Secrezioni: "Lezione privata"

di
genere
masturbazione

Mi sveglio madido di sudore, sconvolto e con l’uccello ancora duro e sgocciolante. Devo avere eiaculato da poco, accanto a me c’è la pozza di sperma, ancora fresca e appiccicosa, ma nessuna presenza di lei sulla sua porzione di letto. Se c’è, mi manda fuori di testa e se non c’è è anche peggio, si insinua come un cancro dentro di me, scava scava scava, nella testa e nella carne, si impossessa di ogni pensiero, di ogni volizione, di ogni pulsione, filtra in ogni fibra del mio corpo, si addensa nel sangue, ne colonizza le molecole, si discioglie in ogni liquido, si impossessa da dominatrice indistintamente del conscio e dell’inconscio. E infatti, l’ho sognata di nuovo. Merda! Quella puttana mi si è annidata sotto la pelle, e da lì è colata nei recessi più reconditi del mio cervello. Ah, Veronica Veronica, che mi hai fatto – sussurro afferrandomi il cazzo duro come una trave e cominciando a segarmi lentamente. Riprendo l’ultimo fotogramma del sogno: Veronica a quattro zampe, completamente nuda, con la pelle color cannella che mi manda fuori di testa, io che sudo e impreco dietro di lei, tenendola salda per i fianchi da cavalla selvatica, mentre il mio ventre di maschio infoiato sbatte violentemente contro quelle chiappe di marmo, il suo volto strafatto dal piacere che fa capolino dietro la spalla sinistra, incorniciato in una matassa di riccioli biondi che le si appiccicano sulla fronte e su parte delle guance, prima di ricadere scomposti sulla schiena, le spalle, i seni piccoli e sodi, gli occhi oblunghi da felino predatore, la bocca sottile ma dannatamente sensuale allorché si atteggia in un ghigno a metà strada tra l’oscena voluttà e un sorriso sardonico. “Chiavami più forte, porco. Aaah... mi stai sfondando le ovaie. Così, maiale. Sono tua. Ancora, ancora... Aaaah aaaaah... Sto godendo, cazzo, sto godendo. Riempimi tutta, bastardo”. Sa come portarmi alla follia, la stronza. L’afferro per i capelli, annodandomeli come briglie alla mano, le schiaccio la testa sul cuscino e prendo a fottermela con quanta forza mi rimane nei lombi, accasciandomi sulla sua schiena flessuosa e sudata, mordendole un deltoide, sbavando e grugnendole oscenità all’orecchio con alito ardente, fin quando non urlo per l’orgasmo violento, cocente, straziante che m’infiamma le viscere prima d’indirizzarsi per la strada giusta e spruzzare fuori nella cavità mielosa di quella maledetta femmina da letto. Accelero il ritmo della raspa e godo mordendomi il labbro per soffocare l’urlo. Mi pulisco alla meglio col lenzuolo e mi alzo.

Di sotto l’ambiente unico, che fa da soggiorno e cucina, è un vero delirio. Non lo ricordavo così il giorno prima. Faccio mente locale mentre recupero la moka dal lavello intasato in cui galleggia della poltiglia di difficile identificazione, un misto di cibo in ammollo e cicche e cilindri di cartoncino bruciacchiati che come relitti circumnavigano il mucchio di stoviglie che emerge dalla pozza grigiastra e maleodorante. Mentre aspetto il caffè, prendo un sacco dell’immondizia, di quelli neri e capienti, e ci butto dentro bottiglie di liquore e di vino, lattine di birra accartocciate, kleenex appollottolati, pacchetti di sigarette accartocciati, bicchieri e bicchierini di carta... Quando la moka prende a borbottare e a sputacchiare il liquido sull’angolo cottura, ho riempito il sacco e, valuto guardandomi intorno, ce ne sarà bisogno almeno di un altro. Verso tutto il caffè nell’unica tazza da latte rimasta incredibilmente pulita, vi aggiungo zucchero e panna liquida e mi siedo sul divano, tra custodie di cd, libri e altra roba che non mi va di inventariare adesso. Mi piacerebbe stendere le zampe sul tavolino basso, ma la superficie di legno di risulta trabocca di cartoni da pizza e contenitori di cibo cinese da asporto, posaceneri improvvisati strapieni, ossa di pollo allo spiedo e, come un’isola felice in mezzo alla devastazione, una residua spruzzata di neve su un rettangolino di carta stagnola. Ingollo il caffè, poi stacco un pezzo di carta dal cartoccio cinese, il pezzo all’apparenza meno unto, e allineo la polvere in una riga. Ce n’è giusto per un richiamino. Con le tempie che mi sbattono come finestre aperte in mezzo alla corrente, avvicino la stagnola alla proboscide, mi tappo una narice e tiro forte con l’altra. La coca mi sale dritta dove è naturale che salga e già sento i nervi del collo rilassarsi e le foschie addensatesi nel cervello, lugubri e gravide di cattivi pensieri, diradarsi velocemente, come spazzate da un ponentino rinfrancante. Mi accarezzo i baffi con la lingua, assaporandone i grumi di cherosene, stano da un posacenere una mezza canna d’erba, l’accendo, resisto al disgusto del primo tiro, e mi stendo meglio con la schiena, sbuffando verso il soffitto screpolato e macchiato di muffa una nuvola di fumo densa e scura che investe il fascio di luce che filtra dalle stecche sgangherate e scrostate delle imposte in legno, su cui guizzano pulviscoli di polvere come trote in un laghetto artificiale.

Provo a far mente locale e ricordare cosa cazzo sia successo prima che collassassi. Ci metto un po’, invero, ma poi, tra le brume fumose della maria, riaffiorano come fantasmi dalla nebbia immagini vaghe della giornata di ieri che lentamente si incastrano in una trama – il sesso con Veronica e la sua partenza per non-so-dove, la visita di Linda, il bivacco portatomi in casa da Dudù, quando la notte era già cominciata da un pezzo... Veronica, dove cazzo sarà? La chiamo sul cellulare, ma è staccato. Controllo se ci sono messaggi, ma scorgo solo una sua chiamata verso le 3, che mi è chiaramente sfuggita. Fanculo, borbotto, mentre mi alzo e prendo la via del bagno.

*

“Insomma una gran troia ‘sta Lesbo”, conclude Rosita dopo aver ascoltato la storia di Catullo e della bella Clodia e tradotto, non senza fatica ma con interesse crescente, il carme 37 in cui, nella squallida location di una taverna, il poeta mette a dialogo un gruppo di uomini che si fan vanto delle doti dei propri attrezzi, smaniosi di darne presto un saggio alla bella Lesbia che, lasciva e vogliosa, siede in mezzo a loro, “Voglio dire, comodo tenersi il marito potente e intanto darla a destra e a manca, fregandosene del povero Catullo che spanteca per lei”.

“Bè”, esclamo senza sapere cosa aggiungere. In fondo non ha tutti i torti.

“Certo”, continua, “anche Catullo si dava da fare, a quanto dici. Quando non era con lei, se la spassava coi ragazzini. Che malato!”

“All’epoca la pederastia era un fatto piuttosto comune, sul quale non gravavano l’onta morale e la giustizia”.

“Cioè era normale avere rapporti omosessuali con i ragazzini?”

“Più o meno sì. Nell’antica Grecia era prassi comune tra un giovanotto e il suo tutore, che era spesso un filosofo, ad esempio. E Roma ne ereditò l’usanza”.

“Quindi Catullo era frocio?”

“No... un pederasta, tutt’al più”.

“C’è differenza?”

“Bè, sì...”

“Tu sei un pederasta o un pedofilo?”

“Che intendi dire?”, chiedo sorpreso.

“Intendo dire”, fa con voce languida e occhi traboccanti malizia, mentre si sporge in avanti sul tavolo mostrandomi le tette gonfie da dentro lo scollo della camicetta generosamente slacciata, “che oggi è giorno di paga per te, mamma mi ha dato questi”, e tira fuori dall’astuccio tre pezzi da 50 euro.

“Uhm”, mugugno curioso di vedere dove va a parare quel discorso, “e quindi?”

“E quindi domani sera al Sayonara c’è dj Zatox e vorrei andarlo a sentire. Solo che l’ingresso è caro e i miei non mi daranno un euro fin quando non avrò passato l’esame di latino a settembre, aguzzini maledetti!”

“La prossima volta non ti fai rimandare. Comunque, ho capito, mi stai chiedendo un prestito...”

“Ahahah”, ride di gusto, “Un prestito? E quando te le restituisco 150 carte? No no, nessun prestito”.

“E allora, a meno che tu non voglia derubarmi, non capisco cosa vuoi dirmi”.

“Derubarti? Ahahahah... che tipo che sei, Renny. Voglio solo proporti... mmm... com’è che si dice in italiano? Ecco, sì, una transazione”.

“Una transazione?” – ripeto come un imbecille.

“Esatto, una transazione economica. Tu mi dai 150 euro e io...”, si interrompe e sorride, con le labbra carnose che si stendono con ancor più malizia di quella che sprizza dai suoi occhi.

“E tu...”, le faccio eco trattenendo a stento un moto di eccitazione.

“Ed io mi spoglio per te”, dice seria accendendo una sigaretta.

Ammutolisco. Accendo una sigaretta anch’io.

“Allora? Ci stai? La cosa rimane tra noi, ti puoi fidare”.

“Se si venisse a sapere, tuo padre mi ammazzerebbe”.

“L’uomo che vive con me e mia madre non è mio padre. Ti ho detto di fidarti”. Si alza, spegne la sigaretta nel posacenere, fa una giravolta per mostrarmi il culo compresso in un jeans tagliato a fil di chiappa e le cosce pienotte, già abbronzate. Poi slaccia i bottoni restanti della camicetta e scopre le bocce, raccolte in un reggiseno di pizzo nero, da donna adulta. Sarà una quarta, valuto sulle prime. Deglutisco, aspiro avidamente una boccata, sputo il fumo di lato. L’erezione nei bermuda è dolorosa. Sento qualche goccia di sudore imperlarmi la fronte e inzuppare la t-shirt sotto le ascelle. Alla fine annuisco. Lei sorride, richiude i soldi nell’astuccio, guadagna il centro della stanza, così che la possa vedere bene, e comincia a spogliarsi, prima le scarpe da tennis, poi i fantasmini rosa, quindi la camicetta e gli shorts. “Che te ne pare?”, chiede mostrandomi l’intimo coordinato, con la parte di sotto che è un perizoma più che mai adatto a valorizzare un paio di chiappe sode e paffute come quelle di una puledra.

“Stu-stupendo”, cacaglio con voce roca mentre accendo un’altra sigaretta.

“Ma adesso questo va via”, anticipa roteando le anche, come se dovesse fare la mossa alla Marisa Laurito, e portandosi ambo le mani dietro la schiena. “Sei pronto? E uno... e due... eee... treee!!!”, e PLOP, deflagrano nell’aria satura di calore e fumo e ormoni un paio di zizze grosse come mozzarelle di bufala, dalle aureole rosa e larghe, presidiate da un paio di capezzoli turgidi e dritti come pistilli. Se le raccoglie tra le mani e le sbatacchia un po’, portandosele al mento come per leccarle. “Te gustano?”, chiede con fare da Lolita.

“S-sì... me gustano”, rispondo col cazzo che urla nelle mutande e che deforma la stoffa leggera dei pantaloni.

“Eh sì”, ammicca la stronzetta, “direi che te gustano proprio tanto”. Si avvicina di qualche passo, stende una gamba e mi piazza il piede sull’erezione. “Senti qui, è durissimo”, fa con voce roca a sua volta. Poi, seria: “Vuoi vedere il resto?” Annuisco, ancora una volta. Lei mi dà le spalle, si sfila il perizoma e mi lascia in contemplazione di quel mappamondo a forma di cuore rovesciato, le natiche gemellari, perfettamente simmetriche, la morbida piega del solco, le fossette di Venere laddove s’inserta l’arco delle reni... Non so quale mano mi abbia trattenuto dall’alzarmi, sbatterla per terra e infilarglielo tutto dentro in un colpo, fino ai coglioni. Quando si gira, però, mi trova con l’affare stretto nel pugno, la bocca semiaperta, il volto deformato dalla voglia e schifosamente madido. Rosita rimane incerta un istante, stupita, basita. Mi guarda l’uccello, lo fissa con insistenza. “È strano”, borbotta alla fine.

“Come strano?”, chiedo interrompendo il maneggio. Sento pulsare la vena grossa nel palmo della mano. Il compare freme, scalpita, la testa gonfia, violacea, in cima alla quale troneggia una goccia bianca, spessa, vischiosa.

“È grosso, cioè normale, ma è dritto, senza deviazioni o curvature, dritto come un paletto”, dice senza distogliere lo sguardo e mordendosi il labbro inferiore con gli incisivi piccoli e bianchissimi. “Sembra un wurstel vivo”, aggiunge.

“Un wurstel vivo?”, ripeto, “Che strana definizione".

“Quello di Arturo però non è così. È più lungo, ma sottile e storto... sembra un ramo con l’artrosi”. Rido, complimentandomi per la similitudine, ma Rosita non sembra aver colto la mia lode, assorta e seria com’è. “Continua a fare quello che stavi facendo prima”, mi esorta sedendosi a gambe larghe su una sedia di fronte a me e portandosi la mano destra fra le cosce. È in quel momento che noto il boschetto, folto ma curato, castano chiaro come i capelli. Vorrei annusare quel corpo fresco di diciottenne, attingere alla fonte l’afrore pungente che esala dalle sue pieghe e che mi ghermisce l’olfatto, eccitandomi come una bestia, ma mi concentro sull’uccello, segandolo lentamente. “Quando me lo infila nel buchetto”, continua come se riprendesse un discorso interrotto, “sembra che stia facendo una rettoscopia. Sottile e lungo, con la testa inclinata a sinistra, lo sento frugare dentro di me, come un topo nella spazzatura”.

“Oh, Rosita”, sospiro aumentando appena il ritmo della raspa, “mi faresti venire soltanto con le parole...”

“Ma il cazzo che per me è il nonplusultra è quello di Riccardo”, dice con voce sognante, mordendosi il labbro inferiore e chiudendo gli occhi, non badando ancora una volta al mio commento.

“E chi è Riccardo?”, chiedo.

“L’uomo di mia madre, te l’ho detto che non è mio padre”.

“Capito...”

“Spesso quando torno da scuola loro sono in casa, chiusi in camera... Si sentono scopare da in mezzo alle scale, le urla di mamma e i grugniti da porco di Riccardo... non ti dico le lamentele della signora di sotto”, continua come in trance, accarezzandosi l’interno della fica con le dita della destra e stropicciandosi il clitoride con l’indice e il medio della sinistra. “Quando ne ho voglia, e cioè quasi sempre, entro nello sgabuzzino che confina con la loro stanza, incollo l’orecchio alla parete e mi tocco fino a venire come una fontana”.

“Mmm... Rooosiiita”, ansimo velocizzando il lavoro della destra.

“Poi, un giorno torno e lui è solo in casa. Steso sul divano, il petto nudo e largo, i bicipiti scolpiti e tatuati, le cosce poderose, muscolose, e il cazzo lungo un avambraccio stretto nel pugno, si stava masturbando alla grande e non mi ha sentito entrare. Rimango pietrificata sulla porta del salotto, incapace di muovermi, ipnotizzata, non riuscivo a scollare gli occhi da quel coso asinino, bello come una scultura in legno, fin quando non l’ho visto schizzare in aria fiotti di sperma che sembravano non dover finire mai”. Sento che sto per venire, mi mordo anch’io un labbro per ricacciare indietro l’orgasmo, punto lo sguardo verso un angolo del soffitto per distoglierlo dal corpo nudo e sudato che ho davanti, e che inturgidisce i capezzoli  - li scorgo da qui, dritti dritti - e suda, e che stringe e apre le cosce, agitando il culo sulla sedia. “Quel cazzo da allora me lo sogno notte e giorno, ce l’ho sempre davanti, in ogni momento della giornata, condiziona la mia vita in casa, sempre alla ricerca della sua patta, alla bestia lì intanata, per vedere se è gonfia, se reagisce agli stimoli che le invio gironzolando in mutandine e canottiera, sculettando come una cagnolina in calore...”

“E... re... a... gi... sce?”, trovo la forza di sillabare, oramai prossimo all’esplosione.

“Eccome se reagisce!”, risponde pronta, infilandosi dentro due dita e cominciando a pomparsi forte. “La vedo, quella grossa bestia, deformargli le mutande, posso sentirla gridare forteeeeh... oooooohhh mmmmm... il mio nomeee... ah ah aaahhh”, geme aumentando la velocità del suo doppio ditalino.

“Sssììì... e, dimmi, cosa fa lui a quel punto, tutto eccitato?”

“Se c’è mamma, la prende e si... uuuurghhh... chiudono in caaameeeraaa...”

“E se non c’è?!?”, chiedo quasi urlando, balzando in piedi e mandando la mano a tavoletta.

“E se non c’è, mi preeende... eeeeh... eeehhh... mmmmm... mi strappa di dosso le mutandine e mi chiava con... aaaaaaaaahhhhh... gooodoooooo...”, urla mentre il mio primo schizzo le si schianta sul collo, zigzagando poi verso il solco dei seni ubertosi.

Veniamo insieme, ululando come due gatti in calore, Rosita quasi scivolando dalla sua sedia, io stramazzando sulla mia, col cuore che sbatte forte, come se volesse sfondare la cassa toracica e uscire a farsi un balletto nel perimetro tracciato dalle nostre gambe stese, che adesso si toccano con le dita dei piedi.
di
scritto il
2018-08-22
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