Surfin' - 6
di
Browserfast
genere
etero
Cammino a passo lento in mezzo alla strada, accanto a Gretchen. In mezzo a gruppetti di nottambuli ad alto tasso alcolico che ci incrociano o ci sopravanzano gridando "feliz ano!" o "happy new year" o anche "buon anno". Qualche ragazzo ci prova pure senza troppa convinzione. Qualche ragazza guarda la mia mini con invidia o ammirazione. Stiamo tornando al nostro ostello, è ancora buio ma qui albeggia tardi. In fondo sono le sette meno un quarto, mas o meno. E' quel momento che conosco bene in cui il down è già passato e sai che potresti resistere ancora qualche ora senza dormire, ma non ne vale la pena. I party sono finiti, le compagnie si sono sciolte, quello che si doveva fare è stato fatto. Non che non lo sapessi, ma averne la conferma dal vivo è diverso: procedo passo dopo passo con la consapevolezza di avere al mio fianco una zoccola anche più zoccola della sottoscritta. Una consapevolezza divertita e anche un po' preoccupata. Per la terza o quarta volta le ripeto "non dirlo a Veronica, lei non deve saperlo". Gretchen acconsente ridendo ma non so se manterrà la parola, è vanitosa ed esibizionista quando si tratta di queste cose. Ma deve farlo perché, almeno per quanto mi riguarda, l'ha davvero fatta grossa.
Dopo essere stata con Thiago ero tornata da Veronica ancora un po' su di giri. In realtà stava per calare su di me una piccola botta di sonno, ma ancora non potevo saperlo. Le ho chiesto solo dell'acqua. Probabilmente con dell'altro alcol sarei svenuta. Aveva una faccia distrutta anche più della mia, credo. Ha chiesto di essere sostituita al bancone e mi ha fatto "mi fai compagnia per una sigaretta?". E mentre uscivamo mi ha domandato "allora? com'è andata?". Le ho risposto che la fama di Thiago era meritata, tutto sommato, ma che era anche un tipo a posto. "Voglio i dettagli...", mi ha detto scherzando. "Ahahahah non li avrai mai...", le ho risposto. Proprio in quel momento il suo viso si è illuminato: alle mie spalle era apparso quel figo-senza-discussioni di Felipe. Non l'ho nemmeno accesa, la sigaretta. Mi sono allontanata con un "ci vediamo dopo" per lasciarli soli e ho girato l'angolo sfidando il freddo che a quell'ora di notte iniziava a farsi sentire parecchio, almeno per come ero vestita: camicetta, mini e calze. Mi sono andata a sedere sullo stesso muretto dove poco prima io e Thiago ci eravamo fatti le strisce. Ho fumato sfregandomi le mani sulle braccia nude e combattendo contro un paio di fitte e in quel momento ho desiderato davvero un letto caldo.
Nonostante tutto però, sono rientrata nel locale. Veronica era tornata dietro il bancone ma continuava a parlare con Felipe. Dopo avere aspettato che si facesse vivo tutta la sera, ma a questo punto dovrei dire per buona parte della notte, sembrava rinata. Ho scansionato la sala con lo sguardo e alla fine ho visto anche Gretchen. Era seminascosta dietro al nostro istruttore di surf, Patrick, e al suo amico figo. Con loro anche Adèle, la francesina che mi aveva attratta in precedenza. Ma non ero in vena, avevo bisogno di riposarmi almeno un po'. Mi sono andata a cercare una sedia vicino ad un angolo e ho appoggiato la testa su una colonnina d’angolo. Il fracasso di risate, musica, conversazioni fatte a voce più alta del necessario era bestiale. Devo essermi addormentata lo stesso per un po'.
Quando mi sono risvegliata c'era molta meno gente di prima. Veronica e gli altri del locale stavano cominciando a risistemare i tavoli. Gretchen era ancora lì con la francese, Patrick e il suo amico. Da come si attardavano con i bicchieri in mano ho capito che era una cosa che poteva andare per le lunghe e finire chissà come. Se tanto mi dà tanto, mi sono detta, mi sa che all'ostello ci torno da sola. Ho recuperato il mio giubbotto di pelle e ho salutato. Tutto sommato non era stata male come festa di capodanno.
Per strada faceva quasi freddo e girava poca gente, mi sono diretta verso il mare. Non avevo intenzione di farlo e me ne sono accorta poco prima di arrivare là, ma senza pensarci sono praticamente tornata sul luogo del delitto, una piccola rotonda sopra il bar di Thiago. Per un attimo mi è anche dispiaciuto essere andata via da lui in quel modo. Per un attimo l'ho risentito arrancarmi nell'orecchio: “te rompo el culo, chica, te rompo el culo”, con la erre doppia e l’affanno nella voce. Crampetto, sensazione un po' smarrita di solitudine, voglia di stare abbracciata al caldo con qualcuno. Chiunque.
Tornando indietro ho visto un ragazzo semi accasciato su una panchina. Eccone un altro che solo il freddo risveglierà, ho pensato. Ho anche cercato di girare un po' al largo, istintivamente. Non perché temessi chissà cosa ma per non svegliarlo. Non ho potuto tuttavia fare a meno di gettargli un occhio. Era Pepe, il "ragazzino" che qualche ora prima avevo fatto felice con la mia boccuccia. E non dormiva. Mi sono avvicinata con le migliori intenzioni e con la peggiore performance: "Hola Paco, que pasa?". "Pepe", ha risposto. Magnifico, sarei voluta sprofondare. Mi guardava con lo stesso risentimento di prima, quando ballavo con Thiago dopo averlo mollato. Gli ho domandato più volte cosa stesse succedendo, era molto reticente, molto orgoglioso anche. Era difficile intavolare una discussione con il mio ridotto spagnolo ed era anche difficile comprendere tutto quello che mi diceva, ma la sostanza era chiara: mi voleva per sé, si era ingelosito a vedermi con Thiago, a vedermi andar via con lui. Mi ha chiesto con insistenza dove fossimo andati, cosa avessimo fatto. Gli ho mentito dicendo che avevamo fumato una canna e passeggiato sul lungomare. Avrei voluto spiegargli che era semplicemente una festa di capodanno e che quello che era successo nella toilette era stato semplicemente parte della festa, non l’inizio di un grande amore. Non credo che avrebbe capito il mio punto di vista, tuttavia anziché darmi sui nervi mi inteneriva. Non me n’è mai fregato un cazzo di quelli che mi hanno fatto ste scene. Quelli che credono che chissà cosa debba accadere perché ci hai pomiciato o gliel'hai succhiato. Mica Pepe era il primo. Lo so, sono stronza, arida e anaffettiva, tutto quello che volete. Con lui però mi dispiaceva, non mi andava che ci restasse così male. In realtà, per come sono e per come mi sono sempre comportata, quella strana ero io, ma non me ne rendevo conto.
E qui ho fatto la prima cosa che non avrei dovuto fare: salire a cavallo delle sue gambe e mettergli le mani sulle spalle per costringerlo a guardarmi. Era proprio in loop. Ci sarò stata dieci minuti buoni a parlare, a cercare di calmarlo, ad aspettare che sfogasse il suo amor proprio nelle lacrime che gli rigavano viso ma che lui fingeva di ignorare. Gli sussurravo parole in italiano, perché in spagnolo proprio non mi veniva in mente nulla che valesse la pena di dire, ma credo che il senso fosse chiaro lo stesso.
La seconda cosa che non avrei dovuto fare è stata prendergli la faccia tra le mani e guardarlo negli occhi, dirgli di non piangere più. Come sia passata dall'asciugargli le lacrime con i baci a infilargli la lingua in bocca non saprei dire, ma comunque era una cosa che avevamo fatto poche ore prima ed è uscita così, quasi spontanea. Per un po' siamo andati avanti a baciarci e ai rari passanti saremo parsi a tutti gli effetti due ragazzi al pomicio. Le mie braccia al suo collo, le sue mani sotto la mini, ai lati delle cosce, a cercare di capirci qualcosa delle mie calze, immagino, tra le porzioni di pelle nuda e le strisce di nylon. Era una semplice limonata, nemmeno tanto furiosa, anzi. Tuttavia dopo un po’ ha iniziato a diventare qualcosa di diverso: mi sono tirata giù la zip del giubbotto e gli ho detto di toccarmi. Aveva le mani fredde e le ho sentite ancora più fredde quando le ha messe sotto la camicetta e poi ancora sotto il reggiseno. Mi ha strizzato le tette fino a farmi male, gli ho sospirato "asì me duele" ma ho ripreso subito a baciarlo. Quelle mani fredde sono passate sulle cosce, sul culo, sono ritornate sulle tette mentre le nostre lingue hanno preso a cercarsi e a intrecciarsi quasi con rabbia. Poi una mano è scesa giù, tra le gambe, ha indugiato, Pepe ha fatto un'espressione strana. Mi è venuto in mente quando un mio compagno di classe fece la stessa cosa e mi disse che sembrava che me la fossi fatta addosso. "Estoy excitada", gli ho sorriso. Che lo fosse anche lui non avevo dubbi, ma solo a quel punto mi ha infilato la mano nelle mutandine. Con foga, troppa foga. Proprio mentre gli dicevo "espera, espera" e cercavo di frenarlo, di governarlo, ha trovato il mio ingresso e mi ha infilzata con un dito. Ancora una volta mi ha fatto male, ma ancora una volta era quel tipo di dolore che accetti perché sai che immediatamente dopo c'è il piacere. Non sembravamo più due ragazzi che pomiciavano, penso, chi ci avesse visti avrebbe senz'altro capito, e anzi credo che qualcuno ci abbia proprio visti. Pepe era troppo sbroccato per farci caso, io al pensiero mi sono anche eccitata di più.
E' stato in quel momento che gli ho detto che volevo davvero che mi facesse male, avevo allo stesso tempo paura e voglia che mi sventrasse. Molto più che Thiago in precedenza – e molto più che tante altre volte – mi sono sentita davvero una troia. Perché era lui, il “ragazzino”, uno che probabilmente non sapeva bene nemmeno quello che stava facendo. Il suono dello sciacquettio dentro di me mi ha definitivamente fatta uscire di testa, volevo solo arrivare a godere. L'ho incoraggiato a non fermarsi e ho risposto "sì" alle infinite volte in cui mi ha chiesto "te gusta?". Gli ho piagnucolato che mi faceva impazzire, l'ho implorato di farmi venire, gli ho annunciato "eccomi, eccomi!", ho offerto le mie mani sotto la sua felpa e le mie unghie che gli segnavano la pelle, lo spettacolo del mio corpo che ha iniziato a tremargli addosso subito dopo aver gridato "godo!" alle stelle. E appena ho potuto gli ho dato un lunghissimo e passionale bacio di ringraziamento.
Me ne sono andata troppo in fretta, con la testa che mi girava ancora e contraddicendo le attenzioni che gli avevo riservato fino a quel momento. Ma ho avuto improvvisamente voglia di non essere più lì, di essere in un altro posto. Una cosa da matta, irrazionale. Ma come era irrazionale tutto quello che avevamo fatto. Lui avrebbe voluto altro, immagino. Nonostante la scarsa luce il bozzo tra le sue gambe era abbastanza evidente. Forse sperava in un altro pompino, forse in qualcosa di più. E confesso che per un attimo, ma solo un attimo, l'idea di rimettermi a cavalcioni su di lui e di farlo entrare chiedendogli se fosse la primera vez mi ha attraversato la mente. Ma mi sono allontanata velocemente senza che lui avesse nemmeno il tempo o la forza di chiamarmi.
Dopo un centinaio di metri mi sono invece sentita chiamare da chi proprio non mi sarei aspettata. Avrei riconosciuto la voce ma prima di tutto ho riconosciuto la pronuncia di quell' "Annalisa, Annalisa!". Ho atteso che Gretchen attraversasse la strada per raggiungermi e prima che mi arrivasse a fianco le ho detto che pensavo che l’avrei rivista molto più tardi. Lei, Adèle, Patrick e il suo amico mi sembravano parecchio affiatati, in fondo. Ha fatto spallucce in modo un po’ ambiguo, poi mi ha abbracciata per un fianco e abbiamo iniziato a camminare in silenzio. “Ti sei divertita?”, mi ha chiesto dopo un po’. Le ho risposto “abbastanza, tu?”, ma non mi ha neanche risposto.
Non avevo voglia di farle il consuntivo della serata, che le avrei potuto dire? “Uh, sì, vediamo: ho fatto un pompino, mi sono beccata due ditalini e… ah sì, uno mi ha anche fatto il culo”? Così mi sono inventata che quando lei era sparita per la prima volta mi sono aggregata a un gruppo di ragazzi e ragazze e abbiamo fatto un po’ di casino ballando, bevendo, facendoci le canne e girando altri due o tre locali.
E quindi eccoci qui, io e Gretchen, a ritornare a passo lento verso l’ostello mentre lei mi chiede che fine abbia fatto quel “ragazzino” con cui mi aveva vista ballare. Ostento una risata che certo non mi esce spontanea e la rafforzo con un “come on…”. Di colpo ho l’impressione che abbia atteso apposta a raccontarmi della sua serata. Ormai la conosco, so che le piace sorprendere.
Improvvisamente, e rompendo diversi secondi di silenzio scanditi solo dal rumore dei nostri tacchi sull’asfalto, mi domanda se so cosa sia uno "spit roast". A me pare di non averlo mai sentito prima, ma la traduzione non è così difficile. E' il contesto, piuttosto, che mi suggerisce che la mia traduzione non è quella giusta. Volto il viso verso di lei, sorridendo. Credo che sia evidente l'ironia e la curiosità, evidente il mio tacito "dici sul serio?". Gretchen non mi restituisce lo sguardo, anzi indirizza ostentatamente il suo avanti a sé, ma sulle labbra le si disegna un sorrisetto. In condizioni normali anche quello sarebbe un sorrisetto ironico. Nella situazione data, invece, mi sembra una delle cose più oscene che abbia mai visto.
- E sai chi era uno dei due? - domanda.
- No - le dico, anche se un'idea ce l'ho.
- Quello cui la tua amica cameriera muore dietro, Felipe - risponde - ha un cazzo così...
Fa pure il gesto, che magari in mezzo alla strada potrebbe risultare sconveniente. Fortunatamente si vede poco e non c'è quasi nessuno. Ok, la mia idea era sbagliata anche se solo fino a un certo punto, perché l’altro era quello cui pensavo, Patrick, il nostro istruttore. Però se c'è una cosa di cui me ne frega proprio poco in questo momento sono le convenienze e le mie idee. La voce mi scatta come se scattasse un allarme.
- Davvero? - domando.
- Uh uh...
- Cazzo, Gretchen, Veronica non lo dovrà sapere mai, mai, capito?
- E perché dovrei dirglielo?
- Perché... perché non lo so, certe cose possono scappare...
- Era tanto che lo volevo fare – aggiunge quasi come se parlasse tra sé e sé – ma non immaginavo che sarebbe stata una cosa così… così folle.
CONTINUA
Dopo essere stata con Thiago ero tornata da Veronica ancora un po' su di giri. In realtà stava per calare su di me una piccola botta di sonno, ma ancora non potevo saperlo. Le ho chiesto solo dell'acqua. Probabilmente con dell'altro alcol sarei svenuta. Aveva una faccia distrutta anche più della mia, credo. Ha chiesto di essere sostituita al bancone e mi ha fatto "mi fai compagnia per una sigaretta?". E mentre uscivamo mi ha domandato "allora? com'è andata?". Le ho risposto che la fama di Thiago era meritata, tutto sommato, ma che era anche un tipo a posto. "Voglio i dettagli...", mi ha detto scherzando. "Ahahahah non li avrai mai...", le ho risposto. Proprio in quel momento il suo viso si è illuminato: alle mie spalle era apparso quel figo-senza-discussioni di Felipe. Non l'ho nemmeno accesa, la sigaretta. Mi sono allontanata con un "ci vediamo dopo" per lasciarli soli e ho girato l'angolo sfidando il freddo che a quell'ora di notte iniziava a farsi sentire parecchio, almeno per come ero vestita: camicetta, mini e calze. Mi sono andata a sedere sullo stesso muretto dove poco prima io e Thiago ci eravamo fatti le strisce. Ho fumato sfregandomi le mani sulle braccia nude e combattendo contro un paio di fitte e in quel momento ho desiderato davvero un letto caldo.
Nonostante tutto però, sono rientrata nel locale. Veronica era tornata dietro il bancone ma continuava a parlare con Felipe. Dopo avere aspettato che si facesse vivo tutta la sera, ma a questo punto dovrei dire per buona parte della notte, sembrava rinata. Ho scansionato la sala con lo sguardo e alla fine ho visto anche Gretchen. Era seminascosta dietro al nostro istruttore di surf, Patrick, e al suo amico figo. Con loro anche Adèle, la francesina che mi aveva attratta in precedenza. Ma non ero in vena, avevo bisogno di riposarmi almeno un po'. Mi sono andata a cercare una sedia vicino ad un angolo e ho appoggiato la testa su una colonnina d’angolo. Il fracasso di risate, musica, conversazioni fatte a voce più alta del necessario era bestiale. Devo essermi addormentata lo stesso per un po'.
Quando mi sono risvegliata c'era molta meno gente di prima. Veronica e gli altri del locale stavano cominciando a risistemare i tavoli. Gretchen era ancora lì con la francese, Patrick e il suo amico. Da come si attardavano con i bicchieri in mano ho capito che era una cosa che poteva andare per le lunghe e finire chissà come. Se tanto mi dà tanto, mi sono detta, mi sa che all'ostello ci torno da sola. Ho recuperato il mio giubbotto di pelle e ho salutato. Tutto sommato non era stata male come festa di capodanno.
Per strada faceva quasi freddo e girava poca gente, mi sono diretta verso il mare. Non avevo intenzione di farlo e me ne sono accorta poco prima di arrivare là, ma senza pensarci sono praticamente tornata sul luogo del delitto, una piccola rotonda sopra il bar di Thiago. Per un attimo mi è anche dispiaciuto essere andata via da lui in quel modo. Per un attimo l'ho risentito arrancarmi nell'orecchio: “te rompo el culo, chica, te rompo el culo”, con la erre doppia e l’affanno nella voce. Crampetto, sensazione un po' smarrita di solitudine, voglia di stare abbracciata al caldo con qualcuno. Chiunque.
Tornando indietro ho visto un ragazzo semi accasciato su una panchina. Eccone un altro che solo il freddo risveglierà, ho pensato. Ho anche cercato di girare un po' al largo, istintivamente. Non perché temessi chissà cosa ma per non svegliarlo. Non ho potuto tuttavia fare a meno di gettargli un occhio. Era Pepe, il "ragazzino" che qualche ora prima avevo fatto felice con la mia boccuccia. E non dormiva. Mi sono avvicinata con le migliori intenzioni e con la peggiore performance: "Hola Paco, que pasa?". "Pepe", ha risposto. Magnifico, sarei voluta sprofondare. Mi guardava con lo stesso risentimento di prima, quando ballavo con Thiago dopo averlo mollato. Gli ho domandato più volte cosa stesse succedendo, era molto reticente, molto orgoglioso anche. Era difficile intavolare una discussione con il mio ridotto spagnolo ed era anche difficile comprendere tutto quello che mi diceva, ma la sostanza era chiara: mi voleva per sé, si era ingelosito a vedermi con Thiago, a vedermi andar via con lui. Mi ha chiesto con insistenza dove fossimo andati, cosa avessimo fatto. Gli ho mentito dicendo che avevamo fumato una canna e passeggiato sul lungomare. Avrei voluto spiegargli che era semplicemente una festa di capodanno e che quello che era successo nella toilette era stato semplicemente parte della festa, non l’inizio di un grande amore. Non credo che avrebbe capito il mio punto di vista, tuttavia anziché darmi sui nervi mi inteneriva. Non me n’è mai fregato un cazzo di quelli che mi hanno fatto ste scene. Quelli che credono che chissà cosa debba accadere perché ci hai pomiciato o gliel'hai succhiato. Mica Pepe era il primo. Lo so, sono stronza, arida e anaffettiva, tutto quello che volete. Con lui però mi dispiaceva, non mi andava che ci restasse così male. In realtà, per come sono e per come mi sono sempre comportata, quella strana ero io, ma non me ne rendevo conto.
E qui ho fatto la prima cosa che non avrei dovuto fare: salire a cavallo delle sue gambe e mettergli le mani sulle spalle per costringerlo a guardarmi. Era proprio in loop. Ci sarò stata dieci minuti buoni a parlare, a cercare di calmarlo, ad aspettare che sfogasse il suo amor proprio nelle lacrime che gli rigavano viso ma che lui fingeva di ignorare. Gli sussurravo parole in italiano, perché in spagnolo proprio non mi veniva in mente nulla che valesse la pena di dire, ma credo che il senso fosse chiaro lo stesso.
La seconda cosa che non avrei dovuto fare è stata prendergli la faccia tra le mani e guardarlo negli occhi, dirgli di non piangere più. Come sia passata dall'asciugargli le lacrime con i baci a infilargli la lingua in bocca non saprei dire, ma comunque era una cosa che avevamo fatto poche ore prima ed è uscita così, quasi spontanea. Per un po' siamo andati avanti a baciarci e ai rari passanti saremo parsi a tutti gli effetti due ragazzi al pomicio. Le mie braccia al suo collo, le sue mani sotto la mini, ai lati delle cosce, a cercare di capirci qualcosa delle mie calze, immagino, tra le porzioni di pelle nuda e le strisce di nylon. Era una semplice limonata, nemmeno tanto furiosa, anzi. Tuttavia dopo un po’ ha iniziato a diventare qualcosa di diverso: mi sono tirata giù la zip del giubbotto e gli ho detto di toccarmi. Aveva le mani fredde e le ho sentite ancora più fredde quando le ha messe sotto la camicetta e poi ancora sotto il reggiseno. Mi ha strizzato le tette fino a farmi male, gli ho sospirato "asì me duele" ma ho ripreso subito a baciarlo. Quelle mani fredde sono passate sulle cosce, sul culo, sono ritornate sulle tette mentre le nostre lingue hanno preso a cercarsi e a intrecciarsi quasi con rabbia. Poi una mano è scesa giù, tra le gambe, ha indugiato, Pepe ha fatto un'espressione strana. Mi è venuto in mente quando un mio compagno di classe fece la stessa cosa e mi disse che sembrava che me la fossi fatta addosso. "Estoy excitada", gli ho sorriso. Che lo fosse anche lui non avevo dubbi, ma solo a quel punto mi ha infilato la mano nelle mutandine. Con foga, troppa foga. Proprio mentre gli dicevo "espera, espera" e cercavo di frenarlo, di governarlo, ha trovato il mio ingresso e mi ha infilzata con un dito. Ancora una volta mi ha fatto male, ma ancora una volta era quel tipo di dolore che accetti perché sai che immediatamente dopo c'è il piacere. Non sembravamo più due ragazzi che pomiciavano, penso, chi ci avesse visti avrebbe senz'altro capito, e anzi credo che qualcuno ci abbia proprio visti. Pepe era troppo sbroccato per farci caso, io al pensiero mi sono anche eccitata di più.
E' stato in quel momento che gli ho detto che volevo davvero che mi facesse male, avevo allo stesso tempo paura e voglia che mi sventrasse. Molto più che Thiago in precedenza – e molto più che tante altre volte – mi sono sentita davvero una troia. Perché era lui, il “ragazzino”, uno che probabilmente non sapeva bene nemmeno quello che stava facendo. Il suono dello sciacquettio dentro di me mi ha definitivamente fatta uscire di testa, volevo solo arrivare a godere. L'ho incoraggiato a non fermarsi e ho risposto "sì" alle infinite volte in cui mi ha chiesto "te gusta?". Gli ho piagnucolato che mi faceva impazzire, l'ho implorato di farmi venire, gli ho annunciato "eccomi, eccomi!", ho offerto le mie mani sotto la sua felpa e le mie unghie che gli segnavano la pelle, lo spettacolo del mio corpo che ha iniziato a tremargli addosso subito dopo aver gridato "godo!" alle stelle. E appena ho potuto gli ho dato un lunghissimo e passionale bacio di ringraziamento.
Me ne sono andata troppo in fretta, con la testa che mi girava ancora e contraddicendo le attenzioni che gli avevo riservato fino a quel momento. Ma ho avuto improvvisamente voglia di non essere più lì, di essere in un altro posto. Una cosa da matta, irrazionale. Ma come era irrazionale tutto quello che avevamo fatto. Lui avrebbe voluto altro, immagino. Nonostante la scarsa luce il bozzo tra le sue gambe era abbastanza evidente. Forse sperava in un altro pompino, forse in qualcosa di più. E confesso che per un attimo, ma solo un attimo, l'idea di rimettermi a cavalcioni su di lui e di farlo entrare chiedendogli se fosse la primera vez mi ha attraversato la mente. Ma mi sono allontanata velocemente senza che lui avesse nemmeno il tempo o la forza di chiamarmi.
Dopo un centinaio di metri mi sono invece sentita chiamare da chi proprio non mi sarei aspettata. Avrei riconosciuto la voce ma prima di tutto ho riconosciuto la pronuncia di quell' "Annalisa, Annalisa!". Ho atteso che Gretchen attraversasse la strada per raggiungermi e prima che mi arrivasse a fianco le ho detto che pensavo che l’avrei rivista molto più tardi. Lei, Adèle, Patrick e il suo amico mi sembravano parecchio affiatati, in fondo. Ha fatto spallucce in modo un po’ ambiguo, poi mi ha abbracciata per un fianco e abbiamo iniziato a camminare in silenzio. “Ti sei divertita?”, mi ha chiesto dopo un po’. Le ho risposto “abbastanza, tu?”, ma non mi ha neanche risposto.
Non avevo voglia di farle il consuntivo della serata, che le avrei potuto dire? “Uh, sì, vediamo: ho fatto un pompino, mi sono beccata due ditalini e… ah sì, uno mi ha anche fatto il culo”? Così mi sono inventata che quando lei era sparita per la prima volta mi sono aggregata a un gruppo di ragazzi e ragazze e abbiamo fatto un po’ di casino ballando, bevendo, facendoci le canne e girando altri due o tre locali.
E quindi eccoci qui, io e Gretchen, a ritornare a passo lento verso l’ostello mentre lei mi chiede che fine abbia fatto quel “ragazzino” con cui mi aveva vista ballare. Ostento una risata che certo non mi esce spontanea e la rafforzo con un “come on…”. Di colpo ho l’impressione che abbia atteso apposta a raccontarmi della sua serata. Ormai la conosco, so che le piace sorprendere.
Improvvisamente, e rompendo diversi secondi di silenzio scanditi solo dal rumore dei nostri tacchi sull’asfalto, mi domanda se so cosa sia uno "spit roast". A me pare di non averlo mai sentito prima, ma la traduzione non è così difficile. E' il contesto, piuttosto, che mi suggerisce che la mia traduzione non è quella giusta. Volto il viso verso di lei, sorridendo. Credo che sia evidente l'ironia e la curiosità, evidente il mio tacito "dici sul serio?". Gretchen non mi restituisce lo sguardo, anzi indirizza ostentatamente il suo avanti a sé, ma sulle labbra le si disegna un sorrisetto. In condizioni normali anche quello sarebbe un sorrisetto ironico. Nella situazione data, invece, mi sembra una delle cose più oscene che abbia mai visto.
- E sai chi era uno dei due? - domanda.
- No - le dico, anche se un'idea ce l'ho.
- Quello cui la tua amica cameriera muore dietro, Felipe - risponde - ha un cazzo così...
Fa pure il gesto, che magari in mezzo alla strada potrebbe risultare sconveniente. Fortunatamente si vede poco e non c'è quasi nessuno. Ok, la mia idea era sbagliata anche se solo fino a un certo punto, perché l’altro era quello cui pensavo, Patrick, il nostro istruttore. Però se c'è una cosa di cui me ne frega proprio poco in questo momento sono le convenienze e le mie idee. La voce mi scatta come se scattasse un allarme.
- Davvero? - domando.
- Uh uh...
- Cazzo, Gretchen, Veronica non lo dovrà sapere mai, mai, capito?
- E perché dovrei dirglielo?
- Perché... perché non lo so, certe cose possono scappare...
- Era tanto che lo volevo fare – aggiunge quasi come se parlasse tra sé e sé – ma non immaginavo che sarebbe stata una cosa così… così folle.
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