Tramonto
di
Troy2a
genere
etero
Era arrivato a fine settembre!
Aveva preso in affitto l'appartamento al secondo piano, proprio sotto a quello dove abitavamo io e mio marito, ormai soli, dopo che anche la nostra secondogenita era andata a vivere in un'altra città.
Luca era un bel ragazzo: alto un metro e ottanta o poco meno, muscoloso al giusto e con un folto casco di capelli neri. Lo avevo notato subito, ma tutto era finito lì: tra me e lui c'erano 30 anni di differenza e soprattutto non ero alla ricerca di un uomo. Non avevo mai tradito mio marito in 35 anni di matrimonio.
Il nostro è un piccolo condominio: sette appartamenti disposti 2 per piano, più uno al piano terra, tutti di proprietà, costruito agli inizi degli anni '80.
Tutti di proprietà, dicevo, gli appartamenti; tutti tranne uno. Appunto quello al secondo piano che una coppia come noi aveva affittato, per trasferirsi in un'altra città e stare più vicina ai figli.
In un mondo così piccolo e dalle abitudini così ristrette, capitava di incontrarsi, di scambiarsi un saluto. Luca era un ragazzo davvero ben educato, sempre pronto alle galanterie, tipo aprire la porta e tenerla aperta per fare entrare, o uscire, qualcun altro. Per noi era una novità, se vogliamo anche un intrusione in un mondo che ci eravamo costruito insieme e che si reggeva su fragili compromessi e su una doverosa solidarietà tra persone che si avviavano alla vecchiaia.
Tornavo dal lavoro, una sera: mi ero fermata a prendere due fardelli d'acqua dal negozio sotto casa e, con un peso che diventava ogni giorno più difficile da trasportare, mi avviavo verso il portone.
“Le do una mano, signora!”
La sua non era una domanda e, a dire la verità, anche se lo fosse stata non avrei rifiutato: l'idea di farmi tre piano di scale con quel peso non mi allettava per nulla. Osservai la facilità e la naturalezza con cui si impossessò dei fardelli, alleggerendomi di colpo. Fino al giorno prima i nostri approcci si erano limitati al canonico e doveroso saluto nell'incontrarci; in pochi minuti mi raccontò tanto di lui e della sua professione. Arrivammo al secondo piano e si fermò davanti alla sua porta; un po' delusa dissi:
“Grazie! Un piano posso farlo da sola.”
“Dai, su! Entri che ci facciamo un caffé!”
“Davvero, non posso! Mio marito mi sta aspettando perché prepari cena.”
“Solo un minuto! Un caffè e la lascio libera di scappare!”
Mi sentivo attratta dall'idea: più quella di conoscere meglio quel ragazzo così semplice e imperscrutabile al tempo, che quella di prendere il caffè, che comunque era la mia pausa preferita.
Fingendo ancora un po' di ritrosia, lo seguì all'interno dell'appartamento: riconobbi la disposizione delle stanze, speculari al mio. Anche l'arredamento, lasciatogli dai proprietari, era così simile al mio, anche se lo aveva, per così dire, personalizzato, appendendo alla parete alcuni quadri, molto belli, ma a tema unico. Nudi femminili, riproduzioni di quadri celebri: riconobbi la Maya desnuda, il pic nic sul prato. Altre mi erano sconosciute. Ma quella che mi colpì di più fu la riproduzione di un fico visto dal basso, aperto: così simile anche nei colori ad una vulva.
“Ah, però!” esclamai, suscitando un sorriso da parte di lui.
Sinceramente, mi sentivo in imbarazzo e quella mia esternazione non contribuì a farmi sentire più a mio agio. Anzi, in breve realizzai che non potevo far finta di non essermi accorta di una certa sua predilezione per il nudo di donna ed in particolare per quella parte di una donna. Sarei voluta scappare, ma era tardi. Lo seguii in cucina: l'ordine e la pulizia che regnavano un po' ovunque mi rasserenarono, trasmettendomi l'idea di un bravo ragazzo. D'altronde alla sua età avvertire forte il richiamo del sesso è naturale, pensai. Accettai il suo invito a sedermi e lo osservai, mentre preparava la moka, continuando a parlarmi di lui, del suo lavoro, dei suoi progetti. Era un ingegnere elettronico e lavorava per una multinazionale coreana, progettava microcomponentistica ed era un lavoro che poteva tranquillamente svolgere da casa, al suo pc. Questo spiegava il fatto che spesso lo si vedeva in giro in orari per altri impensabili: quando si prendeva delle pause, preferiva uscire e fare un giro intorno, piuttosto che restare in casa da solo.
“Comunque, io sono Luca!” disse all'improvviso, interrompendo il filo del discorso che seguiva.
“Lo so!” risposi, senza sapere appieno quello che volevo dire.
“E come lo sa? Non ci siamo mai presentati!” mi prese alla sprovvista e faticai a trovare una legittimazione plausibile. Farfugliai qualcosa, con il risultato di diventare paonazza, senza aver rimediato.
“D'accordo! Non è importante, se non nella misura in cui tu conosci il mio nome, ma io non conosco il tuo!” assunsi una smorfia di meraviglia e di indisposizione: non gradivo la facilità con cui era passato al tu. “So che sei la signora Selce, coniugata D'Olivo. Ma questo è facile: basta guardare sul citofono! O è D'Olivo coniugata Selce? No: in Italia mettiamo sempre in alto il cognome del marito. Siamo così provinciali!” Le sue parole mi rendevano sempre più sbalordita ed il suo comportamento accentuava il mio imbarazzo.
Finalmente arrivò il caffè e lo trangugiai tutto d'un fiato, ustionandomi la lingua. Mi offrii un bicchiere d'acqua, per alleviare un dolore che doveva trasparire evidente.
“Scusami! Forse ho detto qualcosa di sbagliato, ma non volevo mancarti di rispetto. Sinceramente, sei l'unica persona che abbia attirato il mio interesse qui.”
“E perché avrei attirato il tuo interesse?” chiesi un po' stizzita.
“Lascia stare! Ti accompagno su!”
“Eh, no! Ora mi rispondi!”
“Ma ti sei guardata intorno? Sembra di essere in un befanotrofio: la più giovane rasenta la sessantina!”
“Se è per questo, io l'ho superata!”
“Ma dai? Davvero? Non lo avrei mai pensato, giuro. Sei l'unica bella donna qui dentro e ti facevo molto più giovane.”
“Grazie per il complimento. Spero sia sincero!”
“Sei tornata al lei. Devo farlo anch'io?”
“No! Scusa: l'ho fatto senza pensarci. Ma non allargarti!”
Mi guardò con lo sguardo di un cane bastonato che generò in me un moto di empatia, al quale sfuggì alzandomi dalla sedia.
“Ora devo proprio andare!”
“Ti accompagno!”
“Non preoccuparti: è solo un piano e ci sono abituata!”
“Ci tengo!”
Non finsi neanche di insistere: quella sua galanteria mi faceva piacere. Lo guardai mentre afferrava i fardelli e, lasciando la porta aperta, si incamminava su per le ultime due rampe di scale. Posò l'acqua proprio davanti l'uscio del mio appartamento e:
“Scappo!” disse, protendendosi e dandomi un bacio sulla guancia che mi lasciò allibita. In un attimo era sparito, mentre la porta si apriva e mio marito afferrava l'acqua, brontolando un saluto privo di calore.
Trascorsero alcuni giorni, nel solito tran tran. Devo dire che mi capitò spesso di pensare a lui, alla sua gentilezza, ma soprattutto ai suoi complimenti. Anche ai suo quadri, ad essere sincera.
Ebbi anche la tentazione di cercarlo, ma resistetti. Poi, una sera, tornando dal lavoro, la sua porta si aprii proprio mentre passavo di là, lanciando un'occhiata, cui non sapevo dare un motivo. Mi fermai, sentendo la serratura scattare, un piede sul gradino, l'altro sul pianerottolo. Senza saperlo, aspettavo di sentire la sua voce, il suo saluto. Che non arrivò mai!
“Lo prendiamo un caffè?”
“Scusa?!?”
“Ma sì! Ho bisogno di fare una pausa.”
“Ma non preferivi fare un giro fuori?”
“Certo! Se non c'è di meglio.”
“E cosa ci sarebbe di meglio in un caffè?”
“Tu, naturalmente!”
Avvampai, mentre mi schermivo dietro un “Ah!”, supportato da una scrollatina del capo.
“Allora?” mi incalzò.
“Un caffè?”
“Un caffè... se vuoi!”
Sapevo di stare commettendo un grosso errore, ma incredibilmente sentivo che quello che volevo di più in quel momento era commettere quell'errore.
Si fece di lato per permettermi di entrare: sulla parete i soliti quadri, nella prima camera, che la prima volta era chiusa, un cavalletto ed una tela con dei tratti in carboncino, quello che i pittori chiamano disegni preliminari. Era una donna, di fronte ad uno specchio, naturalmente nuda, ma il suo corpo, dalle curve morbide ed arrotondate, il suo volto, comprese le rughe anche se espresse in maniera dolce... Ero io, senza dubbio! Mi fermai ad osservare quel quadro, voltandomi verso di lui con uno sguardo misto di meraviglia e ammirazione, quando avrei voluto simulare rabbia. Lui non si scompose.
“Ho provato ad immaginare! Di notte ho tanto tempo libero.”
Non chiesi più nulla, né tentai di simulare quello che non ero stata capace di dimostrare fino ad allora. Mi limitai a seguirlo in cucina: mi sedetti alla solita sedia ed attesi che lui preparasse la moka e la mettesse sul gas. Lo guardai muoversi, prendere una seggiola anche lui, salvo poi ignorarla e portarsi, con passi lenti e misurati, alle mie spalle. Attesi di sentire la sue mani su di me: invano!
Con la stessa andatura, riapparve di fronte a me, giusto in tempo per servire il caffè. Lo fissai e lui lesse la mia domanda nei miei occhi.
“Volevo guardarti bene le spalle, le proporzioni!”
“Solo le spalle?”
“Da seduta, sarebbe stato impossibile pesare il resto. L'ho fatto prima, mentre guardavi il quadro.”
Ancora volevo simulare rabbia, ma riuscii solo a sorridergli ed a scuotere il capo ancora una volta.
Cominciò così: io che tornavo a casa e che rallentavo sul suo pianerottolo, fino a che la porta non si apriva ed io sgattaiolavo furtiva. Il tempo di un caffé e di poche parole scambiate di fretta, poi su da un marito sempre più insofferente, sempre meno tollerato. Non aveva mancato di notare come i miei rientri fossero slittati, anche se solo di pochi minuti, ma in maniera costante; non me ne aveva chiesto la ragione, ma aveva sottolineato che non gliene fregava nulla, purché la cena fosse pronta in orario. Un modo come un altro per ferirmi: non era la prima volta.
Anche quella sera tornavo dal lavoro: la porta si aprii prima che io avessi scavalcato l'ultimo gradino. Entrai con naturalezza e lo salutai; si piegò a darmi un bacio sulla guancia: non era usuale, ma mi resi conto di volerlo anche io. Non si incamminò verso la cucina: aprii la porta sulla destra e mi invitò ad entrare.
“Guarda!” disse.
Davanti a me c'era il mio ritratto: io che mi guardavo in uno specchio. Il seno leggermente cascante ed il pube contornato da una peluria curata, rimandato dalla superficie in piena luce. Il sedere quasi in penombra in primo piano, con tre pieghe dove le natiche cedevano il passo alle cosce. Una mano lascivamente posata tra il pube e un piccolo rotolo di pancia, l'altra ingeniamente tuffaya nei corti capelli. Non sono mai stata un 'estimatrice dell'arte, ma mi piaceva quel quadro. E mi piacevo io in quel quadro.
“Sono così?” chiesi, continuando ad osservarmi.
“Sì! Almeno, così ti immagino. Non ho mai visto di te, più del volto e delle mani, le caviglie o i ginocchi. Ma ti ho pensata tutte le notti e ti vedevo così!”
Evitai di voltarmi: avrebbe letto quanto apprezzassi quelle parole.
“Prendiamo il caffè, che devo andare!” dissi, proprio mentre la sua mano si posava sul mio fianco, risalendolo in una carezza lenta e pulita. Me prese per mano e mi accompagnò in cucina: temevo e speravo che prendesse l'iniziativa, ma si limitò ai soliti, casti gesti di ogni giorno. Poi mi accompagnò alla porta, sbirciò dallo spioncino per assicurarsi che non ci fosse nessuno e si apprestò ad abbassare la maniglia; fu allora che, alzandomi sulle punte, lo afferrai per il capo e lo attirai a me per dargli un bacio sulle labbra. Solo un attimo, il tempo di sfiorarle e mi ritrassi.
“grazie!” sussurrai, svicolando rapida sulle scale, con il cuore in pieno tumulto.
Ormai era diventata indispensabile quella sosta: non ci avrei rinunciato per nulla al mondo. Luca diventava sempre più audace: ora mi accompagnava in cucina spingendomi quasi con una mano posata sul culo ed io non mancavo di salutarlo con un bacio sulla bocca, che diventava ogni volta meno casto e che mi accompagnava fin nel letto alla sera, con una rinnovata carica sessuale, che non trovava appagamento in un marito distratto, anzi ostile.
Accorsi quasi con sollievo l'annuncio che il fine settimana sarebbe andato ad un torneo di bocce in Abruzzo. Mi guardai allo specchio, quella sera, come da tempo non mi capitava di fare: mi chiesi se davvero potessi essere ancora appetibile per un giovane come lui. Ma, qualunque risposta mi dessi, non scalfiva una decisione che avevo già preso.
Il sabato mattina, mio marito partì alle 5, senza neanche salutarmi. Io, per parte mia, feci finta di continuare a dormire. Quando fui certa che si era allontanato, mi alzai: feci una doccia e mi vestii. Per scelta, non mi truccai: volevo che lui mi vedesse al naturale. In un certo senso, volevo che conoscesse la merce che gli offrivo. Non erano ancora le 7 quando suonai il suo campanello. In giro non c'era un'anima, anche se continuavo a guardarmi in giro, per evitare sosprese. Ci mise 5 minuti buoni, per aprirmi. Aveva lo sguardo assonnato, i lunghi capelli scarmigliati ed indossava solo il sotto del pigiama, nonostante il freddo.
Mi tirò dentro e, solo dopo aver chiuso la porta, mi parlò.
“Che cazzo ci fai qui a quest'ora?”
“Se disturbo vado via!”
La risposta fu un bacio inatteso e desiderato: la sua lingua prese a battere contro le mie labbra, fino a che non le dischiusi per accoglierla; le sue braccia mi strinsero frenetiche e le sue mani percorsero tutta la mia schiena. Non so quanto durò quel bacio, ma so che mi sembrò il primo vero bacio della mia vita.
“Che ci fai qui?” ripeté.
“Ho pensato che potrebbe piacerti sapere se hai immaginato giusto. Ma se ho sbagliato vado via.”
“E tuo marito?”
“Starà fuori tutto il fine settimana!”
“Vuoi dire che staremo insieme per due giorni?”
“Sinceramente, non lo avevo pensato. Volevo solo farti vedere quanto il tuo quadro sia vicino al vero...”
Si rabbuiò.
“Ma se ti fa piacere... mi trasferisco qui per due giorni!”
Il suo viso tornò ad illuminarsi, mentre facevo cadere piano il soprabito dalle mie spalle. I suoi occhi si sgranarono allibiti, di fronte al mio corpo nudo: non avevo messo niente addosso, tranne il soprabito. Credetti il suo fosse un moto di disappunto e cercai di rivestirmi, ma lui mi bloccò.
“Perdonami! Perdonami! Ti ho mortificata! Che stupido sono stato!”
Mentre parlava, mi abbracciava stretta, al punto che pensavo potesse soffocarmi.
“Sei molto più bella di come ti ho riprodotta nel mio quadro! Molto... molto di più!”
Ora le sue mani mi accarezzavano con una dolcezza infinita e le sue labbra si protendevano verso le mie. Non tentai neanche di prolungare quei momenti e le unii alle sue in un bacio lunghissimo ed appassionato. Mi ritrovai distesa sul tappeto, con la sua testa affondata tra le mie cosce, con la sua lingua che duellava con il mio clitoride, regalandomi sensazioni di piacere infinito. Rimanemmo lì, sul tappeto e lì mi penetrò: il suo cazzo era una spada di dolci sensazioni che si inguainava nella mia fica, riportandomi indietro con gli anni, ai primi amori, ai primi amplessi. Il suo corpo, giovane e tonico, si muoveva con ritmo costante su di me: ascoltavo il suo respiro, respiravo l'aria che arrivava dai suoi polmoni, quanto lui respirava la mia. Lo stringevo tra le mie gambe, con i piedi chiusi dietro le sue natiche, ad impedirgli di fuggire. Ma sapevo che non voleva fuggire dal mio corpo: me lo raccontava il suo movimento sinuoso, le sue mani che mi carezzavano il volto, e la sua bocca, che scendeva famelica sui miei seni e si impossessava dei miei capezzoli, torturandoli. Mai tortura fu più gradita. Le mie unghia si conficcavano nella sua pelle, lasciando solchi rubri e strappandogli gemiti di dolore e piacere, che non si curava di soffocare. Mi venne dentro e, all'unisono, venni anch'io; poi rimanemmo abbracciati, su quel tappeto, con i nostri corpi intrecciati e le nostre mani a spingersi verso scoperte nuove, verso mete agognate. Tenevo il suo cazzo e continuavo ad andare su e giù, nonostante si fosse afflosciato e lui mi baciava, mi pizzicava i capezzoli, mi succhiava i lobi delle orecchie. Non ci volle molto. Sentii il suo membro tornare ad ingrossarsi nella mia mano.
“Aspetta!” mi disse. Si alzò e, prendendomi tra le sue braccia, mi portò nella camera; con dolcezza mi stese sul letto e si affiancò a me.
“Ora tocca a me!” gli dissi, scivolando tra le sue gambe. Leccai l'inguine e lo scroto, baciai il suo prepuzio, prima di cominciare a leccarlo, facendo scivolare, lentamente, la mia bocca lungo tutta quella meravigliosa asta di carne. Le sue mani trai miei capelli, che mi spingevano la testa giù, mi raccontavano di quanto quel trattamento fosse gradito. Ci fissammo, occhi negli occhi; mi sollevai e , sempre guardandolo fisso, mi misi a cavalcioni su di lui. Il mio movimento era un'altalena perfetta, a cavallo del suo cazzo.
“Il culo! Voglio il culo!” il suo era un sussurro. Gli sorrisi e, sollevandomi, estrassi il cazzo dalla fica e con un movimento esperto, lo posizionai all'imbocco del mio intestino, accompagnandolo con la mano. Mi lasciai cadere con decisione su di lui ed il cazzo scivolò dentro, non senza procurarmi un leggero dolore, che considerai poca cosa, rispetto al piacere che stavo provando. Complice il fatto che fosse già venuto, durò un sacco prima di venire, al punto che il culo cominciava a dolermi ed i miei movimenti avevano perso la fluidità dell'inizio. Sentii la sborra calda invadermi l'intestino, mentre lui si contorceva, in preda agli spasmi dell'orgasmo.
Mi alzai.
“Vado!” dissi.
“Avevi promesso di fermarti due giorni!”
“Pensavo che avessi cambiato idea!”
“Perché avrei dovuto?”
“Perché ora mi hai scopato!”
“A parte il fatto che intendo farlo ancora, potrei passare 2 giorni qui con te, in questo letto, solo a guardarti.”
Una lacrima birichina scivolò sulla mia guancia. Per non farlo vedere lo abbracciai e, dopo aver ripreso il controllo di me stessa, lo baciai.
“Promettimi che non finirà tutto domani!”
“Se parli di scoparti, intendo farlo ancora a lungo! E...”
“E?”
“Ma solo sesso non mi basta, non da te!”
“Cosa vuoi?”
Mi strinse e mi baciò: era la risposta che attendevo!
Aveva preso in affitto l'appartamento al secondo piano, proprio sotto a quello dove abitavamo io e mio marito, ormai soli, dopo che anche la nostra secondogenita era andata a vivere in un'altra città.
Luca era un bel ragazzo: alto un metro e ottanta o poco meno, muscoloso al giusto e con un folto casco di capelli neri. Lo avevo notato subito, ma tutto era finito lì: tra me e lui c'erano 30 anni di differenza e soprattutto non ero alla ricerca di un uomo. Non avevo mai tradito mio marito in 35 anni di matrimonio.
Il nostro è un piccolo condominio: sette appartamenti disposti 2 per piano, più uno al piano terra, tutti di proprietà, costruito agli inizi degli anni '80.
Tutti di proprietà, dicevo, gli appartamenti; tutti tranne uno. Appunto quello al secondo piano che una coppia come noi aveva affittato, per trasferirsi in un'altra città e stare più vicina ai figli.
In un mondo così piccolo e dalle abitudini così ristrette, capitava di incontrarsi, di scambiarsi un saluto. Luca era un ragazzo davvero ben educato, sempre pronto alle galanterie, tipo aprire la porta e tenerla aperta per fare entrare, o uscire, qualcun altro. Per noi era una novità, se vogliamo anche un intrusione in un mondo che ci eravamo costruito insieme e che si reggeva su fragili compromessi e su una doverosa solidarietà tra persone che si avviavano alla vecchiaia.
Tornavo dal lavoro, una sera: mi ero fermata a prendere due fardelli d'acqua dal negozio sotto casa e, con un peso che diventava ogni giorno più difficile da trasportare, mi avviavo verso il portone.
“Le do una mano, signora!”
La sua non era una domanda e, a dire la verità, anche se lo fosse stata non avrei rifiutato: l'idea di farmi tre piano di scale con quel peso non mi allettava per nulla. Osservai la facilità e la naturalezza con cui si impossessò dei fardelli, alleggerendomi di colpo. Fino al giorno prima i nostri approcci si erano limitati al canonico e doveroso saluto nell'incontrarci; in pochi minuti mi raccontò tanto di lui e della sua professione. Arrivammo al secondo piano e si fermò davanti alla sua porta; un po' delusa dissi:
“Grazie! Un piano posso farlo da sola.”
“Dai, su! Entri che ci facciamo un caffé!”
“Davvero, non posso! Mio marito mi sta aspettando perché prepari cena.”
“Solo un minuto! Un caffè e la lascio libera di scappare!”
Mi sentivo attratta dall'idea: più quella di conoscere meglio quel ragazzo così semplice e imperscrutabile al tempo, che quella di prendere il caffè, che comunque era la mia pausa preferita.
Fingendo ancora un po' di ritrosia, lo seguì all'interno dell'appartamento: riconobbi la disposizione delle stanze, speculari al mio. Anche l'arredamento, lasciatogli dai proprietari, era così simile al mio, anche se lo aveva, per così dire, personalizzato, appendendo alla parete alcuni quadri, molto belli, ma a tema unico. Nudi femminili, riproduzioni di quadri celebri: riconobbi la Maya desnuda, il pic nic sul prato. Altre mi erano sconosciute. Ma quella che mi colpì di più fu la riproduzione di un fico visto dal basso, aperto: così simile anche nei colori ad una vulva.
“Ah, però!” esclamai, suscitando un sorriso da parte di lui.
Sinceramente, mi sentivo in imbarazzo e quella mia esternazione non contribuì a farmi sentire più a mio agio. Anzi, in breve realizzai che non potevo far finta di non essermi accorta di una certa sua predilezione per il nudo di donna ed in particolare per quella parte di una donna. Sarei voluta scappare, ma era tardi. Lo seguii in cucina: l'ordine e la pulizia che regnavano un po' ovunque mi rasserenarono, trasmettendomi l'idea di un bravo ragazzo. D'altronde alla sua età avvertire forte il richiamo del sesso è naturale, pensai. Accettai il suo invito a sedermi e lo osservai, mentre preparava la moka, continuando a parlarmi di lui, del suo lavoro, dei suoi progetti. Era un ingegnere elettronico e lavorava per una multinazionale coreana, progettava microcomponentistica ed era un lavoro che poteva tranquillamente svolgere da casa, al suo pc. Questo spiegava il fatto che spesso lo si vedeva in giro in orari per altri impensabili: quando si prendeva delle pause, preferiva uscire e fare un giro intorno, piuttosto che restare in casa da solo.
“Comunque, io sono Luca!” disse all'improvviso, interrompendo il filo del discorso che seguiva.
“Lo so!” risposi, senza sapere appieno quello che volevo dire.
“E come lo sa? Non ci siamo mai presentati!” mi prese alla sprovvista e faticai a trovare una legittimazione plausibile. Farfugliai qualcosa, con il risultato di diventare paonazza, senza aver rimediato.
“D'accordo! Non è importante, se non nella misura in cui tu conosci il mio nome, ma io non conosco il tuo!” assunsi una smorfia di meraviglia e di indisposizione: non gradivo la facilità con cui era passato al tu. “So che sei la signora Selce, coniugata D'Olivo. Ma questo è facile: basta guardare sul citofono! O è D'Olivo coniugata Selce? No: in Italia mettiamo sempre in alto il cognome del marito. Siamo così provinciali!” Le sue parole mi rendevano sempre più sbalordita ed il suo comportamento accentuava il mio imbarazzo.
Finalmente arrivò il caffè e lo trangugiai tutto d'un fiato, ustionandomi la lingua. Mi offrii un bicchiere d'acqua, per alleviare un dolore che doveva trasparire evidente.
“Scusami! Forse ho detto qualcosa di sbagliato, ma non volevo mancarti di rispetto. Sinceramente, sei l'unica persona che abbia attirato il mio interesse qui.”
“E perché avrei attirato il tuo interesse?” chiesi un po' stizzita.
“Lascia stare! Ti accompagno su!”
“Eh, no! Ora mi rispondi!”
“Ma ti sei guardata intorno? Sembra di essere in un befanotrofio: la più giovane rasenta la sessantina!”
“Se è per questo, io l'ho superata!”
“Ma dai? Davvero? Non lo avrei mai pensato, giuro. Sei l'unica bella donna qui dentro e ti facevo molto più giovane.”
“Grazie per il complimento. Spero sia sincero!”
“Sei tornata al lei. Devo farlo anch'io?”
“No! Scusa: l'ho fatto senza pensarci. Ma non allargarti!”
Mi guardò con lo sguardo di un cane bastonato che generò in me un moto di empatia, al quale sfuggì alzandomi dalla sedia.
“Ora devo proprio andare!”
“Ti accompagno!”
“Non preoccuparti: è solo un piano e ci sono abituata!”
“Ci tengo!”
Non finsi neanche di insistere: quella sua galanteria mi faceva piacere. Lo guardai mentre afferrava i fardelli e, lasciando la porta aperta, si incamminava su per le ultime due rampe di scale. Posò l'acqua proprio davanti l'uscio del mio appartamento e:
“Scappo!” disse, protendendosi e dandomi un bacio sulla guancia che mi lasciò allibita. In un attimo era sparito, mentre la porta si apriva e mio marito afferrava l'acqua, brontolando un saluto privo di calore.
Trascorsero alcuni giorni, nel solito tran tran. Devo dire che mi capitò spesso di pensare a lui, alla sua gentilezza, ma soprattutto ai suoi complimenti. Anche ai suo quadri, ad essere sincera.
Ebbi anche la tentazione di cercarlo, ma resistetti. Poi, una sera, tornando dal lavoro, la sua porta si aprii proprio mentre passavo di là, lanciando un'occhiata, cui non sapevo dare un motivo. Mi fermai, sentendo la serratura scattare, un piede sul gradino, l'altro sul pianerottolo. Senza saperlo, aspettavo di sentire la sua voce, il suo saluto. Che non arrivò mai!
“Lo prendiamo un caffè?”
“Scusa?!?”
“Ma sì! Ho bisogno di fare una pausa.”
“Ma non preferivi fare un giro fuori?”
“Certo! Se non c'è di meglio.”
“E cosa ci sarebbe di meglio in un caffè?”
“Tu, naturalmente!”
Avvampai, mentre mi schermivo dietro un “Ah!”, supportato da una scrollatina del capo.
“Allora?” mi incalzò.
“Un caffè?”
“Un caffè... se vuoi!”
Sapevo di stare commettendo un grosso errore, ma incredibilmente sentivo che quello che volevo di più in quel momento era commettere quell'errore.
Si fece di lato per permettermi di entrare: sulla parete i soliti quadri, nella prima camera, che la prima volta era chiusa, un cavalletto ed una tela con dei tratti in carboncino, quello che i pittori chiamano disegni preliminari. Era una donna, di fronte ad uno specchio, naturalmente nuda, ma il suo corpo, dalle curve morbide ed arrotondate, il suo volto, comprese le rughe anche se espresse in maniera dolce... Ero io, senza dubbio! Mi fermai ad osservare quel quadro, voltandomi verso di lui con uno sguardo misto di meraviglia e ammirazione, quando avrei voluto simulare rabbia. Lui non si scompose.
“Ho provato ad immaginare! Di notte ho tanto tempo libero.”
Non chiesi più nulla, né tentai di simulare quello che non ero stata capace di dimostrare fino ad allora. Mi limitai a seguirlo in cucina: mi sedetti alla solita sedia ed attesi che lui preparasse la moka e la mettesse sul gas. Lo guardai muoversi, prendere una seggiola anche lui, salvo poi ignorarla e portarsi, con passi lenti e misurati, alle mie spalle. Attesi di sentire la sue mani su di me: invano!
Con la stessa andatura, riapparve di fronte a me, giusto in tempo per servire il caffè. Lo fissai e lui lesse la mia domanda nei miei occhi.
“Volevo guardarti bene le spalle, le proporzioni!”
“Solo le spalle?”
“Da seduta, sarebbe stato impossibile pesare il resto. L'ho fatto prima, mentre guardavi il quadro.”
Ancora volevo simulare rabbia, ma riuscii solo a sorridergli ed a scuotere il capo ancora una volta.
Cominciò così: io che tornavo a casa e che rallentavo sul suo pianerottolo, fino a che la porta non si apriva ed io sgattaiolavo furtiva. Il tempo di un caffé e di poche parole scambiate di fretta, poi su da un marito sempre più insofferente, sempre meno tollerato. Non aveva mancato di notare come i miei rientri fossero slittati, anche se solo di pochi minuti, ma in maniera costante; non me ne aveva chiesto la ragione, ma aveva sottolineato che non gliene fregava nulla, purché la cena fosse pronta in orario. Un modo come un altro per ferirmi: non era la prima volta.
Anche quella sera tornavo dal lavoro: la porta si aprii prima che io avessi scavalcato l'ultimo gradino. Entrai con naturalezza e lo salutai; si piegò a darmi un bacio sulla guancia: non era usuale, ma mi resi conto di volerlo anche io. Non si incamminò verso la cucina: aprii la porta sulla destra e mi invitò ad entrare.
“Guarda!” disse.
Davanti a me c'era il mio ritratto: io che mi guardavo in uno specchio. Il seno leggermente cascante ed il pube contornato da una peluria curata, rimandato dalla superficie in piena luce. Il sedere quasi in penombra in primo piano, con tre pieghe dove le natiche cedevano il passo alle cosce. Una mano lascivamente posata tra il pube e un piccolo rotolo di pancia, l'altra ingeniamente tuffaya nei corti capelli. Non sono mai stata un 'estimatrice dell'arte, ma mi piaceva quel quadro. E mi piacevo io in quel quadro.
“Sono così?” chiesi, continuando ad osservarmi.
“Sì! Almeno, così ti immagino. Non ho mai visto di te, più del volto e delle mani, le caviglie o i ginocchi. Ma ti ho pensata tutte le notti e ti vedevo così!”
Evitai di voltarmi: avrebbe letto quanto apprezzassi quelle parole.
“Prendiamo il caffè, che devo andare!” dissi, proprio mentre la sua mano si posava sul mio fianco, risalendolo in una carezza lenta e pulita. Me prese per mano e mi accompagnò in cucina: temevo e speravo che prendesse l'iniziativa, ma si limitò ai soliti, casti gesti di ogni giorno. Poi mi accompagnò alla porta, sbirciò dallo spioncino per assicurarsi che non ci fosse nessuno e si apprestò ad abbassare la maniglia; fu allora che, alzandomi sulle punte, lo afferrai per il capo e lo attirai a me per dargli un bacio sulle labbra. Solo un attimo, il tempo di sfiorarle e mi ritrassi.
“grazie!” sussurrai, svicolando rapida sulle scale, con il cuore in pieno tumulto.
Ormai era diventata indispensabile quella sosta: non ci avrei rinunciato per nulla al mondo. Luca diventava sempre più audace: ora mi accompagnava in cucina spingendomi quasi con una mano posata sul culo ed io non mancavo di salutarlo con un bacio sulla bocca, che diventava ogni volta meno casto e che mi accompagnava fin nel letto alla sera, con una rinnovata carica sessuale, che non trovava appagamento in un marito distratto, anzi ostile.
Accorsi quasi con sollievo l'annuncio che il fine settimana sarebbe andato ad un torneo di bocce in Abruzzo. Mi guardai allo specchio, quella sera, come da tempo non mi capitava di fare: mi chiesi se davvero potessi essere ancora appetibile per un giovane come lui. Ma, qualunque risposta mi dessi, non scalfiva una decisione che avevo già preso.
Il sabato mattina, mio marito partì alle 5, senza neanche salutarmi. Io, per parte mia, feci finta di continuare a dormire. Quando fui certa che si era allontanato, mi alzai: feci una doccia e mi vestii. Per scelta, non mi truccai: volevo che lui mi vedesse al naturale. In un certo senso, volevo che conoscesse la merce che gli offrivo. Non erano ancora le 7 quando suonai il suo campanello. In giro non c'era un'anima, anche se continuavo a guardarmi in giro, per evitare sosprese. Ci mise 5 minuti buoni, per aprirmi. Aveva lo sguardo assonnato, i lunghi capelli scarmigliati ed indossava solo il sotto del pigiama, nonostante il freddo.
Mi tirò dentro e, solo dopo aver chiuso la porta, mi parlò.
“Che cazzo ci fai qui a quest'ora?”
“Se disturbo vado via!”
La risposta fu un bacio inatteso e desiderato: la sua lingua prese a battere contro le mie labbra, fino a che non le dischiusi per accoglierla; le sue braccia mi strinsero frenetiche e le sue mani percorsero tutta la mia schiena. Non so quanto durò quel bacio, ma so che mi sembrò il primo vero bacio della mia vita.
“Che ci fai qui?” ripeté.
“Ho pensato che potrebbe piacerti sapere se hai immaginato giusto. Ma se ho sbagliato vado via.”
“E tuo marito?”
“Starà fuori tutto il fine settimana!”
“Vuoi dire che staremo insieme per due giorni?”
“Sinceramente, non lo avevo pensato. Volevo solo farti vedere quanto il tuo quadro sia vicino al vero...”
Si rabbuiò.
“Ma se ti fa piacere... mi trasferisco qui per due giorni!”
Il suo viso tornò ad illuminarsi, mentre facevo cadere piano il soprabito dalle mie spalle. I suoi occhi si sgranarono allibiti, di fronte al mio corpo nudo: non avevo messo niente addosso, tranne il soprabito. Credetti il suo fosse un moto di disappunto e cercai di rivestirmi, ma lui mi bloccò.
“Perdonami! Perdonami! Ti ho mortificata! Che stupido sono stato!”
Mentre parlava, mi abbracciava stretta, al punto che pensavo potesse soffocarmi.
“Sei molto più bella di come ti ho riprodotta nel mio quadro! Molto... molto di più!”
Ora le sue mani mi accarezzavano con una dolcezza infinita e le sue labbra si protendevano verso le mie. Non tentai neanche di prolungare quei momenti e le unii alle sue in un bacio lunghissimo ed appassionato. Mi ritrovai distesa sul tappeto, con la sua testa affondata tra le mie cosce, con la sua lingua che duellava con il mio clitoride, regalandomi sensazioni di piacere infinito. Rimanemmo lì, sul tappeto e lì mi penetrò: il suo cazzo era una spada di dolci sensazioni che si inguainava nella mia fica, riportandomi indietro con gli anni, ai primi amori, ai primi amplessi. Il suo corpo, giovane e tonico, si muoveva con ritmo costante su di me: ascoltavo il suo respiro, respiravo l'aria che arrivava dai suoi polmoni, quanto lui respirava la mia. Lo stringevo tra le mie gambe, con i piedi chiusi dietro le sue natiche, ad impedirgli di fuggire. Ma sapevo che non voleva fuggire dal mio corpo: me lo raccontava il suo movimento sinuoso, le sue mani che mi carezzavano il volto, e la sua bocca, che scendeva famelica sui miei seni e si impossessava dei miei capezzoli, torturandoli. Mai tortura fu più gradita. Le mie unghia si conficcavano nella sua pelle, lasciando solchi rubri e strappandogli gemiti di dolore e piacere, che non si curava di soffocare. Mi venne dentro e, all'unisono, venni anch'io; poi rimanemmo abbracciati, su quel tappeto, con i nostri corpi intrecciati e le nostre mani a spingersi verso scoperte nuove, verso mete agognate. Tenevo il suo cazzo e continuavo ad andare su e giù, nonostante si fosse afflosciato e lui mi baciava, mi pizzicava i capezzoli, mi succhiava i lobi delle orecchie. Non ci volle molto. Sentii il suo membro tornare ad ingrossarsi nella mia mano.
“Aspetta!” mi disse. Si alzò e, prendendomi tra le sue braccia, mi portò nella camera; con dolcezza mi stese sul letto e si affiancò a me.
“Ora tocca a me!” gli dissi, scivolando tra le sue gambe. Leccai l'inguine e lo scroto, baciai il suo prepuzio, prima di cominciare a leccarlo, facendo scivolare, lentamente, la mia bocca lungo tutta quella meravigliosa asta di carne. Le sue mani trai miei capelli, che mi spingevano la testa giù, mi raccontavano di quanto quel trattamento fosse gradito. Ci fissammo, occhi negli occhi; mi sollevai e , sempre guardandolo fisso, mi misi a cavalcioni su di lui. Il mio movimento era un'altalena perfetta, a cavallo del suo cazzo.
“Il culo! Voglio il culo!” il suo era un sussurro. Gli sorrisi e, sollevandomi, estrassi il cazzo dalla fica e con un movimento esperto, lo posizionai all'imbocco del mio intestino, accompagnandolo con la mano. Mi lasciai cadere con decisione su di lui ed il cazzo scivolò dentro, non senza procurarmi un leggero dolore, che considerai poca cosa, rispetto al piacere che stavo provando. Complice il fatto che fosse già venuto, durò un sacco prima di venire, al punto che il culo cominciava a dolermi ed i miei movimenti avevano perso la fluidità dell'inizio. Sentii la sborra calda invadermi l'intestino, mentre lui si contorceva, in preda agli spasmi dell'orgasmo.
Mi alzai.
“Vado!” dissi.
“Avevi promesso di fermarti due giorni!”
“Pensavo che avessi cambiato idea!”
“Perché avrei dovuto?”
“Perché ora mi hai scopato!”
“A parte il fatto che intendo farlo ancora, potrei passare 2 giorni qui con te, in questo letto, solo a guardarti.”
Una lacrima birichina scivolò sulla mia guancia. Per non farlo vedere lo abbracciai e, dopo aver ripreso il controllo di me stessa, lo baciai.
“Promettimi che non finirà tutto domani!”
“Se parli di scoparti, intendo farlo ancora a lungo! E...”
“E?”
“Ma solo sesso non mi basta, non da te!”
“Cosa vuoi?”
Mi strinse e mi baciò: era la risposta che attendevo!
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