"Due anime che si trovano"
di
Isabella91
genere
etero
Quando Elia mi lasciò, da groviglio arido di spine che ero prima di conoscerlo, mi ritrovai ad essere poltiglia, carne morbida in cui affondare impietosamente un coltello.
Non mi spiegò perché aveva sentito l’improvvisa necessità di strapparsi via dal mio corpo, quando fino alla sera prima mi si ripiegava addosso con la sua maglia di cotone. Respirava contro la mia nuca, e l’aria era satura di musica che usciva dai suoi dischi. Erano toni grevi e al primo ascolto monotoni.
Non avevo mai compreso le sue note, e lui le mie letture, a suo dire, da borghese figlia di medici.
Preparavo gli esami sulla sua scrivania. Appoggiavo i libri sui suoi pennarelli sparsi, foglietti di appunti, poesie attaccate con la colla. Era un artista, e il suo caos era in grado di mettere a posto il mio rigore.
“Tu sei la fantasia erotica del mio inconscio. Ultimo tango a Parigi e tante altre cose”. Me lo diceva quasi con malinconia, legandomi i capelli in una coda troppo morbida quando mi finivano sul viso e avevo le mani impegnate ad accarezzare pigramente il suo sesso.
Ci incontrammo una sera, era febbraio. Ricordo la neve sporca ai lati della strada, i guanti bucati, il freddo abbarbicato alle ossa.
Ero uscita a fumare davanti all’ingresso di un locale squallido in cui passava musica rock.
Lui indossava un cappello di lana verde. Un cappello orrendo. Mi sorrise.
“Hai freddo signorina?”.
Dovevo avere proprio un’aria rigida ed impettita.
“No. Stavo proprio pensando di spogliarmi!”, risposi, acida.
Mi feci antipatia da sola.
Elia alzò le mani al cielo, ridendo. “Chiedo venia, scusi se mi sono permesso di interessarmi alla sua temperatura”.
Mi ricomposi. “Scusami tu, è stata una giornata pessima”.
“Sono certo che tu non stia mentendo. Dai, entra dentro che ti offro una tequila”.
Non suonò mellifluo. Fu perentorio e allo stesso tempo rassicurante.
Avevo solo voglia di abbandonarmi.
Ordinò gli alcolici al banco. Prese una manciata di sale e se sparse una striscia sul dorso della mano. Affondò i denti nella fetta di limone, fece una smorfia e si succhiò la pelle.
Ritardai i miei gesti per osservarlo. Trovavo estremamente erotico come quello sconosciuto riempisse lo spazio.
Restammo a bere a quel tavolo fino a quando Elia, nello spostare un bicchiere, mi toccò una mano per sbaglio.
Sentii una scossa, un graffio lungo le braccia, l’inguine come agguantato.
Mi guardò per un attimo con un’intensità quasi dolorosa, sorrise con un lato della bocca. Era eccitato e triste, lo vedevo.
In qualche modo, ci eravamo trovati.
“Ho la pipì”. Glielo dissi con gli occhi piantati nei suoi.
Mi seguì in bagno, come mi aspettavo.
Si chiuse la porta alle spalle. Il lavandino era bianchissimo e perdeva acqua, i muri mutilati di scritte.
La musica rock era ovattata, lontana, oltre quel cesso, oltre quella città.
Eravamo da soli.
Restammo a guardarci in un’aria che sembrava perdere materia.
Mi sentivo dentro una clessidra, a nuotare dentro la sabbia. L’attesa. L’attimo prima del buco alle orecchie, di uno schiaffo che prende rincorsa.
Sentivo brividi impietosi lungo le braccia, un desiderio sessuale ed umano che mi strappava il petto.
Avvertivo lo stesso in Elia, come uno specchio.
“Non ti bacerò”.
Me lo disse come un’informazione di servizio.
“Su, vai a pisciare. Sono un galantuomo, ti aspetto”.
Incredula, arrabbiata, lesa nella vanità, mi sedetti sul cesso, dopo aver varcato la seconda porta. Sentivo l’eccitazione scendere dall'inguine alle gambe come una morsa dolorosa. La sentivo tirare sui muscoli mentre flettevo le cosce per non appoggiarmi su quella maledetta tazza.
Tirai l’acqua con violenza ed uscii per lavarmi le mani.
Non parlavo.
Elia mi prese per un braccio e mi affisse al muro come un quadro. Mi baciò, premette le labbra sulle mie come per divorarmi, come se fossi stata l’acqua al termine della corsa campestre.
“Come cazzo faccio a non baciarti, me lo dici?”.
La sua lingua era calda e riconoscente, appassionata, viaggiava con la mia verso una bolla erotica che sembrava scoppiarci addosso, invaderci con la sua potenza, non sapendola gestire.
“Siamo due anime che si trovano”, mi disse poi, a distanza di mesi.
Ed era vero. Eravamo due anime spinose, rese poco amabili. La sua era attratta dal buio e dall'eccitazione degli eccessi, dalle lacrime e dalla sfiducia. La mia era un’anima tremula, ingorda e senza una strada.
La sera del cesso mi chiese se dopo la tequila mi era venuta fame. Risposi di sì, e non era vero.
Trovammo un bar notturno con le luci al neon. Era squallido e decadente. Una cornice perfetta per quella casualità.
Elia mi offrì un toast, lo fece scaldare e tagliare a metà.
“Voglio farti sentire la musica della mia vita. Quella che sarebbe perfetta per questo momento”.
Non c’era traccia di romanticismo allestito come un palcoscenico frettoloso.
Quello che mi diceva era vero.
Mi portò in motorino fino al suo appartamento, come i ragazzini.
Ricorderò per sempre l’odore del suo corridoio. Incenso, un odore forte, speziato e così avvolgente da farmi male. Era l’odore della sua casa, di quelle che divennero le nostre abitudini fuori da ogni tradizionalismo.
I caffè, le verdure tagliate a cubetti sul tavolo della cucina, i vestiti per terra. Le piante aromatiche in terrazza, il rosmarino che si strofinava sulle dita per poi stringermi il viso e coprirmi il naso. Le urla che non si fecero attendere, quelle strazianti che spaccavano la cassa toracica e le domande sulla propria dignità, su quello che avevamo chiamato amore, come si chiama un figlio che non si vuole.
Scopammo sul suo letto a soppalco, fotografie di Londra, Budapest, Notre Dame. Uma Thurman, “The Dreamers”, David Lynch. Occhi che ci guardavano scopare sputando arte e cinema che avrei conosciuto come amici importanti, film sui quali avrei pianto in una multisala solitaria, scoprendo di sapermi emozionare, di saper inghiottire quel nodo di segatura bloccato nella faringe, che non mi faceva né respirare né mangiare.
Le sue lenzuola erano nere, color catrame come il pantano dove presto avremmo infilato i piedi, storditi da un sesso folle e amfetaminico incapace di preservare la ragione.
Quella prima volta mi spogliò completamente, poi mi baciò. Mi fece colare la saliva sulla bocca, me la aprì e ci sputò lentamente, mi inserì due dita, roteando vizioso intorno alla mia lingua bagnata, scorrendole lungo le superfici dure dei miei denti. Credo volesse imparare a conoscermi, come fermo ad uno stato primordiale di odori ed istinti.
Respirava l’aria che usciva dalla mia bocca e dal mio naso, quasi con avidità.
Poi scese sul petto. Mi guardò i capezzoli e li succhiò in estasi come se fossero bacche dolci. Li sfregò tra le dita, li accarezzò con le unghie. Mi prese i seni tra le mani e li tirò piano, senza smettere di guardarli.
Mi lambì l’ombelico, e scese fino alle creste iliache, dove mi sfiorò. Le percorse con la lingua, si raccolse in ginocchio sul mio inguine, mi spalancò le gambe e bevve come un cane.
Non distolse mai lo sguardo. La sua lingua scottava, sentivo saliva e liquidi colarmi sotto le cosce. Respirava forte, sembrava soffrisse, l’erezione che spingeva dolorosa contro il lenzuolo.
Infilò due dita dentro quello che sembrava essere un lago, e continuò a muoverle fino a farmi perdere coscienza.
Mi negò l’orgasmo, così come mi aveva dapprima negato il suo bacio.
Affondò dentro di me tenendomi le cosce, conficcandomi le unghie nella carne. Mi scopò con una violenza lenta e sospesa, mi strinse il collo fino a farmi perdere l’aria, poi al momento giusto mi riportò alla vita.
Mi colpì le guance senza farmi male, le braccia, il petto. Io ricambiai i suoi schiaffi, più forte, con una rabbia antica risollevata in cima come da un pozzo.
Poi mi girò. “Ti voglio come una cazzo di pecora, una cazzo di vacca”.
“Vaffanculo”, gli urlai.
Mi sputò tra le natiche, mi schiaffeggiò il clitoride fino a farmi esplodere in un orgasmo che mi fece scoppiare in lacrime.
Non mi era mai successo.
Mi stravolse, mi tolse il respiro.
Elia mi strinse e mi tirò i capelli tra le dita.
Pianse anche lui.
Vomitammo sul piatto, in quel pianto tra sconosciuti così legati, le nostre oscurità.
“Non dovremmo più vederci. Tu mi distogli da tutto ciò che mi sono prefissato. Vivere nel qui e ora. E tu sei qui e ora, ma ci sarai anche domani. Lo so”.
Infatti lo sapeva.
Ci vedemmo ancora, per molto tempo.
E scopammo come due essere umani dovrebbero vergognarsi di scopare.
Quando se ne andò non lasciò traccia, se non una cartolina infilata a mano nella mia buchetta, senza francobollo.
“Le anime come le nostre non si trovano.
Ma se si trovano, si uccidono.
Come potrebbe essere altrimenti?
Tuo
Elia”
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