Surfin' - 3

di
genere
etero

- No, dai - sussurro.

E glielo sussurro in italiano, ma credo che si capisca lo stesso. Lui biascica qualcosa che invece io non capisco e scosta ancora di più le mie mutandine. Voglio dire, non è che abbiamo firmato un contratto o che ne avessimo parlato prima. Ammetto pure che la mia domanda - "non hai un posto dove portarmi?" - potesse prestarsi a diverse interpretazioni. La mia era fargli un bocchino, la sua probabilmente era già un'altra.

- No please, not without a condom...

- I don't come inside - risponde con il suo inglese terribile. Lo sento lì.

E' tutta scena la mia, eh? Non dico che l'ho capito subito, ma il segnale definitivo è stato quando gli ho fatto "are you crazy?" e lui si è messo a ridere afferrandomi il culo, baciandomi. Poi, quando ha slacciato il fiocchetto del mio vestito dietro la schiena, ne ho avuta la certezza. Le maniche sono andate giù da sole, o forse è stato lui, non saprei. Le mie tette si sono offerte quasi spontaneamente alla sua bocca, alle sue mani.

Mi ha appoggiata ad una colonnina, ha spostato il peri e intrufolato un dito commentando qualcosa di gutturale. Ho anche allargato le gambe per agevolarlo. Mentre mugolavo baciandolo gli ho sbottonato i pantaloni e gliel'ho tirato fuori già bello duro. La scarica calda mi ha confermato che a quel punto non volevo nient'altro che quello. Il "no, dai", il bocchino, il preservativo... tutte cazzate. Ho voglia, prendimi trafiggimi, inchiodami da qualche parte. Adesso. Da quant'è che qualcuno non mi chiava semplicemente alzandomi la gonna del vestito e scostandomi le mutandine? Sta cosa mi manda ai matti.

Lo aspetto, mi cerca, colo, mi trova. Mi aggrappo con le mani alle sue spalle. Appoggia e spinge. Non ce l'ha tanto lungo ma è bello largo. Fa un po' di fatica, mi apre. Avverto proprio quella sensazione lì, l'apertura. Scatto con la testa indietro e lancio un urletto. Mi fa "no mess", gli getto le braccia al collo e lo bacio per strillargli in bocca. Sento le sue mani sollevarmi le gambe, farmele allacciare dietro la sua schiena, camminare in qualche direzione. Fai tutto tu, io non capisco più un cazzo. Stesa su un tavolino, benissimo. Con le caviglie appoggiate alle sue clavicole, fantastico. Riprende a spingere come un forsennato. Ripete "no mess". Ok, non faccio casino e mi mordo le labbra, promesso, ma tu continua a martellarmi così, ormai mi hai spalancata. Mantengo la promessa, o quasi.

A raccontare cosa è successo ci vuole poco, anche perché è stato tutto così rapido. Quando sono uscita dal restaurant bar dove lavora Veronica, mi sono ritrovata improvvisamente ad essere la ragazza che vorrei essere sempre. Quella zoccola che a Roma va in giro con le mutandine umide appena uscita di casa. Una troia che ripete tra sé e sé cose che dice solo quando qualcuno le fa spegnere il cervello: voglio solo godere, essere scopata, voglio tanto ripieno da sentirmelo scolare lungo le gambe.

Fuori dal locale di Veronica non sapevo bene che fare, se non camminare. Una cosa però la avvertivo dentro, una domanda. Da quanti giorni è che mi lascio scivolare gli occhi addosso? Da quanto non sostengo lo sguardo di qualcuno magari solo per provocarlo, illuderlo? Da quanto è che non faccio questo gioco? E da quanto tempo non vado a vedere che cosa succederebbe se…?

Mi ero bloccata davanti alla porta di un negozietto che vende roba da surf. Osservavo le magliette, più che altro. Subito dopo però la mia attenzione si è posata su uno che non ho nessun timore a definire figo-della-madonna. Alto, due spalle così, ciuffo biondo, barbetta incolta bionda. Lineamenti splendidi, un modo di fare deciso, a giudicare da come parlava con il commesso. Sfortunatamente, era in compagnia di una sventola rossa che teme ben pochi confronti. A guardarli insieme veniva da cancellare ogni progetto indecente, anzi: veniva proprio da ritirarsi in convento. O, al contrario, immaginarsi in una storia a tre ma come vertice submissive del triangolo. E' durata poco, però. Mi sono specchiata nella vetrina di una tabaccheria lì accanto. Mi sono osservata, piaciuta, ero fregna. La zoccolina perfetta. Come faccio a non piacere? Fisicamente, intendo. Per agevolare gli approcci potrei persino fare finta di essere mezza scema, ho pensato. Mezza scema per finta e tanto troia per davvero. Mica sarebbe stata la prima volta.

E quindi è finita che mi sono cercata un bar un po' fighetto (si fa per dire, da queste parti non è che vadano molto di moda) ho chiesto una birra piccola e ho fatto partire il mio gioco. "Qui è normale vedere donne sole che accettano di bere con qualcuno", mi ha detto Veronica, no? In questa normalità mi sono lasciata abbordare da uno cui ho scroccato due shottini ma senza dargli molto spago, nell'attesa di uno più figo. Lui proprio non lo era e deve esserne consapevole, perché si è ritirato in buon ordine: "Beh vado al tavolo e ordino qualcosa, hai fame?". "No, sei molto gentile ma sono a cena con un'amica".

Quello figo è arrivato un po' dopo. Vitor (o Victor, non ho capito), portoghese, fit-fit-fit che nemmeno Cristiano Ronaldo, viso interessante, abbronzato e con una palizzata di denti bianchi che da soli illuminavano il bar. Inglese tremendo nella pronuncia e nel vocabolario. Dieci minuti per farci un vodka tonic, facendo finta di non avere capito che stava cercando di rimorchiarmi, ridendo e rispondendo “ah davvero?” a tutte le cazzate che mi raccontava. Non una cima, ma figo. Mi sono consegnata spudoratamente al suo corteggiamento, mi eccitava sapere che il tipo che prima mi aveva pagato da bere mi stava osservando, stava guardando un altro prendersi ciò che lui non avrebbe mai avuto. Mi eccitava immaginare che mi stesse dando della puttana.

E poi: "Andiamo fuori a fumarci una sigaretta". L’ho seguito, ci siamo messi accanto all'entrata. "Strano che non sei qui con il tuo fidanzato", "sono qui con un'amica, il ragazzo non ce l'ho". "Questo è strano", "ahahahah sono libera". "Mi piacciono molto le italiane". Deve essere uno che in quanto a geografia sarebbe capace di dire pure "mi piacciono molto le vietnamite", ho pensato. Ma sticazzi. "Lo dicevo perché sei una ragazza molto bella", ha aggiunto guardandomi la bocca. Ho aperto un po' le labbra, ricambiando lo sguardo dritto sulle sue. Credo che la mia espressione fosse un po' tipo "baciami scemo, ché abbiamo pure perso troppo tempo e non sai nemmeno che fortuna che hai avuto". Lui l'ha compresa esattamente così, e meno male: bacio, poi un altro, infine un terzo un po' più tempestoso. E' stata una limonata indecente e anche lunga, sul marciapiede e appoggiati al muro. Incollati. E a rischio che qualcuno ci vedesse, che vedesse la mia mano passargli una carezza sul pacco dopo che lui mi aveva strizzato una chiappa.

"Conosci un posto dove andare?", "da me è impossibile, da te?", "è un ostello, e poi c'è la mia amica...", "allora vieni con me...". Mi ha presa per la mano e trascinata via quasi correndo, l'ho seguito zompettandogli dietro e ridacchiando quasi istericamente. E' il mio punto debole, lo so. Mi viene sempre da farlo quando qualcuno mi forza un po’. Ci siamo ribaciati e ho affondato il colpo della perfetta cretina andata via di testa per un bellone: "sei sposato, vero?", "non esattamente, è un problema?", "ahahahah no, l'importante è che ti piaccio", "mi piaci moltissimo", "davvero?". Abbiamo limonato ancora in una stradina un po’ buia e deserta. Mi sono detta “magari qui no, ma se c’è un vicolo qui vicino…”. Invece niente, se non le sue mani – stavolta tutte e due – che mi sollevavano il vestitino e lui che mi baciava abbrancato al mio sedere. Per me sarebbe stato davvero tre-due-uno-pompino, ma no, nulla. Il cazzo mi sono dovuta accontentare di tastarlo un’altra volta da sopra i pantaloni. Stavolta forte, però. Davvero non so cosa mi abbia trattenuta dall'inginocchiarmi lì, in mezzo a quella stradina. Però gli ho sussurrato "voglio succhiartelo". Mi ha trascinata via ancora una volta.

Io avevo perso l'orientamento, lui no. Sbucati al porto si è guardato un po' intorno, c'erano pochissimi e lontani passanti. E' saltato su una barca e mi ha aiutata a salire. Era una specie di yacht, anzi uno yacht, ormeggiato in mezzo ad altre barche. Non enorme ma di quelli con una cabina che sembra un saloncino. Altro non saprei dire, era molto buio. Mi ha fatto segno con il dito di stare zitta.

Ha armeggiato sulla porta, aveva due ante scorrevoli, una volta entrati l'ha richiusa. "La barca non è mica tua, vero?", gli ho chiesto domandandomi se non avessi completamente sbagliato nell'inquadrare il personaggio. "No", ha risposto. "Di un tuo amico...". "No". "Di chi è?". "Non lo so", mi ha detto.

E' stato lì che ho esclamato "are you crazy?", immaginando al contempo sia la polizia che veniva a prelevarci sia l'altra o le altre che ha portato qui prima della sottoscritta. Uno scannatoio abusivo e galleggiante, un posto per quelle come me. Precisamente in quell'istante ho sentito, più di tutto, il bisogno di essere posseduta. Prima che mi si avventasse addosso, che mi baciasse, ho lasciato scivolare giù borsa e giubbino.

Mi accendo una sigaretta seduta davanti a un ristorante vicino al porto. Una delle sue, che mi ha lasciato prima di andar via: "per me è tardi", ha detto. Nessun rimpianto, va benissimo così. Non doveva essere una storia d'amore. Lui cercava una che gli aprisse le gambe davanti, io cercavo uno che mi desse una lezione. E' andata bene Vitor, o Victor. Ci siamo incontrati. Magari non proprio per caso. Aspiro, il fumo fa a pugni con il sapore persistente del suo sperma. Un pomeriggio di pioggia è diventato una bella serata. Un po’ fresca. Ma mi hanno detto che qui è così, piove poco e mai a lungo. Chissà come sarà la festa sulla spiaggia.


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scritto il
2022-01-06
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