InferNola

di
genere
pulp

1.

Se qualcuno avesse proposto a Vito Capece di barattare il suo impiego da bidello presso il Liceo classico Carducci di Nola, con un posto qualsiasi, anche con uno stipendio di gran lunga maggiore rispetto a quello spettante al personale ATA, sebbene di ruolo, potreste scommettere che questo qualcuno sarebbe stato dall’interessato mandato a cagare più o meno cordialmente. Perché per Vito Capece c’è qualcosa che non ha prezzo e che va ben al di là di una coscienza di classe prima avvilita e poi polverizzata da decenni di pessima legislazione scolastica, un qualcosa che ha piuttosto a che vedere con la soddisfazione degli istinti e delle voglie più intime, allignate nei recessi più oscuri dell’anima, laddove non rischiara la luce delle norme che regolano la civile convivenza sociale. Norme, a parer di Capace, ipocrite e bigotte, avvitate intorno a fasulli principi catto-borghesi, indiscutibili rovine dell’esistenza umana. Ma Vito il suo compromesso l’ha trovato, o meglio se l’è costruito col tempo e con impegno, un compromesso simboleggiato da una scrivania in un corridoio al primo piano dell’edificio sede del Carducci, posta controluce tra un termosifone e la porta di accesso ai bagni delle donne. Ed è lì che si trova anche quella mattina di metà maggio, dietro la sua scrivania, in posa papale a godersi lo spasso delle ragazze, palpandosi di nascosto il pacco alla visione di quelle fanciulle in fiore, scarsamente vestite visto il caldo della primavera inoltrata. Tutti quei culi strizzati in minigonne e pantacollant, quelle tette che riempiono magliette risicate, gli ombelichi che occhieggiano in mezzo alla striscia di carne lasciata scoperta, le cosce sode e tornite e già abbronzate gli mandano in pappa il cervello. Ingolla allora lunghe sorsate di sambuca da una fiaschetta gelosamente custodita nel cassetto della scrivania e sfoga il suo desiderio schizzando bozzetti pornografici su un moleskine dalla copertina rigida e sgualcita. Ha una buona mano, indubbiamente, e talvolta regala quegli schizzi alla musa che li ha ispirati.

Ma il grosso del tempo Vito Capece lo passa a tradurre le versioni che, civettuole e maliziose oltre la decenza, le ragazze gli commissionano, promettendogli come mercede mutandine calde, sfilate nel cesso appositamente per lui, e foto più che esplicite da inviargli tramite whatsapp in un secondo momento, dopo la valutazione dell’insegnante, in uno spettro di varianti direttamente proporzionale al voto ottenuto. E i voti sono sempre alti, perché, diciamolo pure, Vito Capece avrebbe potuto aspirare a ben altre cattedre e scrivanie, se nella sua vita fosse stato mosso anche solo da una verruca di ambizione. Niente di tutto questo. Da sé Vito altro non ha chiesto che il minimo indispensabile per la sopravvivenza e il costante soddisfacimento dei suoi pruriti subombelicali. Nient’altro. Le due lauree, in Lettere e in Filosofia, erano state un brillante passatempo degli anni giovanili, sulle quali non aveva mai investito nemmeno l’idea di un eventuale sbocco lavorativo. Adesso, a cinquant’anni, si sente realizzato seduto dietro la sua cattedra nel corridoio, a sbavare come un adolescente dietro i culi giovani delle ragazze.

Eppure, a vederlo nessuno gli darebbe due lire, conciato più come un barbone che come un plurilaureato nelle vesti di bidello. Di aspetto è un monumento vivente di dedizione alla crapula. Occhi piccoli e lubrici, furbi e guizzanti dietro un paio di occhialini spessi senza la montatura, naso grosso dai capillari spezzati, proprio del bevitore incallito, zigomi alti, viso cascante, imbolsito, in genere ricoperto da una barba ispida e grigiastra, bocca larga dalle labbra gonfie e tendenti al violaceo, orecchie suine, dalle quali fanno capolino sbuffi di pelo nero, nel complesso la testa di Vito è grossa come quella di un vitello, avvitata sul collo taurino dal quale parte una corporatura massiccia, con un ventre prominente che tende la camicia di jeans come la pelle di un tamburo, decisamente fuori posto su un paio di braghe di un improbabile verde pisello. Tuttavia, quella mattina di metà maggio, Vito Capece è perfettamente rasato e pettinato, come gli capita nelle occasioni che contano, ed è insolitamente impaziente, pervaso da una smania che lo porta a trincare più sambuca del solito e, contrariamente alle sue abitudini, a loro modo fondate su una deontologia professionale che lo obbliga a non trascendere del tutto nella dissolutezza psicotropa, a concedersi anche un paio di strisce di coca nel cesso del personale. Giusto due tiri per rimanere sulla corda, ma al contempo lucido.

Ciò che rende Vito così febbrile e impaziente è l’incontro fissato nel pomeriggio con due studentesse, Monica e Fabiana, con le quali consumare un menage a trois che nella sua mente impervertita dalla voglia più turpe era già in atto dalle prime luci dell’alba, quando si era svegliato più infoiato del solito, con la mazza tesa allo spasimo sotto il lenzuolo, come una palma solitaria nel mezzo del deserto, erta, rigida e gigantesca sotto un cielo basso e claustrofobico. Allora, per sfogare la voglia che gli comprimeva dolorosamente i coglioni gonfi, si è acconciato dietro la moglie che gli dormiva accanto riversa su un lato, dandogli le spalle, e senza tanti convenevoli gliel’ha ficcato fra le chiappe burrose, chiavandosela animalescamente, noncurante del suo sonno e di una passera tutt’altro che pronta.

La scopata mattutina lo ha un po’ ammansito, ma il tempo di varcare la soglia del Carducci e la bestia nei calzoni ha subito reclamato la sua razione di figa tenera e giovane. Monica, nel passargli vicino per andare al cesso, lo ha rassicurato con una strizzatina d’occhi che l’incontro non ha subito variazioni e avverrà all’ora convenuta. Del resto gli esami di maturità si avvicinano e Fabiana, la più figa e altezzosa del liceo, necessita come l’aria della versione di greco, sventuratamente uscita come seconda materia scritta. Inarrivabile e spocchiosa, Fabiana è disgustata dall’esistenza stessa di Vito, che considera un porco pervertito e niente più, ma è pur sempre una diplomanda bisognosa di voti alti e di una gran mano all’esame. Ma per quella mano, Vito ha preteso il massimo della posta. Niente mutandine, niente foto, ma il corpo in carne ossa e fica. E con pagamento largamente anticipato. L’idea di farsi quella stronzetta di Fabiana non fa stare nei panni Vito. È un pezzo di stanga sempre con la puzza sotto al naso, ma con due cosce chilometriche e un culo che fa sospirare. Con Monica invece il rapporto è di lunga data. Esteticamente la ragazza non regge il confronto con l’amica, ma il suo corpo sembra progettato per scatenare i pensieri più lubrici del maschio medio. Mora, bassina ma con un culone michelangiolesco saldato su cosce sode e rotonde come colonne, un seno opulento che fa incetta di sguardi bavosi, vero e proprio ricovero lussurioso per uccelli in calore, una boccuccia a cuore e due occhi neri e luccicanti come chiazze di petrolio al chiaro di luna, Monica è l’alter ego femminile di Vito, porca e sempre in calore come lui. Il loro sodalizio è cominciato nell’anno in cui Monica frequentava il secondo ginnasio. All’epoca il loro rapporto era limitato ad uno scambio versione/mutandine-foto, fin quando un pomeriggio Vito, impegnato nelle pulizie degli spogliatoi, non si prende un po’ di pausa sedendosi su una panca, sigaretta in una mano e nell’altra la fiaschetta di sambuca. Fu allora che udì dall’altra parte della sottile parete delle voci, poco più di bisbigli rochi ma inequivocabilmente lussuriosi alle orecchie ben addestrate dell’uomo. Senza pensarci due volte, salì sulla panca e si sporse a sbirciare dalla finestrella a vetri che dava dall’altra parte della parete. Ciò che vide era Monica calata a 90 gradi, i jeans alle caviglie, le grosse mammelle ballonzolanti come batacchi fuori dalla camicia aperta, il labbro inferiore stretto fra i denti per reprimere le urla, e dietro di lei Ciro, un ripetente della terza liceo, che si dava da fare fra quelle chiappe grosse e accoglienti, sbattendosi come un forsennato, la testa tirata all’indietro, la bocca aperta come una voragine, le mani arpionate ai fianchi larghi e adiposi della giovane giovenca. Con una mano nei calzoni a darsi sontuose strizzate alla proboscide, Vito fece qualche scatto col cellulare, non credendo ai propri occhi e sudando come un suino. La sera stessa inviò sul cellulare di Monica una foto e aspettò. La ragazza aveva sedici anni e, sebbene una cospicua percentuale della popolazione maschile del Carducci avesse già beneficiato delle sue grazie, poca voglia di lasciare in giro prove così manifeste della propria troiaggine, col rischio che finissero su Facebook e, di conseguenza, sotto gli occhi della Preside – non volendo tenere in conto la peggiore delle ipotesi, e cioè che lo venisse a sapere suo padre. Quindi, risoluta, dopo un quarto d’ora rispose al messaggio di Vito: domani sera, alle 9 dietro la palestra. Vieni in macchina.

Non scoparono, quella sera, ma ognuno riconobbe negli occhi dell’altro frammenti di sé, luccicanti come spuma di oceano al sole di mezzogiorno. Riconobbero uno nell’altra il compimento ideale delle proprie perversioni, le due metà perfette della mela di Platone – ebbe a considerare Vito in un secondo momento, giusto una sentimentale concessione ai suoi giovanili studi di filosofia. Lui amava guardare, tirandosi corposi manicotti, e Monica amava farsi vedere da lui, mentre veniva montata a dovere dai suoi stalloni, che facevano la fila per chiavarsela. Nel riverbero di questa scopofilia, entrambi ricevevano il giusto compenso alle proprie voglie. Da quel primo incontro, alle 9 di sera dietro la palestra del Carducci, durante il quale, nello stretto abitacolo della Panda di Vito, ognuno dei due si masturbò davanti all’altro, il loro rapporto è stato più che prolifico: Monica ne guadagnava in voti e Vito, grazie a lei, vide crescere la lista delle proprie clienti e, di conseguenza, la privata collezione di foto e mutandine di tutti i tipi e colori.

2.

Il fatidico incontro con le due studentesse avviene in uno scannatoio in via San Massimo, a ridosso dell’A1 Napoli-Canosa, ereditato da Vito anni fa da una sua zia. Si tratta di una mansarda malmessa, col tetto da rifare, con teli di iuta al posto dei vetri, un divano sgangherato, una libreria con qualche giallo tascabile e diversi esemplari della collana Harmony, un angolo cottura con la bombola del gas e un letto matrimoniale. In un angolo della stanza il piccolo cesso, giusto una latrina con lavandino e il manubrio della doccia incassato nel muro, con la pozzetta per terra protetta da una grata di alluminio arrugginito. Vito non ci viene spessissimo, soltanto quando ha voglia di spassarsela un po’ con una troia a buon mercato rimorchiata attorno ai fuochi che la notte illuminano via Boscofangone, nel distretto Cis-Interporto, e che in tempo di crisi la dà via con i saldi.

Arriva in anticipo di un’ora, sistema il vino e due vaschette di insalata di riso già pronta nel frigorifero, si spara un’altra pista, accende una sigaretta e si siede sul divano ad aspettare, lottando tenacemente contro il desiderio di una raspa che alleggerisca nervi e attesa. È immerso nel pieno di visioni a luci rosse, gingillandosi con attenzione il cazzo già eretto, quando suonano alla porta. Scatta in piedi come un pugile al gong e va spedito verso la porta.

“Eccoci qui!”, squilla euforica Monica, saltandogli addosso e baciandolo in bocca con la lingua umida, collo e reni stretti nella morsa di braccia e gambe, a conferma di un’intimità rafforzata dagli anni e dalle bisbocce condivise. Il culo enorme della ragazza è tutto stretto in una gonna di jeans le cui cuciture implorano pietà, sopra ha un giubbetto, anch’esso di jeans, aperto su una canotta di cotone che contiene non senza difficoltà l’opulenza trasbordante del seno opulento. Vito recupera lo sguardo da quel solco di delizie e si concentra su Fabiana. Alta, tutta curve, perfettamente armonizzate su un corpo modellato da milioni di sguardi arrapati. Ha un paio di autostrade al posto delle gambe, inguainate in pantacollant neri, sopra una camicia bianca, tutta merletti ai polsi e alla scollatura, aperta a sufficienza da lasciare intravvedere bocce sode e abbronzate. In una mano ha una bottiglia di vino, che porge all’uomo con un sorriso più di disprezzo e di scherno che di cordiale circostanza. Vito nota che il disgusto della ragazza lo infoia ancora di più. Ci sarà maggiore gusto a ficcarglielo dentro, pensa ghignando.

“Visto che gentile la nostra amica? Avanti, non startene lì impalato, fai gli onori di casa”, rompe gli indugi Monica, sfilandosi il giubbetto che scopre spalle rotonde chiazzate di efelidi.

Vito prende tre bicchieri dallo scolapiatti sull’acquaio, stappa la bottiglia e versa il vino. Cominciano presto a scaldarsi e la conversazione ne giova. La bottiglia va via quasi subito. Ne apre un’altra. Quando scolano anche questa, le ragazze sono quasi pronte, ridono forte e lo prendono in giro, chiamandolo professore e occhieggiando il rigonfiamento dei suoi calzoni. Anche Fabiana sembra aver momentaneamente sciolto il grumo di disprezzo e sta gioiosamente al gioco. A metà della terza bottiglia, Monica prende la borsa, ci ravana dentro e tira fuori un involucro di cellophane. Mentre lo scartoccia, Fabiana si sfila i pantacollant e ridendo allunga verso di lei una gamba lunga, levigata, color bronzo, che Vito segue con sguardo liquido fino al piede arcuato, dalle unghie smaltate di un viola acceso. Sono sedute per terra, al centro della stanza, l’uomo le osserva dal divano, a gambe aperte. Monica sparge una striscia di neve dal ginocchio della sodale fino a metà coscia, si tappa una narice con l’indice e inspira con l’altra fino all’ultimo granulo di polvere. Poi tira su la testa di scatto. Le fiamme serpeggiano nelle sue pupille rosse.

“Dio, che botta!”, esclama con voce roca. Afferra il bicchiere e lo svuota con un sorso. Poi prende Fabiana per i capelli e la bacia avidamente, infilandole la lingua in bocca. Fabiana soccombe per un po’, poi la ribalta per terra, le monta sopra stringendole i fianchi fra le cosce robuste, le tira giù canotta e reggiseno e un paio di tette enormi esplodono nella stanza in tutto il loro biancore. Fabiana succhia un po’ quei capezzoli grossi e scuri come hamburger grigliati, poi recupera l’involucro con la coca, ne sparge una striscia corposa nel solco dei seni dell’amica e sssssnnnnnhhhhiiiiifffff, tira tutto su per il naso. Prendono di nuovo a baciarsi, aggrovigliando braccia e gambe, producendo fragorosi rumori di risucchio, come scrosci di pioggia. Vito si gode la scena trangugiando il vino dalla bottiglia e massaggiandosi il cazzo con la mano libera. Dalla sua posizione può godere della vista del culo di Fabiana, bruno e rotondo, attraversato nel mezzo dal filo sottile di un perizoma rosso. È davvero un bel culo. Gli viene duro, molto duro. Lo tira fuori e comincia a menarselo, mentre le due ragazze si sono spogliate del tutto. Fabiana è una statua di carne, con solo una striscia sottile di pelo scuro ad ombreggiarle il monte di Venere e a spezzare con una lieve increspatura la levigatezza di quel suo corpo incredibile. Monica ha lasciato su le reggicalze nere, la cellulite delle cosce risvolta sensualmente sulla stretta dell’elastico, e quella vista dà a Vito una botta alla testa come se avesse inalato del popper. Il culo enorme è un mappamondo incassato fra i fianchi larghi, e fra le cosce trionfa una folta e disordinata boscaglia nero carbone. Ora è sopra Fabiana, le lecca appassionatamente la fica glabra mentre l’amica fa altrettanto con lei, col viso incollato a quelle chiappone da delirio.

Vito si alza e va verso di loro. Raccoglie la coca e ne versa un po’ sulla schiena di Monica. Cala il naso sulla striscia e manda giù un bel po’ di polvere magica. Poi si sfila le mutande e resta lì, a gambe larghe e con l’uccello dritto che gli rampa sotto l’ombelico, ad osservare in estatica contemplazione il 69 che si sta avidamente consumando sotto il suo sguardo di brace. Si piazza allora dietro Monica, il suo culone in primo piano, la fronte e il naso di Fabiana che fanno capolino fra le natiche grasse e butterate, la lingua rosa intenso che saetta nell’anfratto mielato. Vito si mette in posizione e lo infila giusto nel mezzo, tra la fica di Monica e la lingua di Fabiana. È molto umido lì e la sensazione che gli percorre la spina dorsale, come una scarica elettrica prolungata, è indescrivibile. Sotto il cazzo e sulle palle sente il lavorio della lingua di Fabiana, sopra la carezza bagnata delle labbrone di Monica, aperte come le fauci di un famelico fiore carnivoro. Per un po’ lo spinge e lo ritrae, stando al gioco, poi, esaltato dalla coca e dall’arrapamento che gli azzanna le carni, con un rapido colpo di reni lo infila nella fregna, fino ai coglioni gonfi e duri come pesche. Monica risponde con un forte mugolio e asseconda ogni affondo con potenti colpi di culo, che si schiantano contro il ventre a tamburo del maschio come furiosi marosi sulla scogliera. Vito afferra la carne dei fianchi muliebri con forza e prende a chiavarsela come indemoniato, ansimando e grugnendo oscenità, mentre Fabiana accelera i ritmi delle sue slinguazzate a tutto tondo, alternando passate di pennellessa con vorticosi giri di lingua, mandata in orbita sia da ciò che avviene a pochi centimetri dalla sua testa sia dalla lingua e dalle dita di Monica che le pompano la fica allo stesso ritmo delle poderose vergate che la trafiggono a tergo. La prima ad avere l’orgasmo è proprio lei, e gode in modo violento, stringendo forte la testa di Monica fra le cosce e allo stesso tempo azzannando un testicolo di Vito.

“Aaaaaaah, porcaputtanazozza!”, urla, ma anziché ritrarsi, evidentemente anestetizzato dalla droga e dall’alcool, l’uomo continua a fottere con quanta foia ha in corpo, stringendo la carne delle chiappe di Monica fino ad illividirle, e schiaffeggiandole sonoramente, imprimendo l’orma della mano su quella superficie gonfia e butterata. Monica, a sua volta, non resiste ancora per molto, e si accascia gemendo sul corpo di Fabiana, sfiatando in un sibilo acuto e prolungato il feroce sonoro del suo orgasmo. Vito tira fuori dalla passera in fiamme il cazzo ancora duro e vibrante, dalla cappella turgida e violacea. Con lo sguardo fiammeggiante da satiro e traboccante cupidigia fissa Fabiana, che occhieggia come una gatta in calore, allargando le lunghe gambe e mostrandogli il sesso, dalle labbra cremisi dischiuse e dardeggianti. “Veniamo a noi adesso”, rantola pieno di voglia. “Mettimelo dentro che aspetti, porcoschifoso”, le fa di rimando lei, agganciando lo sguardo del maschio con occhi maliardi, come a sfidarlo. Vito, con un ghigno folle che gli deturpa il volto già sconvolto, si afferra l’enorme arnese e lo direziona verso la fica spalancata e palpitante della ragazza, strusciandole il clitoride con la cappella. Qualche secondo di quello sfregamento e lei viene come fiume in piena, e sembra disperata e implorante quando il membro erculeo la penetra improvvisamente fino alla matrice. Allora, pazza di eccitazione e di voluttà, dà un morso all’orecchio di Vito, così forte che le rimane un pezzo di lobo fra i denti. Lo inghiotte, gridando con tutta la forza che le resta ed agitando il sedere in modo compulsivo, impalandolo sul medio che prontamente l’uomo le ha infilato nell’ano grinzoso e scuro, fino all’attaccatura con la mano. La ferita, da cui fuoriesce sangue a fiotti, pare eccitare ancor più Vito, perché i suoi movimenti si accelerano, e non lascia andare la bella Fabiana che dopo averle svuotato dentro tutta la broda che ha nei visceri, mentre lei sgrana come un rosario un orgasmo dietro l’altro.

3.

Diverse ore dopo, una volta dato fondo alle riserve di liquidi disponibili, le ragazze, malconce ma soddisfatte in ogni orifizio, strafatte di droga e di sesso, lasciano la mansarda in via San Massimo. Dal canto suo, Vito trova la forza di trascinarsi sotto la doccia e medicarsi alla buona l’orecchio e lo scroto morsicati. Quando infine scende di casa e si avvia verso la Panda bianca parcheggiata qualche metro avanti il portone del palazzo, svuotato e ciondolante come uno zombie, Vito Capece ignora che, mentre si ripuliva, Totonno detto ‘a Malaforbice è riuscito finalmente a trovare Fabiana, la sua donna, dopo aver rivoltato Nola come un gambaletto sporco, e a suon di schiaffi, pugni, calci e uno stupro a tutti gli effetti, con tanto di sodomizzazione col collo di una bottiglia di Vinchio-Vaglio che accompagna la penetrazione violenta, carica di odio e di insulti a lei e alla Madonna, consumata sotto gli occhi libidinosi (e speranzosi di un invito al baccanale, alla fine negatogli dal capo) dei suoi sgherri, è riuscito a tirarle fuori, tra conati di sangue misti a saliva e vomito, il resoconto dettagliato del suo pomeriggio fedifrago.

All’oscuro di tutto questo, Vito sta armeggiando con le chiavi vicino la serratura della sua datata utilitaria quando lo affianca un’auto scura. Due tizi dall’aria poco conciliante scendono dalla vettura e lo afferrano per le braccia, scaraventandolo nel vano posteriore dell’automobile senza sforzo apparente, come se gettassero un klinex usato. Quel che succede poco dopo, in quel lembo di campagna desolata tra Nola e Marigliano, è tutto appannaggio dell’ira di Totonno, che sfoga sul malcapitato tutta la furia dell’orgoglio ferito e tradito. Saltano prima i denti, poi le gambe, le falangi delle mani, quindi le punte degli stivali de ‘a Malaforbice si accaniscono sul bassoventre della vittima, riducendolo in una poltiglia informe e sanguinolenta, mentre i suoi compari si palleggiano la testa come fosse un pallone da calcio. Finalmente sazio, ‘a Malaforbice ordina ai suoi di caricare quel che resta dell’uomo nel cofano della macchina. Ma prima resta da onorare il nomignolo col quale è conosciuto ai più.

Ghignando sadicamente, l’uomo sfila dalla tasca di dietro dei jeans un astuccio nero di cuoio e sguaina con un plateale gesto da moschettiere un paio di forbici, le cui lame guizzano alla luce lunare come due baleni. Il taglio è netto, preciso, chirurgico e cazzo e coglioni di Vito si ritrovano in un attimo nella caverna nera e informe che prima era una bocca.

Mancano un paio d’ore all’alba quando i resti di Vito Capece vengono gettati in una discarica abusiva in località Tavernanova, nei pressi di Casalnuovo di Napoli.
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2018-08-19
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