Racconto a puntate pt. 2
di
Aletheia
genere
etero
Quando avevo undici anni, mia cugina sognò che sarei morta d'asfissia in un ascensore e il racconto che mi fece m'impressionò molto.
Da allora cerco di prendere sempre le scale e se mi viene impossibile, dal momento in cui le porte si chiudono a quello in cui si riaprono, l'80% del mio corpo da acqua si trasforma in panico.
Davanti alla prospettiva di fare il tragitto di quindici piani che ci separava dal suo ufficio chiusa in una scatola di metallo, ho dovuto mettere alla prova tutta la mia forza di volontà: sempre meglio che farmela a piedi, sudando e parlando dei miei traumi infantili con la persona da cui dipendeva il mio futuro.
"È necessario che io testi la tua competenza con la lingua, Aletheia: ti sottoporrò un pezzo da tradurre in forma scritta e poi faremo una prova orale, okay? Non preoccuparti, niente di troppo difficile: con l'esperienza che hai, sono sicuro che te la caverai benissimo..."
L'ascensore era uno di quelli in cui le pareti sono tutte coperte di specchi: Leonardo, che speravo tanto si ricordasse che era rimasto positivamente colpito da me come persona, poteva ora osservare da ogni angolazione la mia passeggiata sul filo di una crisi di nervi.
Per un attimo, le rughe sul suo viso cambiarono, come se si fosse reso conto che stavo male.
Mi guardava dall'alto in basso, un po' interrogativo, un po' curioso, ma senza smettere mai di sorridere.
"Tutto bene?"
La sua mano era sul mio braccio, il palmo, fermo eppure pieno di vita, mi aderiva addosso: un contatto solido, tranquillizzante, elettrico.
Cosa potevo inventarmi?
Nella mia mente stava giusto passando un gomitolo di sterpaglie come nei film western: parla, Theia, ma non dire la verità, cazzo!
"Sì... È solo che gli ascensori mi inquietano un tantino... Mi scusi. Ehm... Cioè... Scusami...
Starò. Meglio quando usciremo..."
Vai così: ottima gestione delle situazioni critiche, sempre.
Sorridevo, ma si vedeva che era forzato.
Lui non sembrava avere intenzione di spostare la mano dal mio braccio, anzi mi accarezzò un paio di volte e strinse un po' la presa: aveva delle belle mani, le dita lunghe, le unghie curate.
"Tranquilla, lo capisco... Gli ascensori sono un luogo in cui non hai il controllo di ciò che fai."
L'uomo si avvicinò a me di un passo: le nostre immagini speculari si ripetevano all'infinito.
"Ma qualche volta può essere molto bello perdere il controllo..."
Da allora cerco di prendere sempre le scale e se mi viene impossibile, dal momento in cui le porte si chiudono a quello in cui si riaprono, l'80% del mio corpo da acqua si trasforma in panico.
Davanti alla prospettiva di fare il tragitto di quindici piani che ci separava dal suo ufficio chiusa in una scatola di metallo, ho dovuto mettere alla prova tutta la mia forza di volontà: sempre meglio che farmela a piedi, sudando e parlando dei miei traumi infantili con la persona da cui dipendeva il mio futuro.
"È necessario che io testi la tua competenza con la lingua, Aletheia: ti sottoporrò un pezzo da tradurre in forma scritta e poi faremo una prova orale, okay? Non preoccuparti, niente di troppo difficile: con l'esperienza che hai, sono sicuro che te la caverai benissimo..."
L'ascensore era uno di quelli in cui le pareti sono tutte coperte di specchi: Leonardo, che speravo tanto si ricordasse che era rimasto positivamente colpito da me come persona, poteva ora osservare da ogni angolazione la mia passeggiata sul filo di una crisi di nervi.
Per un attimo, le rughe sul suo viso cambiarono, come se si fosse reso conto che stavo male.
Mi guardava dall'alto in basso, un po' interrogativo, un po' curioso, ma senza smettere mai di sorridere.
"Tutto bene?"
La sua mano era sul mio braccio, il palmo, fermo eppure pieno di vita, mi aderiva addosso: un contatto solido, tranquillizzante, elettrico.
Cosa potevo inventarmi?
Nella mia mente stava giusto passando un gomitolo di sterpaglie come nei film western: parla, Theia, ma non dire la verità, cazzo!
"Sì... È solo che gli ascensori mi inquietano un tantino... Mi scusi. Ehm... Cioè... Scusami...
Starò. Meglio quando usciremo..."
Vai così: ottima gestione delle situazioni critiche, sempre.
Sorridevo, ma si vedeva che era forzato.
Lui non sembrava avere intenzione di spostare la mano dal mio braccio, anzi mi accarezzò un paio di volte e strinse un po' la presa: aveva delle belle mani, le dita lunghe, le unghie curate.
"Tranquilla, lo capisco... Gli ascensori sono un luogo in cui non hai il controllo di ciò che fai."
L'uomo si avvicinò a me di un passo: le nostre immagini speculari si ripetevano all'infinito.
"Ma qualche volta può essere molto bello perdere il controllo..."
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