Tra Vecchio e Nuovo - Zia e Nipote - Capitolo V

di
genere
incesti

Matteo stava bivaccando sul divano ascoltando il telegiornale serale in televisione, in quella sera di inizio marzo. Da lì a poco sarebbe dovuto lanciarsi tra le vie di Milano per raggiungere un bar del centro città che da qualche mese si era rinnovato garantendo il servizio ventiquattro ore su ventiquattro, il primo bar del genere in tutta la città. A fare il turno notturno sarebbe toccato a lui quella sera. Da una parte era felice di poter fare qualche soldo e contribuire autonomamente al proprio mantenimento per le piccole spese, dall’altra non aveva assolutamente voglia di uscire con quel freddo e di stare in piedi tutta la notte. Fortunatamente il suo era un lavoro sporadico, lo impegnava al massimo per un paio di turni alla settimana. Il proprietario era un vecchio amico dei suoi genitori e quindi, anche di Rita. Fondamentalmente era stato raccomandato, pratica della quale sembrava ormai impossibile non macchiarsi.
Rita stava invece uscendo dalla doccia con il suo solito accappatoio viola e l’asciugamano in testa a tener fermi i capelli. Passò di fronte alla tv con passo energico e Matteo non poté che posare lo sguardo sul suo corpo, sensualmente avvolto in quel cotone. Per un attimo il ragazzo si domandò quali sensazioni soffici avrebbe provato al tatto se solo avesse posato le mani sulle generose forme della zia, ma scacciò presto il pensiero.
“Alla fine hanno occupato, insomma.” Commentò Rita che si era fermata ad ascoltare il telegiornale.
“Sì, questi giorni all’università è un gran casino. Fortunatamente la sessione d’esami è finita, però avremmo le lezioni da cominciare in teoria. Che palle con queste proteste.”
“Non fare così, tornerà utile anche a te quello per cui protestano loro. Gli esami li hai anche dati, sei anche andato benissimo, non ti lamentare per tutto, su!”
“Ho solo paura che i professori poi ci siano ostili. Alla fine sono sempre l’autorità loro. Non credo che noi possiamo cambiare granché del sistema. E’ una battaglia persa in partenza.”
Rita liberò i capelli dall’asciugamano e li oscillò con alcuni colpi del capo. Quel gesto di femminilità non era premeditato, le era risultato naturale, ma si rese conto della carica sessuale che emanava o piuttosto, sperava di emanarne e sapeva che per lo più Matteo cercava di ignorarla suo malgrado. Era diventato una specie di gioco il loro, una tentazione indiretta e ammiccante da parte di Rita e una falsa indifferenza quasi ascetica da parte di Matteo.
“C’è fermento ovunque, anche in Francia ho sentito. Mai dire mai, caro mio. Il tuo è solo un atteggiamento conservatore, hai solo paura di cambiare.” Terminata la frase Rita si spostò in camera da letto per mettersi il pigiama.

Matteo era consapevole del vero significato di quella frase. Sua zia era realmente dalla parte dei protestanti politicamente parlando ma la contemporaneità nei loro discorsi era specchietto per le allodole per ben altra questione che si trascinavano dietro da inizio gennaio. Erano due mesi che si era bunkerato nella sua fortezza, tirando su muri, fili spinati e ponendo guardie agli ingressi. Eppure quel che lo spaventava non era fuori da sé, ma dentro di sé. Sentiva il suo corpo cedere giorno per giorno, il suo sangue ribollire nelle sue vene e la sua voglia crescere incessantemente. Ma il suo conscio lottava con le unghie e con i denti per tenerlo bloccato, arenato e intransigente di fronte alle continue velate e sottili avance e allusioni di sua zia. Quella ne era stata una delle tante e più blande. Ma non mancavano volte in cui Rita era ben più esplicita e sopra le righe.
Ma quale famme fatale aveva trovato?

Rita infilò velocemente il pigiama più caldo che aveva mentre un brivido le corse lungo la schiena. Si sentiva insicura e spaventata. Non passava giorno in cui una parte di sé non si pentisse di aver creato quella situazione con suo nipote, ma poi ripensava a tutte le ragioni che aveva per farlo e si rasserenava. Era stata estremamente dura per lei vivere da sola tutti quegli anni. Non erano i partner occasionali a darle la compagnia che cercava, in loro aveva avuto solo temporanei sfoghi. In completa solitudine aveva sempre compiuto le proprie scelte, giuste o sbagliate che fossero. Aveva imparato a vivere autonomamente in un’epoca nella quale per molti il miglior ruolo a cui una donna poteva aspirare era quello della first lady, la moglie dell’uomo più potente al mondo. Ma le cose sarebbero cambiate in futuro, se lo sentiva. Lei era un’eccezione, ma le donne del futuro sarebbero state tutte eccezioni. Le sue idee libertarie erano troppo forti da soffocare e in quella confusione generale che aveva in testa, dal suo punto di vista, suo nipote era solo un ulteriore tassello verso un nuovo modo d’intendere la sessualità. Rita fremeva dal desiderio di averlo per sé, quel bel giovanotto le avrebbe restituito una ventata d’aria fresca e l’avrebbe immersa nuovamente in una giovinezza dalle molli e calde passioni. Sognava ad occhi aperti il reame della sessualità che si dipanava tra loro, coinvolgendoli, eccitandoli e ammantandoli di energie nuove dal gusto del proibito, interdetti languidi desideri dai peccaminosi risvolti.

Rita si sarebbe presa quel che voleva, prima o poi, in un modo o nell’altro, fiaccando giornalmente la reticenza del suo giovane nipote o sarebbe stato quest’ultimo a resistere alle potenti offensive dell’intrigante zia?

Matteo si infilò il giubbotto e uscì di casa salutando sua zia che si trovava ancora in camera da letto.
“Buon lavoro, tesoro.” Replicò lei.
Il ragazzo non ci faceva nemmeno più caso alle parole dolci che lei gli riservava, ma lui si manteneva sempre un po’ distaccato. Una volta scese le scale si infilò nel groviglio di vie della città camminando in direzione del centro, ma con il naso all’insù. Di notte gli piaceva guardare le finestre dei palazzoni che si erigevano intorno a lui per cogliere movimenti da dietro le vetrate e immaginare le attività degli inquilini. Le sue preferite erano le finestre dove si vedeva la luce ad intermittenza delle televisioni, gli davano un certo senso di serenità inspiegabile. Purtroppo in pochi avevano la tv a casa, un lusso che non tutti potevano permettersi, quindi Matteo contava sempre il numero di finestra da cui poteva intuire la presenza di una tv. Si chiedeva anche quante persone dall’altra parte delle finestre faceva l’amore mentre lui camminava per strada. Dieci? Cento? Mille?

Rita si infilò nel letto con lo scopo di addormentarsi il più velocemente possibile, in modo tale da scrollarsi di dosso quella pesante stanchezza con del sonno riconciliante. Come spesso accade però, rimase in uno stato di dormiveglia dove la mente viaggia in dimensioni eteree e metafisiche, annacquate dai ricordi, dai desideri, dalle speranze, dai sogni. Da questa poltiglia informe e onirica riemerse un dialogo di qualche settimana prima avuto con Matteo. Il ragazzo era confuso e spaesato ancora per quel bacio che lei gli aveva strappato e in uno slancio interrogativo le aveva chiesto perché tra tutte le persone al mondo, lei volesse proprio lui, suo nipote.
Posta di fronte a quella domanda, aveva deciso di dire la verità e smetterla di mentire a lui quanto a se stessa. Il vero motivo era la sua perversione, nuda e cruda. Un capriccio che le convenzioni sociali potevano rallentare, ma non fermare o cancellare. Quel che voleva se lo prendeva, a discapito di quel mondo di valori intorno a lei che comunque cozzavano contro la sua logica di interpretare il mondo e la vita. In fondo pensava che come gli omosessuali fossero attratti da persone del loro stesso sesso, lei poteva essere attratta da suo nipote. Come i feticisti dei piedi avvolgono d’aura sacra un semplice arto, lei poteva avvolgere della stessa aura chi le pareva, anche suo nipote. Cosa poteva fermarla? Una percentuale di sangue condiviso? Un antico tabù stabilito da arcaiche società affinché i gruppi di uomini procreassero figli più sani e forti, con il duplice scopo di creare alleanze tra clan attraverso politiche di matrimoni? Matteo a tutto quello non aveva saputo controbattere. Eppure, in quel momento di dormiveglia, le sorgeva un dubbio. Non erano forse tutti pretesti per giustificare una sua perversione, quelli? Non cercava di personificare l’antitetico ruolo di peccatrice e assolutrice?
Questi pensieri tormentavano Rita, rovinandole il sonno ma anche la veglia. La duplicità della mente umana rende spesso impossibile le autoanalisi. La ragione finisce spesso per essere tribunale di se stessa, chiamata a giudicare sul proprio operato come se potesse scindersi in due o guardarsi dall’esterno. Nella veste di giudicatore e giudicato, l’insano, finisce spesso per prendere le parti sbagliate, spostando gli equilibri verso una delle due estremità.
Quando Rita si addormentò, seppellì definitivamente il dubbio di starsi ingannando, spianando la strada alle sue incestuose perversioni.

Nel frattempo Matteo lavava delle tazzine dal fondo nero di caffè, nello stesso modo in cui sperava di insaponare e sciacquare via i suoi problemi dalla testa. La vita sarebbe stata più semplice con una spugna e del sapone in mano con i quali levare le macchie che non ci piacciono, pensava. E così assorto nel turbinio della mente, aveva assunto un’espressione corrucciata e deforme nel viso. Erano le quattro del mattino e al bar non c’era più nessuno. A quell’ora il suo collega Antonio diventava loquace anche se quello era il peggior giorno possibile per fare conversazione con Matteo. Eppure Antonio non si curava molto di quanto il collega intervenisse, a lui piaceva parlare fino allo sfinimento. Era la classica persona più adatta ai monologhi che ai dialoghi, non a caso voleva diventare prete per recitare le messe. Dare consigli di vita agli altri era la sua missione sacra, disattenderli lui stesso la sua ironica maledizione. In quel momento aveva cominciato a parlare proprio di quello. Della sua vicinanza alla chiesa, dei suoi anni da chirichetto, di quanto avesse imparato un sacco di versi della bibbia e dei vangeli a memoria, ma che ora ne ricordava pochi. Delle sberle dei preti che volevano raddrizzarlo e di quelle del padre che volevano punirlo. Matteo ascoltava distrattamente. Tutto quello non aveva molto a che fare con lui e con i suoi pensieri, ma perlomeno quella cantilena lo teneva un minimo lontano dai suoi tormentati dubbi.
“Ma sai che c’è Matteo? Te lo dico io perché alla fine prete non mi ci sono fatto. Te lo confido solo a te e voglio che mantieni il segreto. Lo sapremo solo noi due e Dio, che lo sa da molto tempo.” Fece Antonio mentre guardava in controluce un bicchiere con lo scopo di trovarci possibili macchie, prima di posarlo sullo scaffale.
Matteo finì di sbadigliare prima di rispondere, poi parlò. “Sarò muto come un pesce, Antò. Dimmi tutto.”
“Prete non mi ci sono fatto perché non era destino mio, non finché ho tutta questa carne intorno allo spirito. Ma sai che c’è? Gesù lo disse già: lo spirito è pronto, ma la carne è debole. E ci ho pensato molto fino ad ora. Dio sa le mie debolezze e mi ama lo stesso. Io prego perché so le mie debolezze. Sono un peccatore, tutti lo siamo. Ma a Dio questo non importa sai? Lui ci ama lo stesso.” Antonio parlava di queste cose sempre con un tono sacrale, da omelia. Effettivamente era coinvolgente quando lo faceva, ma stavolta la sua voce era ancora più profonda e nel silenzio del bar, quelle parole catturarono tutta l’attenzione di Matteo.
“La carne è debole.” Ripeté Matteo. “Ma non ti sembra una giustificazione? Facile così, non trovi? Io pecco e Dio mi perdona comunque. Perché dovrei smettere di peccare?” Chiese Matteo, veramente interessato una volta tanto.
“E’ qui che sbagliano tutti. Dio non ci chiede di smettere, ci chiede di essere coscienti e di provare. Ma il peccato lo tollera, lo accetta, altrimenti non ci avrebbe dotato di libero arbitrio. Non ci ha creati per farci limitare! Ma tu guarda che casino sui tavolini di fuori che hanno lasciato quei comunisti di prima! Fammi sistemare, va!” Antonio uscì senza infilare il giubbotto nonostante si gelasse di fuori.
Matteo pensò a tutta la vicenda con sua zia con quelle parole che gli rimbombavano nella mente. La carne era debole, era vero. Bisogna accettarsi da deboli e se si pecca, pazienza, l’importante è esserne coscienti. Tutti quei limiti che si era messo nella testa, a cosa servivano veramente? Solo a tormentare lui e sua zia, invece di vivere un rapporto libero e senza schemi. Che poi, lui in Dio nemmeno ci credeva poi così tanto. Cresima e comunione gli erano stati imposti dalla famiglia. Una famiglia arcaica e ormai anche lontana fisicamente. Perché continuava a obbedire a loro? E poi, anche Dio, seppure fosse esistito, lo avrebbe perdonato no?
Antonio rientrò dopo aver sistemato tutto, continuando ad inveire sui comunisti, calamite di ogni colpa esistente in virtù della loro professione di ateismo.
“Grazie Antò.” Fece Matteo. “Mi hai fatto un bel discorso, sai?”
Antonio si lusingò e per un attimo si sentì veramente un prete.
scritto il
2019-03-03
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