Lavinia (rivisitazione de La la Terra Promessa)

di
genere
saffico

Genova 1920
Carica di una piccola valigia e di tanti sogni decisi finalmente, all'età di ventuno anni, di comprare un biglietto di sola andata per l'America. Tanti i motivi che mi spinsero a questo passo gigantesco e definitivo; parola dura, spigolosa quest'ultima, anche se mai pronunciata ai miei genitori, a loro la risparmiai, dissi che volevo mettere a frutto i miei studi e diventare insegnante in quel continente, e magari trovarmi un marito. Piccole bugie per indorare la pillola dell'addio, non era infatti nei miei orizzonti far la maestra, nè tanto meno cercarmi un uomo, il mio vero ed unico sogno era quello di scrivere.
Quella mattina li abbracciai promettendo loro di scrivergli non appena arrivata e mi diressi al porto dove il piroscafo Conte Biancamano sarebbe salpato sul far del mezzogiorno con il suo carico di esuli e di un manciata di signori da 1° classe, i cui motivi per intraprendere un tale scomodo viaggio mi sfuggivano, ma erano solo gli interrogativi di una ragazza che nulla sapeva del mondo se non il fatto che l'attendevano quasi due settimane in mezzo al mare. Salita a bordo trovai alloggio su una brandina del dormitorio riservato a donne e bambini, viso triste le prime, urlanti i secondi. Io non ero triste, inconsapevole sì, ma per la prima volta nella vita mi sentivo libera, e come quei bambini avrei urlato per quell'ebbrezza che solo la libertà di poter governare la propria vita sa donare.
Aprii la mia valigia, la cartelletta in essa contenuta, e da quest'ultima un foglio da scrittura su cui annotare gli appunti di viaggio, un po' per passione verso la penna e un po' per spirito di sopravvivenza.
Nemmeno mi accorsi che nel frattempo la nave aveva preso il largo, alzai lo sguardo e della mia Genova potei guardarne solo la sagoma distesa ai piedi delle colline, con la lanterna a farle da guardia. Chissà se e quando, al pari dei miei vecchi, l'avrei più rivista.
Ma quello era già il passato, mentre io ero proiettata mentalmente in quello che mi avrebbe riservato il futuro, ma anche quel presente, fatto di donne tristi e bambini urlanti.
Verso sera mi alzai e feci due passi sul ponte, non ero mai stata in mare aperto e quella vastità mi dette un brivido. Su una barca sì, una bellissima barca di una gran signora di Rapallo che ogni due settimane veniva con quel suo natante a prelevarmi pagandomi profumatamente per dare lezioni private al suo figliolo, mai seppe il ragazzo che in realtà la sua premurosa madre si fermava in mezzo al mare per iniziare la sottoscritta alle delizie di Saffo, sentiero intrapreso per mano (ma soprattutto lingua) sua, e mai più abbandonato, ma anche lei è il passato.
Il futuro si chiamava Malaga, al cui porto saremmo approdati per un breve scalo la mattina successiva, e dove altri esuli in cerca di fortuna oltre oceano ed un'altra manciata di damas y caballeros dalle vesti di seta e lino della buona borghesia del regno si sarebbero imbarcati.
Continuai a gironzolare per la nave avventurandomi nel settore dei gran signori spinta dalla curiosità, e già avvertendo nell'aria la differenza del censo, dall'olezzo di noi ammassati là sotto passai all'effluvio di chypre di Coty, gli occhi sferzati dalle luci e la musica di un'orchestra mi accarezzò le orecchie, coppie che danzavano all'interno e altre scambiarsi effusioni sul ponte, camminai tra loro quasi fossi un fantasma, quando ad un tratto vidi una donna appoggiata al parapetto della nave, una collana di perle penzolarle fin quasi a lambirle l'ombelico, i capelli sciolti mossi dal vento ed un abito blu di cui intravidi solo la gonna frangiata, un cardigan grigio per coprirsi le spalle dal vento di mare, sicuramente prestatole da qualcuno visto l'abbinamento cromaticamente impossibile dei due capi.
Sembrava assorta in chissà quali pensieri, l'unico suo movimento era il giocare a scalzarsi una scarpa, appoggiare il piede nudo dietro l'altra caviglia per poi calzarla nuovamente, gesto che a me parve una danza. Mi sedetti su una panchina quel tanto che bastò per godere della vista di quel piede danzante e, come se si fosse sentita osservata si voltò, mi sorrise, e vedendomi con un foglio ed una penna mi chiese se io fossi una ritrattista, risi e le risposi di no: "annoto solo quello che mi accade intorno, e possibilmente solo le cose belle, come la danza vista pochi secondi fa", buttò un occhio alla sala da ballo per cercare chi o cosa avesse attirato la mia attenzione, le sorrisi: "era un ballerino molto attraente ma è tornato nella sua cuccetta".
"Di sicuro era il mio Rodolfo, vi auguro buon viaggio signorina"
Avrei voluto mordermi la lingua, ma riflettendoci a posteriori non avrei avuto nessuna possibilità di gareggiare con il bel Rodolfo, e in tutta onestà alla mia lingua ci tenevo.
Tornai sui miei passi decisa a riposare un poco, da lì a qualche ora saremmo stati in vista di Malaga, e per nulla al mondo mi sarei persa la vista del castello di Gibralfaro stagliarsi all'orizzonte, né tanto meno la salita sulle passerelle dei nuovi viaggiatori, ma soprattutto delle viaggiatrici.
Fu il suono prolungato e baritonale della nave a farmi svegliare di
soprassalto. Alzai lo sguardo e vidi nitide le mura del castello che
sovrastava la città andalusa. In tempo a mezz'ora la nave attraccò e
una volta distese le passerelle una fila di persone stava già
disciplinatamente mettendosi in coda per salire a bordo.
Mi misi ad osservarle e mi accorsi che a pochi metri da me c'era la
donna che poche ore prima avevo incontrato sul ponte. Stava abbracciando un uomo nei modi struggenti e tipici di chi si sta salutando per non vedersi più per molto tempo. Pensai che fosse lei
a congedarsi da lui e a scendere a terra, ma con mia grande sorpresa
fu invece lui, valigia in spalla, ad avviarsi verso la passerella e a
scendere dalla nave. Lei rimase a lungo a seguire con lo sguardo il
suo uomo dileguarsi ed infine scomparire. Non ebbi l'impressione
che fosse particolarmente commossa da da quel distacco, la vidi
perfino sorridere non appena si voltò per ritornare verso la scala
interna che portava agli alloggi di 1°classe.
Durò circa un'ora quella sosta, dopo di che la nave, una volta mollati
gli ormeggi, riprese il mare in direzione ovest; lo stretto di Gibilterra
e da lì il grande oceano.
Mi fermai a pranzare con le donne ed i bambini con cui fin dalla mia
partenza avevo familiarizzato. Erano per lo più piemontesi e della
bassa lombarda, alcune liguri dell'entroterra, ed era piacevole la
loro compagnia, ma il mio pensiero correva alla donna del ponte;
senza il suo bel Rodolfo chissà, avrei avuto la possibilità di conoscerla
meglio. Occasione questa che si ripresentò nel primo pomeriggio,
quando passeggiando nei pressi del ponte dove la incontrai la sera
precedente la vidi seduta sulla stessa panchina da cui la guardai fare
la danza del piedino.
Alzò lo sguardo e mi riconobbe:

“oh ecco la ragazza che scrive pensieri”.

Le sorrisi e mi sedetti accanto a lei, ci presentammo e mi disse di chiamarsi Lavinia.
Sulla quarantina, un viso meraviglioso che la sera prima, vuoi per l'oscurità e a causa della fugacità del nostro incontro non avevo
notato. Mi disse di essersi imbarcata anche lei a Genova, di essere
sposata ad un uomo che trattava di spedizioni di merci tra Spagna
e Italia e di essere diretta a New York a trovare i suoi genitori da
anni residenti laggiù.

“E voi mia giovane amica per quali ragioni intraprendete un viaggio
di questo genere, siete da sola?”

“Sì Lavinia, viaggio da sola, la mia unica compagnia sono i sogni e
le ambizioni”

“siete molto coraggiosa Valeria, e sarei felice se mi permetteste di aggiungermi come terza, il viaggio sarà lungo e gioverà anche a me condividerlo con qualcuno”.
Accettai con un sorriso che quasi oscurò il sole. Mi chiese poi dove fossi alloggiata ed ebbe una smorfia di disappunto quando glielo dissi:
“ascoltatemi mia giovane amica, mio marito è sbarcato a Malaga e il mio alloggio è sufficientemente comodo, gradirei molto ospitarvi se non avete nulla in contrario”.
A sentire quell'invito il sole si eclissò del tutto, la sua luce ed il suo calore si erano trasferiti di colpo dentro di me.
Le dissi di attendermi lì e quasi volai a prendere le mie cose, salutai e abbracciai le mie compagne di viaggio e ognuno dei loro bambini per poi tornare da Lavinia. Ci dirigemmo verso la sua cabina e quando aprì la porta mi parve di entrare in una reggia: un divanetto di raso rosso all'entrata, alcuni quadri con soggetti marinareschi alle pareti, e poco oltre una tenda a separare il vano notte composto da due letti da una piazza. Ma quello che mi lasciò a bocca aperta fu vedere i servizi, soprattutto una vasca da bagno, e Dio solo sa di quanto ne avessi bisogno. Lavinia si accorse del mio stupore:
“Valeria sentitevi pure libera di farvi un bel bagno caldo, nel frattempo io manderò i vostri abiti in lavanderia e ve ne darò uno dei miei”.
Non me lo feci ripetere due volte; mi spogliai mentre lei aprì il rubinetto dell'acqua calda, vi versò dei sali profumati di gelsomino e mi immersi in quello che mi parve il paradiso. Lei raccolse i miei vestiti ma si limitò a posarli sul letto, mi accorsi che le piaceva leggermi sul volto la gioia che provavo in quel momento, e a me piaceva da morire essere guardata da lei. Avrei voluto chiederle di unirsi a me, ma non volli spingermi fino a quel punto, ero sicura che lei fosse mossa solo da gentilezza unita ad un filo di compassione quasi materna.
“Bene amica mia, vi lascio sola e porto i vostri abiti in lavanderia, di lato al mio letto c'è un piccolo armadio, sentitevi libera di prendere uno dei miei vestiti quando avrete terrminato”.
Quando tornò mi trovò ancora immersa e mezza addormentata, l'acqua era ormai quasi fredda e fu lei ad avvicinarsi porgendomi un telo di lino. Mi alzai e mi coprii, ma notai il suo sguardo indugiare sul mio seno, si voltò, come a dissimulare l'eccessiva curiosità:
“su su Valeria, venite a prendere un vestito”.
Lo scelse lei per me:
“questo si adatterà su di voi alla perfezione per la serata mia graziosa amica”.
“vi prego, ripetetemi quell'aggettivo Lavinia..”
”graziosa...non ve lo hanno mai detto prima d'ora? Nessun giovanotto che abbia avuto la fortuna di avervi vicina come lo sono io in questo momento ve lo ha mai sussurrato?”
“è che non sono mai stata interessata ai complimenti maschili”.
Sentii le sue labbra accostarsi ad una delle mie orecchie:
“sei bella da togliermi il fiato Valeria”.
Nel dirmelo mi fece cadere il telo e mi sfiorò un seno, mi voltai a guardarla e la sua bocca era già sulla mia, la mia anima in tumulto ed il mio cuore quasi a scoppiarmi nel petto. La baciai iniziando a spogliarla a mia volta, le nostre lingue a cercarsi avide e ad intrecciarsi. Finimmo distese sul letto senza staccarci l'una dalle labbra dell'altra. Il contatto fu bruciante, i nostri sensi ne furono travolti. Non avemmo riguardi o tenerezze: “scopami!”, mi sussurrò mordendomi un lobo. Ed il suo ventre incalzò sempre di più quell'invocazione, il mio crescente fremito, il sudore di entrambe. Fummo come seta e creta, plasmando forme impossibili, sogni che presero corpo, l'esatta congiunzione e il desiderio di entrambe realizzato. Danzai con il mio ventre verso di lei e le nostre dita affondate in noi, e mi raggiunse con i suoi colpi ad un ritmo preciso, mentre le nostre lingue inseparabili si scambiavano fili argentei che ad entrambe parvero miele.
Rimanemmo a guardarci disegnando immaginari ghirigori l'una sul viso dell'altra e baciandoci sulla fronte umida di sudore, il respiro di entrambe a rallentare, così come i battiti dei nostri cuori. Ritornò con la memoria a quel primo nostro fugace incontro sul ponte:
“tutt'ora mi chiedo chi fosse quel ballerino così attraente di cui mi parlasti, Rodolfo no di sicuro perchè lo trovai dormire profondamente esattamente sul letto in cui siamo adesso noi due tesoro mio”, mi accarezzò i capelli e le sorrisi:
“quel bellissimo ballerino è ancora qui, sono due per la precisione, e poggiano in fondo al nostro letto..”
Mi guardò interrogativa e senza aggiungere parola decisi di svelarle l'arcano; scivolai lungo le sue gambe fino ad abbracciarle e avvicinando il mio viso al dorso dei suoi piedi, lei silenziosa, quasi a voler scoprire senza fare domande cosa io intendessi. Baciai le sue caviglie, entrambi i dorsi e poi le dita. Mi voltai supina portandomi le sue piante sul viso respirandone l'odore meraviglioso, le morsi dolcemente i talloni e solo in quel momento la sentii ridacchiare e protestare, cercò di ritrarre i suoi piedi:
“mi fai il solletico smettila..”, ma rideva divertita, mollai la presa delle sue caviglie, ma al contrario delle sue rimostranze verbali si guardò bene dal sottrarre le sue estremità ai miei baci, le feci scorrere la lingua lungo una delle sue piante e la sentii gemere, come se scoprisse lei stessa di avere una zona erogena da nessuno mai stimolata. Si accorse della mia eccitazione quando mi portai una delle mani sul mio fiore, e sottraendo alla mia bocca il suo piede già insalivato me lo posò sul pube scostando la mia mano, l'alluce sapiente iniziò a saggiare il mio clitoride premendolo e roteandoci sopra, regalandomi una scossa di piacere tale che le afferrai la caviglia per fermarla, o quanto meno rallentarla; volevo che mi scopasse con quel suo piede fatato, desideravo più di ogni altra cosa accoglierlo dentro di me. Glielo chiesi quasi supplicandola, e così fece; fui io a guidarla mentre lei esitava temendo di causarmi dolore, le sorrisi e lasciò che il suo alluce violasse le piccole labbra, e poi, ad una ad una le altre quattro dita; iniziò ad aprirle e chiuderle tra le mie pareti vaginali, me le spinsi dentro fino ad avvolgere parte del suo metatarso e aumentando i movimenti del mio bacino; ci guardammo silenziose, lei soprattutto guardava me mentre mi mordevo le labbra per quel piacere travolgente che mi stava regalando. Venni inondandole il piede dei miei umori come se una piccola diga avesse ceduto sotto la spinta di una forza inarrestabile. Tenni il suo piede dentro di me fino all'ultima contrazione, e non avendo a mia memoria ricordo di un orgasmo più intenso. Fu lei ad estrarlo. Mi tese la mano e mi distesi accanto a lei, stravolta e felice. Rimanemmo ad accarezzarci e a baciarci, e poi mi sorrise:
“ma perchè ballerino?”. Scoppiai a ridere per quel termine che le rimase misterioso.
“Ricorderai il nostro primo incontro sul ponte”. Annuì.
“Ebbene, mentre stavi appoggiata al parapetto della nave non potei fare a meno di notare la grazia con cui ti sfilavi una delle scarpe per poi calzarla nuovamente”. Rise e mi abbracciò dicendomi che era la sua prima volta con una donna:
“e quello che mi sta accadendo con te mi ha lasciata strabiliata Valeria. Tutto avrei pensato tranne il sentirmi attratta da una donna, della metà dei miei anni per di più, è come se stessi scoprendo un sentiero inesplorato..ma..”
Non le feci finire la frase: “ma hai un marito, e non ho intenzione di sconvolgerti la vita Lavinia, ma nulla ci impedirà di essere amiche e di rimanere in contatto se vorrai”.
“Non è per Rodolfo tesoro mio, abbiamo però un figlio, ha sette anni e vive con i miei genitori, ed è quasi un anno che non lo vedo e...”
Lasciò quella frase sospesa e mi guardò:
“tu hai qualcuno che ti attende laggiù?”
“no Lavinia, ho solo l'indirizzo di un locale frequentato da scrittori e persone legate agli ambienti letterari, ma appena toccata terra il primo passo sarà il mettermi alla ricerca di una camera”.
Mi prese il viso tra le mani:
“vieni a stare da me, potresti occuparti dell'istruzione di Nicolò”
La guardai e le sorrisi:
“ti ringrazio amore mio e ti prometto che presto o tardi mi sentirai bussare alla tua porta, ma non adesso, e Dio solo sa quanto mi mancheranno i tuoi baci e...i tuoi piedi ballerini”. Mi baciò e rise stringendomi sul suo seno. Fu un abbraccio con cui tornammo ad intrecciare i nostri corpi. I restanti cinque giorni di navigazione non passarono in fretta ma l'avere qualcuno al mio fianco mi alleviò la traversata. Mi divertiva stare con lei, mi insegnò perfino a giocare a scacchi, e arrivai addirittura a mangiarle più volte la regina nelle notti che dedicavamo a quel gioco. E pure lei imparò a mangiare la mia, in quel gioco di scacchi però in cui tra le due ero io a diventare la maestra e lei l'allieva, sorprendendomi però nell'abilità che apprese nel saper usare dita e lingua, come se far vibrare un'altra donna le fosse abituale da sempre.
La Statua della Libertà la ricordo più per l'entusiasmo con cui una mattina, non sentendomela tra le braccia come ognuna delle mattine da che iniziammo a passare le notti insieme, entrò di colpo in cabina:
“Vale la statua, la statua, svegliati tesoro!”.
Saltai giù dal letto e mi vestii così in fretta che dimenticai di mettermi le scarpe. Le corsi dietro scalza e raggiungemmo il ponte già affollato da chi, come io e lei, vide apparire nella nebbia di quell'ora la sagoma quasi mitologica della grande statua. Nessuno si curò di noi quando mi cinse da dietro riempiendomi collo e guance di baci. Tornammo nella cabina e iniziammo a vuotare armadietti e stipetti. Ci fermammo a guardare il nostro letto, quei due lettini diventati uno per accogliere la nostra passione, e non avemmo il cuore di disfarlo. Lo guardammo. Solo due ore ci separavano dalla discesa a terra. Mi prese la mano e mi invitò a sdraiarmi. E fummo nude di nuovo, come a voler strappare in quel poco tempo un ultimo momento per noi. Venne sopra di me accovacciandosi sul mio corpo riempiendomi di baci. E poi la vidi ergersi più bella della statua che ci era apparsa pochi minuti prima; seduta sul mio seno e con il suo fiore aperto davanti ai miei occhi, e non ci fu bisogno di altre parole; spinse il bacino in avanti e quel giardino delizioso dei suoi peli pubici lo ebbi sulle labbra: umido e profumato. Le scivolai dentro, con quella sete del suo sapore che sembrava non bastarmi mai, e poi volevo imprimermelo nella mente per un'ultima volta. Le presi tra le labbra il suo scricciolo già gonfio, lo strinsi e lo tenni così serrato per poi prendere a succhiarlo e la sentii quasi gridare; dritta, il suo volto verso la parete dietro il letto, le mani poggiate ad essa, spalancate, i suoi occhi serrati. Entrò nella mia bocca con quel piacere disperato che è l'anticipo dell'orgasmo. I colpi della mia lingua iniziarono ad essere veloci ed incessanti. Tornai a succhiarlo sentendolo dilatato, mi crebbe in bocca, mentre le pieghe delle sue piccole labbra a gonfiarsi anch'esse ammantandolo della sua acqua salata per la gioia della mia bocca e per la sua stessa gioia.
“Vale così, di più...”
Il suo gioiello fiammeggiante, lo immaginai color del rubino mentre con il suo bacino si mosse ad un ritmo sempre più crescente e le sue cosce divaricate, contratte e serrate ad incorniciarmi il viso. Fu prossima a godere e alzai lo sguardo: le sue mani a graffiare la parete, e succhiai la sua carne tumida e scivolosa di quella delizia, fin quando un sussulto la invase e la scosse inondandomi la bocca con ogni goccia del suo orgasmo. Fra non molto saremmo state lontane, e noi due come ad esorcizzare quel momento ci riempivamo di baci. Lei abbandonata su di me e la sua lingua a scivolarmi tra le labbra cercando il sapore del suo stesso corpo. Estasiate entrambe e silenziose, e baci, tanti e caldi, riconoscenti l'una verso l'altra. Stupefatte e incantate.
Scendemmo lungo la passerella che dalla nave ci avrebbe portate sulla banchina. Indescrivibile la bellezza del suo viso mentre il vento le scompigliava i capelli. A terra i nostri bagagli accovacciati l'uno sull'altro. Mi sorrise accarezzandomi il viso:
“Come sei bella...ci siamo date tutto, ma voglio che questo sia solo l'inizio”. Mi scrisse su un foglietto il suo recapito. Ci baciammo rimanendo strette l'una all'altra per un'eternità di secondi, e raccolte le rispettive borse ci incamminammo per direzioni diverse.
di
scritto il
2022-09-07
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