Palazzo Venezia

di
genere
pulp

Roma, via Papale

stavo girando, trottola impazzita, per i meandri del tetro palazzo, salivo scalette, anche di legno cigolanti, mi inoltravo per cunicoli strettissimi e corridoi non troppo illuminati; inciampai anche un paio di volte se non ricordo male; non so in quante salette sono apparsa, zozzo spettro, aprendo porticine camuffate nei muri.
Non incontravo anima viva, mi ero persa, e gli ambienti sembravano abbandonati, giusto qualche topolino per non farmi sentire sola. Persi pure la cognizione del tempo, non un suono, no un canto. come primo giorno di lezione non ci facevo una bella figura.

Stavo scherzando.

Una cosa però è vera: nel palazzo, che è tutto fuorché tetro, ero entrata da un'altra parte e non mi stavo orientando; c'erano facchini a scaricare casse e botti, stallieri a strigliar cavalli, nitriti e grida e burle; e guardie in abbondanza, non dimentichiamo che fu palazzo papale, e da oltre 60anni ambasciata di Venezia; per non destare sospetti entrai in una stanza a caso del pian terreno, ebbi la fortuna di trovarmi negli ambienti dove lavavano panni e stoffe, una donna, esile e risoluta, mi apostrofò subito in veneto:

"ti, sghiscialaòr! già che stai zozza vai a prendere una gerla di carbone che sta scemando il calore",
"nella stanza accanto, vero?" sperando di scoprirlo,
"perché, di solito te lo porti in camera? muoviti!",
"subito!",

uscii, un raggio di sole s'infilò tagliente fra le arcate del primo piano della loggia, quasi mi abbagliò;
mi ero tranquillizzata e potevo gustarmi quell'angolo di portico a due piani preso di peso dal colosseo; mi concessi di intrecciare lo sguardo seguendo la siepe di bosso, labirinto di rami e foglie messo lì, in mezzo alla corte, per far perdere le tracce di sé ai cattivi pensieri; indugiai sul rosaio, attaccato al muro sotto il cammino di ronda, traboccante di fiori rossi, sui giardinieri, fra cui un bel biondino muscoloso, peccato barbuto, intenti coi mastelli a dissetare la terra e con le forbici a spuntare i bocci ormai sfioriti; mi sentii trasportata in un altro tempo e dentro le ossa di un'altra persona; si dice l'abito non fa il monaco, ma in quel momento non mi stavo sentendo la lupa che ero.

Un urlo animale, nel tappeto di cicale, mi destò.

Corsi alla porta, l'onda di luce penetrò in quella stanza dall'odore di fuliggine e legna, presi una gerla dalla pila, tre badilate e riempii; ero lì per un altro motivo ma sentivo che era giusto eseguire quel comando; uscii col carbone sulle spalle e rientrai in lavanderia;
gli occhi del biondino erano sul mio sedere indicato dalla punta della gerla.

Avevo quasi paura di essere ripresa per il tempo impiegato, nemmeno fossi stata davvero una domestica, invece la veneta si mostrò gentile:

"tusa, sei nuova e ti perdono, ma la prossima volta mettici di meno, datti una pulita alla vasca e vai a cambiare le lenzuola al letto di sua eminenza qui sopra",
"ho visto la scala sotto il portico passo di lì?"
chiesi mentre mi lavavo coll'abito calato ai fianchi,
"la cordonata?! ti xe in mona! quella è per prelati e imbasciatori, ti mettono ai ferri se passi da lì!",
"e da dove?"
domandai ritirando su il vestito,
"la, dietro quella porta, c'è la scaletta che va su diretta in anticamera, prendi le lenzuola sul tavolo e vai svelta, stavolta!",
"torno qui appena fatto?",
ancora oggi non capisco perché mi venne di fare quella domanda e la risposta mi sorpese:
"tusa, per oggi hai fatto; il tuo compito adesso è nelle mani di sua eminenza",
"grazie",
"a domani mattina, un poco prima però",
"non mancherò, con permesso".

mi accarezzò il viso e sentii qualche mugugno dalle altre, chinai il capo con un sorriso, presi i teli e via su per la chiocciola. Ancora una volta arrivò al mio orecchio quel grido d'animale mai sentito prima.

Mi ritrovai in una stanzetta spoglia, solo un comò di fronte e un paio di Savonarola davanti alla finestra aperta; mi affacciai, sotto il cortile, rividi il biondino che, come toccato dal mio sguardo, si voltò di scatto guardandomi e mi salutò con un cenno della mano, mi ritrassi timida; io! finii seduta su una sedia e mi venne di sfiorare il cuscino dell'altra: era caldo.

"buongiorno, vostra eminenza"
salutai riverente, silenzio,
"rinnoviamo questo letto!"
dissi a voce un po' alta, entrando in camera, ma non ricevetti ancora nulla, spalancai le finestre e feci il mio bel lavoretto da cameriera, mi guardavo intorno ma del mio mentore nemmeno l'ombra.
"Eppure" pensavo "mi ha vista arrivare di sicuro, le finestre sono d'angolo e si vedono bene entrambe le vie, poi quel cuscino vermiglio caldo vuol dire che qualcuno s'era alzato da poco". Non avevo ricevuto risposta al mio presentarmi e cominciavo ad inquietarmi.
Iniziai a risalire le stanze in cerca di quell'angolino pieno di libri in cui sarei dovuta essere già da parecchio, varcai la porta e mi trovai in una stanza grande con una nicchia in fondo, seppi dopo che era una cappellina privata; ebbi come la sensazione di una piccola chiesa, rivestita d'arazzi, ma era invece stanza da pranzo, con un lampadario grandissimo pendente sul tavolo ovale, grande anch'esso, circondato da sedie di cuoio quasi medievali, le avevo viste uguali nel palazzo del mio padrone di casa; ma del cardinale nessuna traccia; chiamai ancora, nulla; altra stanza, quadri alle pareti, tavolini, una scacchiera di bronzo faceva bella mostra di sé fra due divanetti, una porta socchiusa sul fondo; bussai, nulla, ribussai, niente, aprii: vidi una scrivania sommersa di fogli, la penna infilata nel calamaio, ma nessuno seduto vista finestra, l'ansia saliva; sulla sinistra una porta aperta, curiosa mi avvicinai e chiesi permesso, il silenzio continuò, mi affacciai:

avevo trovato la biblioteca e sul tavolo quel libro aperto, ero lì per quello e mi sedetti.

Incurante del mondo, iniziai a sfogliarlo, guardavo le lettere che non mi dicevano nulla, mi soffermavo, rapita, sui capolettera fioriti e disegnati, affascinata da tanta maestria; la luce del sole illuminava e la mia ombra si spostava sul pavimento; sette, otto, nove pagine ed un disegno apparì ai miei occhi, bello, colorato, rappresentava le sette ragazze e i tre maschietti nel giardino della villa fiorentina, ebbi la sensazione di averla già vista; mi sforzavo di capire che significassero quelle lettere, ma nulla.
Del cardinale nemmeno lo spettro. Almeno era quello che pensavo, poi un cricchiolio di sedia dietro di me. Mi voltai:

"Eminenza! mi dispiace..."
esordii mogia,
"Ehi! Chiara, ricomincia"
mi riprese sorridendo,
"Federico...",
"bene, dimmi, di cosa ti dispiaci?"
chiese con dolcezza,
"ho tardato e tu mi hai punito non facendoti trovare"
penitente guardai il pavimento,
"non hai tardato. Avevamo detto questa mattina, ma non l'ora; sorprendente"
con una carezza al viso mi sollevò il mento,
"cosa?"
chiesi timorosa,
"la tua voglia di imparare, iniziamo".

prese la sedia e la trascinò accanto alla mia, ci sedemmo, io dal lato del suo cuore; cominciò a leggere seguendo col dito le lettere, pagina dopo pagina tentavo di ripetere le parole, di capirle prima che le dicesse lui, non le azzeccavo nemmeno per sbaglio. Lo guardavo smarrita e mi sorrideva bonario
"è il primo giorno, non pretendere troppo" diceva;

mi prendeva l'indice e gli faceva seguire il tratto, sentivo il calore della sua mano: un tipo di calore umano nuovo, a cui non ero abituata;

d'istinto mi appoggiai al suo petto; mi baciò sulla testa e girò pagina.
Leggemmo, lesse per me, ancora una novella, prima della sua fine rintoccò l'una.

"è già ora di pranzo??! resti qui con me?"
mi chiese allegro,
"accetterei volentieri, ma non è sconveniente?",
"si, certo, ma lo sappiamo solo tu, io e lassù"
indicando il cielo col dito e fissandomi negli occhi,
"vero, così mi emozionate, ehm! mi emozioni",
"non temere, ah! senti il campanello? il pranzo è giunto",

Il cardinale Corner aveva già previsto tutto e il pasto era abbondante anche per due, chiesi se potessi portare alla mia Perla il resto, "sei gentile" disse e fu disposto.

Continuammo la lettura fino alla diciottesima campana, intervallando con qualche chiacchera e qualche gentilezza, al tardo pomeriggio prendemmo una tazza di caffè, non l'avevo mai provato prima ma ne avevo sentito parlare, esclamai un "è buonissimo!" e mi eccitò un po',credo di avergli fatto anche gli occhi dolci, ma non si scompose; alla fine ero migliorata e riuscivo a riconoscere più di dieci lettere, non avevo però ancora capito come funzionava il metterle insieme.
Poi, con la promessa che sarei tornata l'indomani, lo salutai abbracciandolo, rimase sorpreso ma sorrise; scesi la chiocciola, afferrai sul tavolo della lavanderia il pacchetto per Perla e uscii rapida dalla porticina su via Astalli.
Qualche passo in via papale e mi voltai verso il palazzo: era lì in piedi a guardarmi appoggiato alla balaustra del balconcino, non so come gli mandai un bacio e continuai la strada a passo svelto.

Lungo il tragitto rimuginai alle stranezze accadutemi: a cominciare da quel suono e quella veneziana di cui non sapevo nemmeno il nome;
pensavo a quel biondino così solare, dai capelli lunghi, con la barba compatta e curata, a punta lungo la linea del mento; ai suoi occhi turchesi aperti e sinceri; e di colpo mi assalì una vampa di calore, facendomi immaginare le sue mani grandi e forti cingermi i fianchi, sfiorarmi i seni, bramose slacciarmi il grembio e lasciarlo cadere ai piedi; mani poi delicate nel tirare i nastri del vestito e sfilarli dalle asole una ad una, senza fretta;
mi vidi guardarci, sfiorandoci… le dita, la pelle, le labbra; sognavo, ad occhi aperti, vedendo le mie mani sul suo petto accarezzarne i muscoli, coperti dalla ruvida tela, scendere veloci alla cinta, per poi indugiare sulla fibbia e quella striscia di cuoio; immaginai di toccargli il pube e sentirne scossa e fermento, dentro le braghe il crescente desiderio; le sue mani sentivo ricambiare riconoscenti il mio tocco in soavi incursioni sotto le mie stoffe; si impossessò di me il sogno dei suoi baci ancora bocca a bocca, al mio collo, dei nastri che volano via fra le sue dita; vedevo l'abito mio cedere senza più sostegno ed i seni, non più confinati e costretti, mostrare le proprie areole chiare, invitanti come dolcetti il giorno di festa, per essere afferrate e consumate dalle sue labbra e dai suoi teneri morsi; quasi credetti di sentire il tonfo della cinta sul selciato, il prendermi deciso da sotto le cosce, alzarmi le gambe e sbattermi brutalmente spalle al muro, pensai al momento della sua veemenza alla forza nell'assalto all'unica mia ricchezza.

Misi il piede su di una pietra sconnessa e inciampai, per poco non finii in terra.

Persa nei miei pensieri peccaminosi avevo sbagliato strada, allungando un pochino mi ritrovai sul lungotevere e seguii l'argine fino a casa. il Sole stava calando dietro i tetti e il ponentino portava il suo alito fresco di mare.


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scritto il
2021-07-03
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