumai con lunghe boccate, assorta, con la portiera aperta.
“Tu neanche ti immagini quanto io ti abbia voluta”, mi disse ridendo. Era una risata bieca, amara.
Sorrisi. “Lo immagino, invece”.
Filippo si stirò sul sedile per sgranchirsi le gambe e la schiena, avvicinandosi di poco alle mie ginocchia.
“Non ho mai avuto speranze, con te”, proseguì.
Non risposi.
“Hai questi occhi, questa bocca. E come ti muovi”. Ora sembrava quasi rapito. Guardava altrove, fuori dal finestrino.
Posò impercettibilmente una mano su una delle mie cosce, senza pressione, senza pretese, in un gesto quasi amichevole. Poi, lentamente, la fece scivolare verso l’interno. Avvertii un brivido rapido, transitorio, per poi ritornare immediatamente alla realtà.
Fece scorrere ancora la mano sulla stoffa, accarezzando piano il mio interno coscia. Guardai i suoi polpastrelli grassocci. Aveva le lentiggini perfino sulle dita. Ma perché non lo stavo fermando, perché non gli stavo togliendo via la mano di scatto, sconcertata, furiosa per questo suo eccesso?
Indossavo un vestito nero con dei collant spessi.
Quella mano lenta arrivò all’inguine, sopra le calze. Mi accarezzò senza fretta. Ormai il limite era stato valicato, quella concessione mi avrebbe condotto in una via senza ritorno.
Mi sentivo sporca, incapace di reagire, violata. Ma allo stesso tempo volevo che quella mano non si fermasse.
Filippo aumentò la pressione, mi sfregò più forte, con più intensità. Ero certa che il calore sotto quei collant avrebbe tradito la mia indifferenza.
“Smettila”, sussurrai. Il piacere mi stava travolgendo facendomi sentire colpevole.
Lui mi toccò ancora più velocemente. Cercai di controllare il respiro.
“Se vuoi che smetta dimmelo adesso”, mi rispose.
Tacqui.
“Non ti sta piacendo, quindi”, proseguì accostandosi al mio orecchio. “Non sei bagnata, non hai un lago qui sotto, vero? Ti fa schifo, ti faccio schifo io”.
Scossi la testa senza una direzione.
Riprese a toccarmi con movimenti lenti. Mi pizzicò il clitoride sempre da sopra la stoffa.
“Adesso facciamo così. Vediamo cosa dice il tuo corpo, fammi sentire. Se sei asciutta la smetterò subito, ti riporterò a casa. Ti chiederò scusa per questa porcata e mi sentirò umiliato”.
“Altrimenti?”, soffiai sommessamente dalla bocca, quasi con vergogna.
Non rispose. Mi abbassò i collant e gli slip in un colpo solo, lasciandoli a metà coscia. Mi guardò da vicino con estasi. “Dio, la tua fica”.
Poi intinse le dita tra le mie grandi labbra. Scivolarono come sull’olio.
“Ti piace da morire, invece. Guarda come goccioli, mi allaghi il sedile”.
Non ebbi il tempo di replicare. Mi allargò di poco le gambe e mi infilò dentro le dita. Sguazzavano, mi godetti quel suono. Poi vi avvicinò la faccia. “No”, gli dissi con poca fermezza.
Mi allontanò le mani che tentavano di spostargli la testa. Cercai di divincolarmi ma mi tenne ferma. Mi respirava addosso il suo fiato caldo. Insistetti ancora, fino a quando non ricevetti la prima leccata.
La sua lingua era bollente, mi arresi subito. Mi divorò con gusto, alternando lentezza, esplorazione, ad una foga più avida.
Poi mi allargò le grandi labbra con le dita e vi sputò. Mi affondò due dita dentro con forza, per poi trattenerle all’interno spingendo verso l’altro.
Venni.
Fu un’esplosione. Contrassi ogni muscolo, gridai.
Completamente stremata, incredula, mi ritrassi di colpo e mi accasciai nell’angolo del sedile.
Ripresi a respirare, tenni gli occhi chiusi.
Quando li riaprii, Filippo si stava leccando le dita.
Attese qualche secondo, poi si ricompose, mi porse un fazzoletto e mise in moto.
“Ti porto a casa”.
Eravamo amici da una decina d’anni. Una sera, dopo svariati calici di vino rosso, in preda alla disinvoltura alcolica mi aveva confidato di avermi dedicato quasi tutte le fantasie della sua adolescenza durante le sue frenetiche masturbazioni.
Ne ero sempre stata consapevole e forse, internamente, fremevo all’idea di sentirmi così desiderata nel mio corpo snello, nei miei seni piccoli e rotondi, da un allora ragazzo ormai diventato uomo, che non mi piaceva affatto.
Filippo sapeva che io fossi irraggiungibile, ma nella sua cameretta mi bramava, avvolto nelle lenzuola, dando spazio all’immaginazione più oscena.
Un venerdì mi invitò a cena. Le nostre cene erano cameratesche, scevre di ogni galanteria, nonostante lui insistesse ogni volta per pagare il conto.
Accettai l’invito, preparata ad una serata di chiacchiere piacevoli, come sempre accadeva con cadenza quasi mensile.
Al ristorante mangiammo dell’ottima carne, bevemmo vino, gustammo una cheesecake alle amarene.
L’aria era tiepida e terminammo presto la nostra cena, tanto che Filippo propose di prolungare di poco la serata fumando una sigaretta in macchina in uno spiazzo non lontano, immerso nel verde.
I solfiti del vino si stavano facendo sentire. Fumai con lunghe boccate, assorta, con la portiera aperta.
“Tu neanche ti immagini quanto io ti abbia voluta”, mi disse ridendo. Era una risata bieca, amara.
Sorrisi. “Lo immagino, invece”.
Filippo si stirò sul sedile per sgranchirsi le gambe e la schiena, avvicinandosi di poco alle mie ginocchia.
“Non ho mai avuto speranze, con te”, proseguì.
Non risposi.
“Hai questi occhi, questa bocca. E come ti muovi”. Ora sembrava quasi rapito. Guardava altrove, fuori dal finestrino.
Posò impercettibilmente una mano su una delle mie cosce, senza pressione, senza pretese, in un gesto quasi amichevole. Poi, lentamente, la fece scivolare verso l’interno. Avvertii un brivido rapido, transitorio, per poi ritornare immediatamente alla realtà.
Fece scorrere ancora la mano sulla stoffa, accarezzando piano il mio interno coscia. Guardai i suoi polpastrelli grassocci. Aveva le lentiggini perfino sulle dita. Ma perché non lo stavo fermando, perché non gli stavo togliendo via la mano di scatto, sconcertata, furiosa per questo suo eccesso?
Indossavo un vestito nero con dei collant spessi.
Quella mano lenta arrivò all’inguine, sopra le calze. Mi accarezzò senza fretta. Ormai il limite era stato valicato, quella concessione mi avrebbe condotto in una via senza ritorno.
Mi sentivo sporca, incapace di reagire, violata. Ma allo stesso tempo volevo che quella mano non si fermasse.
Filippo aumentò la pressione, mi sfregò più forte, con più intensità. Ero certa che il calore sotto quei collant avrebbe tradito la mia indifferenza.
“Smettila”, sussurrai. Il piacere mi stava travolgendo facendomi sentire colpevole.
Lui mi toccò ancora più velocemente. Cercai di controllare il respiro.
“Se vuoi che smetta dimmelo adesso”, mi rispose.
Tacqui.
“Non ti sta piacendo, quindi”, proseguì accostandosi al mio orecchio. “Non sei bagnata, non hai un lago qui sotto, vero? Ti fa schifo, ti faccio schifo io”.
Scossi la testa senza una direzione.
Riprese a toccarmi con movimenti lenti. Mi pizzicò il clitoride sempre da sopra la stoffa.
“Adesso facciamo così. Vediamo cosa dice il tuo corpo, fammi sentire. Se sei asciutta la smetterò subito, ti riporterò a casa. Ti chiederò scusa per questa porcata e mi sentirò umiliato”.
“Altrimenti?”, soffiai sommessamente dalla bocca, quasi con vergogna.
Non rispose. Mi abbassò i collant e gli slip in un colpo solo, lasciandoli a metà coscia. Mi guardò da vicino con estasi. “Dio, la tua fica”.
Poi intinse le dita tra le mie grandi labbra. Scivolarono come sull’olio.
“Ti piace da morire, invece. Guarda come goccioli, mi allaghi il sedile”.
Non ebbi il tempo di replicare. Mi allargò di poco le gambe e mi infilò dentro le dita. Sguazzavano, mi godetti quel suono. Poi vi avvicinò la faccia. “No”, gli dissi con poca fermezza.
Mi allontanò le mani che tentavano di spostargli la testa. Cercai di divincolarmi ma mi tenne ferma. Mi respirava addosso il suo fiato caldo. Insistetti ancora, fino a quando non ricevetti la prima leccata.
La sua lingua era bollente, mi arresi subito. Mi divorò con gusto, alternando lentezza, esplorazione, ad una foga più avida.
Poi mi allargò le grandi labbra con le dita e vi sputò. Mi affondò due dita dentro con forza, per poi trattenerle all’interno spingendo verso l’altro.
Venni.
Fu un’esplosione. Contrassi ogni muscolo, gridai.
Completamente stremata, incredula, mi ritrassi di colpo e mi accasciai nell’angolo del sedile.
Ripresi a respirare, tenni gli occhi chiusi.
Quando li riaprii, Filippo si stava leccando le dita.
Attese qualche secondo, poi si ricompose, mi porse un fazzoletto e mise in moto.
“Ti porto a casa”.
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