La mia vita a Milano - 1 La segretaria (lotta mista e dominazione)

di
genere
dominazione

Nota dell’autore: questa è una storia di dominazione maschile basata sulle arti marziali. È una vera storia, basata su personaggi tratti dal mondo reale ma idealizzati e con con nomi inventati. Si avvicina come genere alla lotta mista e al BDSM e si propone di raccontare le scene di sesso o feticiste in modo intenso ma non volgare. Spero che vi piaccia!

Giovanni


La mia vita a Milano – cap.1; la segretaria
Appena arrivata a Milano non sapevo esattamente cosa fare. La mia vita a Firenze era sempre stata piena di emozioni ma ora, lontano dalla mia città, mi sentivo un poco spaesata. Avevo quasi 30 anni e non ero esattamente una ragazzina ma per la prima volta in vita mia mi trovavo lontano da casa. Questi pensieri affollavano la mia testa mentre mi dirigevo verso il grosso palazzo della multinazionale presso la quale stavo per prendere servizio. La porta scorrevole mi accompagnò all’interno e, come se un usciere invisibile mi avesse guidato, mi trovai nel grande atrio. Vidi diversi sguardi posati su di me e seppi subito il perché. Lì dentro erano tutti eleganti, uomini e donne, e lo stile non mancava neanche a me quel giorno, ma io avevo un qualcosa che a molte altre mancava: ero molto bella. Chiaramente quello non era solo il mio pensiero. In realtà, nel corso degli anni e soprattutto durante il periodo adolescenziale, avevo molto della bellezza del mio aspetto e delle parole rassicuranti dei miei amici e genitori. Ma alla fine sono i fatti a parlare. A trent’anni dovevo ammettere che gli uomini mi guardavano per strada e non mi perdevano d’occhio, anche quando le loro compagne o mogli se ne accorgevano. I miei social erano pieni di like anche quando postavo una foto innocente con le amiche e i ragazzi che mi si erano dichiarati erano semplicemente innumerevoli. L’essere bionda in un paese di mori come l’Italia certamente aiutava, ma ero convinta che parte del mio fascino fosse anche dato dalla mia forma fisica. In effetti, praticavo sport senza sosta da tanti anni e la mia grande passione erano diventate le arti marziali. Avevo praticato judo da piccolissima, poi in adolescenza mi ero avvicinata con poca convinzione al karate, poi in modo più serio dopo i 25 alla kickboxing e recentemente al jiu jitsu. Adoravo le arti marziali e come mi facevano sentire, ossia agile, forte e piena di energia. Amavo anche la sensazione che si ha quando si vince un incontro, quando la tua avversaria deve cedere e ammettere che sei meglio di lei. In quelle situazioni, provavo un misto di soddisfazione e di senso di superiorità che era difficile descrivere. In fondo, ero anche una donna abbastanza dominante e di questo se ne erano accorti tutti i miei ex nelle molteplici brevi storie che avevo avuto. “Sono Caterina Lorenzi”, mi presentai alla reception, guardando l’uomo calvo all’ingresso dritto negli occhi. “Ah sì, la nuova segretaria del signor Morelli”, rispose lui prontamente. Non potei reprimere un gesto di stizza. Non ero contenta di essere etichettata come la segretaria dopo una laurea in scienze politiche e tre anni di lavoro in azienda, ma in fondo era vero e il mio lavoro di assistente significava esattamente quello. “Esatto”, risposi caustica, “Dove vado?”. L’uomo mi indicò l’ascensore, suggerendomi l’ultimo piano. Con la schiena dritta, la borsa pervinca da una parte e lo zaino da lavoro dall’altra, mi diressi verso dove aveva indicato. Con un moto di soddisfazione notai che il calvo si era soffermato sul mio braccio. Si, era tonico e non rachitico come quello del 90% delle donne italiane; io a differenza loro mangiavo, facevo flessioni e occasionalmente sollevavo pesi invece di stare a dieta perenne per fare intravedere le ossa. La mia terza di reggiseno, del resto, non avrebbe retto a diete drastiche senza ridursi, e io non ne avevo alcuna intenzione. L’ascensore mi portò all’ultimo piano in pochi secondi. Appena si aprì vidi uno spazio arredato in stile quasi futuristico con ampi spazi vuoti, tante piante e vetrate ovunque che offrivano una vista completa sulla città. Una donna di mezza età mi venne incontro sorridente. Si vedeva che stava fingendo da un miglio di distanza. “Salve Caterina!”, disse con un tono premuroso, “E’ così bello conoscere le nuove segretarie del signor Morelli! Vieni di qua, ti sta aspettando!”. Sorrisi a disagio e la seguii. Cosa voleva dire? Chi erano le nuove segretarie? Ce ne era più di una? Ma appena lei riprese a parlare capii. “Vede il signor Morelli è difficile da accontentare”, iniziò a spiegare “Lei è il terzo rimpiazzo in cinque mesi. Le risorse umane stanno impazzendo ma lei sa che quando arriva una richiesta da questo piano non si può dire di no…”. Mi ritrovai di fronte ad una porta di elegante legno marroncino. A differenza delle altre non era trasparente. La donna bussò e una voce maschile ci invitò ad entrare. La stanza era enorme e divisa in due parti comunicanti: sulla destra si trovava uno spazio grande e aperto sul verde con divani, mobili, quadri e una macchina del caffè tra le più complesse che avessi mai visto, mentre sulla sinistra c’era una scrivania con un computer al centro e circondata da libri. Sui due lati della scrivania vidi altre due porte. Una dava ovviamente su un bagno, mentre l’altra su uno stanzino il cui scopo non riuscii a identificare ma che sembrava molto luminoso. Fu da qui che uscì lui. Quando lo vidi ebbi un tuffo al cuore. Il signor Morelli era un uomo che si avvicinava ai quaranta. Non era affatto vecchio ma neanche così giovane. Era, insomma, nel breve momento della vita in cui la maturità incontra la gioventù e l’abbraccia prima dell’inevitabile saluto. La barba corta mi colpì subito per quanto era curata, così come la perfetta forma delle labbra. Ma fu solo quando i miei occhi azzurri incrociarono i suoi color smeraldo che realizzai che il mio capo era un uomo bellissimo. Lo potevo vedere subito, senza dover tirare ad indovinare, perché con mio imbarazzo il signor Morelli era uscito dalla stanza in un’inaspettata tenuta sportiva e non in giacca e cravatta come sarebbe stato opportuno. La maglietta e i pantaloncini non lasciavano dubbi sulla sua fantastica forma fisica e in un lampo d’intuito capii la funzione dello stanzino, identificandolo con una sorta di stanza fitness. L’uomo si avvicinò con calma alla sua scrivania facendo ondulare leggermente i capelli castano chiaro e congedò la mia accompagnatrice. C’era una sedia imbottita davanti alla scrivania ma non mi offrì di sedermi e anche lui rimase in piedi. “Lei è in ritardo di un quarto d’ora…”, iniziò, scrutandomi dalla testa ai piedi. Sentii una scossa elettrica sulla testa e mio malgrado arrossii. “Scusi signor Morelli. C’era traffico ma…”, “Un quarto d’ora è un periodo di tempo immenso. Avevo iniziato ad allenarmi, una cosa che avrei fatto dopo il nostro incontro. Ora non me ne vorrà se lo stesso sarà più breve”. Non risposi. Lui prese un tablet da sotto la scrivania e iniziò a leggerlo. “Lei ha trent’anni. Si è laureata in scienze politiche quasi a 27 anni e per 3 anni ha lavorato come consulente per una ditta import/export di Firenze specializzata in vendite con la Germania…”, “Non è proprio così”, lo interruppi con orgoglio, “Mi sono laureata con il massimo dei voti e non avevo compiuto ancora 27 anni quando…”, “Non sia così orgogliosa, non volevo mancarle di rispetto. Anche io mi sono laureato in scienze politiche all’inizio sa? Forse qualche anno prima…mi sembra che 27 anni avessi quasi finito il dottorato in economia”. Inghiottii a vuoto. Forse voleva dire una cosa gentile ma da persona competitiva non mi sfuggiva come alla mia stessa età di laurea avesse già completato il ciclo di studi superiore al mio. E a 30 anni dove era arrivato? Beh, in fondo quella stanza parlava per lui. Ripose nel cassetto il tablet e continuò ad osservarmi. Sembrava professionale ed indifferente al mio fascino e la cosa mi infastidiva molto. “Bene Caterina, può chiamarmi Alessandro. A me non importano i formalismi ma la voglio sul pezzo quando si siederà alla sua scrivania nell’altra stanza. Gliel’hanno mostrata? No? Ora provvediamo. Le do un paio di giorni per ambientarsi ma a breve la interrogherò. Lei entro questa settimana deve imparare di cosa ci occupiamo come azienda, chi sono io, chi sono i miei pochi superiori qui dentro e soprattutto chi sono e cosa fanno i nostri partner. Se supererà questo breve test poi passeremo ad una fase più operativa che consisterà nel controllare gli appunti presi dall’intelligenza artificiale durante le riunioni e nel prendere appuntamenti. Vedremo fino a dove arriverà. Io tifo per lei, perché vorrei tanto avere una persona che mi aiuti…”. Dal suo tono capii che era sincero ma anche che il nostro colloquio era finito.
La settimana successiva mi misi di buona lena per imparare tutto quello che il mio capo voleva. Provai a socializzare con tutti e passai decine di ore davanti al computer, leggendo tutta la corrispondenza del mese passato. Il mio capo passava ogni tanto di sfuggita, vestendo in completi grigi o blu di tenuta sartoriale ed esibendo al polso orologi che venivano certamente più del mio stipendio mensile. Quando lo vedevo mi salutava ma niente di più. Dopo esattamente dieci giorni mi convocò nel suo ufficio. Ero sempre stata sicura prima degli esami ma questo mi rendeva nervosa. Questa volta mi fece accomodare su un divano del suo salottino e iniziò ad interrogarmi. Le domande non furono un problema ma l’emozione di avere i suoi occhi verdi che mi fissavano mi fece quasi tremare la voce. Il giorno stesso seppi che ero stata confermata e che avrei iniziato a lavorare più seriamente ai dossier. Iniziai a prendere appuntamenti, partecipare alle riunioni e fare tutto quello che una buona segretaria deve fare. Il signor Morelli o Alessandro come ormai lo chiamavo era sempre gentile, ma anche molto distaccato. Le sue risposte erano sempre circostanziate ma perentorie, tipiche di un uomo che è abituato a comandare. Questo non voleva dire che fosse stronzo. Anzi, per la verità, spesso mi chiedeva come stessi e mi portava dei piccoli regali, facendomi promettere di non dirlo a nessuno. Ma a me questo non importava. La verità era che, da donna sicura ed emancipata, odiavo il rapporto chiaramente subordinato tra di noi. Iniziai a fantasticare di coglierlo in fallo e di scuotere la sua sicurezza. Purtroppo sul lavoro era impossibile; Alessandro sapeva tutto meglio di me e anche se non ricordava i dettagli (per quello c’ero io) capiva benissimo se quello che gli riferivo era giusto o sbagliato solo ragionandoci su per un momento. Il mio immotivato risentimento nei suoi confronti cresceva giorno dopo giorno, così come la segreta attrazione verso di lui. Ma fu un giorno d’estate che cambiò tutto. Stavamo per prendere un taxi di ritorno da una riunione. Era una riunione interna con due colleghi di Alessandro che erano più che altro amici, ragion per cui eravamo entrambi in un abbigliamento più casual del solito: io indossavo dei pantaloni a vita alta neri e una camicia bianca con delle scarpe da ginnastica, mentre lui era in camicia e jeans scuri con delle scarpe lucide di uno stile che avevo raramente visto in vita mia. Il taxi si fermò e lui entrò tranquillo. Stavo per sedermi anche io quando mi accorsi che qualcuno mi stava strattonando. Non feci in tempo a girarmi che mi accorsi che era un uomo di colore, abbastanza alto e con la barba, che mi aveva preso di forza la borsa del lavoro e ora stava scappando. Senza pensarci due volte mi lanciai all’inseguimento, ignorando le grida che provenivano dietro di me. Correvo veloce e, anche se l’uomo era alto e aveva le gambe lunghe, era chiaramente in sovrappeso e quindi più lento di me. Arrivammo in un minuscolo parco quasi deserto a quell’ora calda. Lui all’improvviso si girò. La sua pelata sudata brillava e la maglietta nera si confondeva con il colore della pelle. “Ridammela!”, urlai. Lui, senza dire nulla, mi tirò un pugno. A quel punto non ci vidi più. Schivai il colpo con facilità e poi risposi con un calcio dritto sullo stomaco. Lui fece una smorfia ma avanzò. Sorridendo, totalmente a mio agio, arretrai e poi alla velocità della luce replicai con un calcio sul volto. Il ladro questa volta sembrò accusare l’attacco e io ne approfittai, avvicinandomi a lui sempre di più. L’uomo mi stava per spingere via, chiaramente nel panico, ma io gli afferrai una delle due braccia e poi ruotai il busto, spedendolo a terra con una mossa di judo. La borsa gli scivolò giù di mano. “Non ti muovere!”, gli intimai, sempre calma e sorridente sedendomi sul suo petto per tenerlo fermo. Il suo sguardo era allucinato e non poteva credere di avercele prese in modo così spettacolare da una donna. In quel momento arrivò Alessandro con un altro uomo vestito come un vigilantes. Il mio capo mi guardò e si vide che non era contento.
Il giorno successivo mi recai da Alessandro per l’ordinario punto del giorno alle 11. Era il giorno prima di Ferragosto e l’ufficio era deserto ma comunque bussai. Lui era dentro, vestito in modo estremamente casual. In effetti, ricordavo, quel giorno sarebbe dovuto andare in Liguria dalla sua famiglia e quindi era pronto per il viaggio. Una volta entrata mi sedetti sul divanetto prendendo l’agenda, ma lui aveva altre idee. “Caterina, cosa ha fatto ieri? È stato molto incosciente e politicamente poco saggio. Vogliamo un articolo su come le dipendenti della nostra compagnia gonfino di botte gli stranieri nei parchi?”. Non potei fare a meno di sbuffare. Ormai avevo la confidenza necessaria per rispondergli. “Scusa Alessandro, ma non penso che le cose siano andate così. Sono stata derubata e ho reagito. Sono una donna aggredita da un uomo e mi sono difesa, questo è quanto”. “Ma si rende conto del pericolo che ha corso?”, mi chiese lui serio. I suoi occhi verdi si soffermarono sulla maglia argentata che portavo sotto la giacca nera e allora, per la prima volta, mi accorsi di un bagliore di interesse. Il cuore iniziò a battermi più forte ma mi scrollai nelle spalle, fingendo indifferenza. “Mi so difendere e l’ho dimostrato”, risposi “Al massimo gli uomini qui adesso penseranno che sono pericolosa!”. Lui non si scompose “Non dica sciocchezze…”, “Lei pensa che io non sia pericolosa?”, provai a stuzzicarlo. “Non per me” rispose lui, scuotendo la testa “Io la tengo…sotto controllo, diciamo”. Queste parole mi irritarono profondamente. Ancora una volta reagiva con arroganza, enfatizzando la differenza di posizioni tra di noi. “Se mi arrabbiassi Alessandro non sono sicuro che mi terresti sotto controllo così facilmente”, ribattei, buttandomi con la schiena indietro sul divano e incrociando le gambe lasciate scoperte dalla corta gonna. Il mio capo di tutta risposta rise e questo mi mandò su tutte le furie. “Non ti facevo così maschilista Alessandro! Non pensi che una donna possa essere più forte di te? Sai che pratico arti marziali e…”, “Si, si, ricordo bene, l’hanno scritto anche sul sito nella presentazione dello staff”, rispose lui, ondeggiando la mano per liquidare la questione. “Ma no, io non sono spaventato da lei. Vuole provare a prendermi a calci e vedere come va?”, mi chiese. La proposta mi lasciò letteralmente di stucco. Un tremito di eccitazione mi percorse all’idea di poter finalmente dimostrare al mio capo di che pasta ero fatta e magari cambiare la dinamica di potere unidirezionale tra noi. “Se hai il coraggio…dimmi te quando! Io non mi tiro indietro!”, farfugliai. “Perché non ora? Ci mettiamo pochi minuti…”, mi disse lui, alzandosi in piedi, “Avanti, questa stanza è abbastanza grande…”. Era vero, la stanza era enorme e non c’erano spigoli o altro per farsi male. “Ma…sei sicuro? Se qualcuno entrasse…”, iniziai. “Non ti preoccupare”, tagliò corto lui, dirigendosi verso la porta per chiuderla, “Siamo soli oggi su questo piano e se entrasse qualcuno saprei gestire la situazione…”.
“Come sai gestire me?”, non potei fare a meno di chiedere. “Si…” rispose lui, corrugando leggermente le labbra. Tremando per la trepidazione, mi alzai in piedi. Per combattere, avevo bisogno di stare comoda, quindi mi tolsi i tacchi rimanendo a piedi nudi e poi anche la giacca, rimanendo in maglietta. Ma Alessandro era andato oltre. Si era tolto i mocassini che indossava quel giorno rimanendo scalzo e poi con un movimento fluido anche la camicia. C’era qualcosa di folle in quello che stava succedendo e non potevo fare a meno di pensare che, nel pazzo mondo in cui viviamo, si stesse creando tra noi una dinamica erotica in quel modo assurdo. Il suo corpo semi nudo era comunque un qualcosa che raramente avrebbe lasciato indifferenti uomini o donne. Con l’arrivo del sole Alessandro era diventato abbronzato e i capelli si erano ulteriormente schiariti. Ora che era a torso nudo, mi accorsi che quando muoveva le braccia i muscoli delle spalle si tendevano in modo evidente sotto la pelle; il petto era perfettamente definito e si intravedevano un po' di addominali alti. Il mio capo camminò verso il centro della stanza, incrociando le grosse braccia. “Ha qualcosa sotto la maglia? Guarda che se la rovina…”, mi disse. “Si, certo, me la tolgo…”, risposi io indifferente, togliendomi la maglia argentata e rimanendo con una canottierina corta viola che mi lasciava scoperta la pancia. I miei addominali, a differenza dei suoi, erano ben visibili, e dato il numero di esercizi che facevo per tenermi scattante quello era veramente il risultato minimo. Mi avvicinai a lui, scalza e con la pancia scoperta. I capelli mi arrivavano alla spalla. Ero indecisa se legarli o meno ma poi optati per lasciarli così. “Sei pronto?”, gli domandai, pronta a scattare. La differenza fisica con il mio avversario era evidente: lui era alto almeno 1.85, quindi quasi quindici centimetri più di me, e i suoi muscoli maschili lasciavano intuire una potenza difficilmente raggiungibile per una donna. Fortunatamente io avevo altre frecce al mio arco e non era la prima volta che mi confrontavo con un uomo. “Bello smalto…”, commentò distrattamente, indicando i miei piedi. Stava facendo lo sbruffone? “Si? Tra poco lo vedrai da vicino…”, gli risposi. In realtà era rassicurata dal contatto dei miei piedi nudi sulla moquette, che in qualche modo mi ricordava il tatami. Ora però dovevo impostare una strategia. Ovviamente non potevo né volevo fargli male, ma solo mandare un messaggio chiaro e sondare la sua reazione. Si, volevo imbarazzarlo e magari umiliarlo un poco per la prima volta da quando lo conoscevo, ma l’avrei dovuto fare senza esagerare. E se avesse reagito con rabbia? No, riflettei, la rabbia ferina non sembrava essere nel suo quadro emotivo. Più probabilmente sarebbe arrossito e si sarebbe scusato. Quanto l’avrei desiderato…già mi vedevo scalza e trionfante sopra di lui e poi…dovetti scacciare quel pensiero. Non faceva altro che distrarmi. Lui, intanto, non si era mosso e mi stava aspettando.
La cosa migliore da fare era fargli capire subito il suo errore per demoralizzarlo. Iniziai quindi a tirare alcuni calci sulle sue gambe, ancora fasciate dal pantalone beige. La mia gonna era molto corta ma larga per cui mi permetteva ogni tipo di movimento. Alessandro però mi sorprese, muovendosi intorno a me, schivando il primo calcio e subendo l’impatto del secondo senza fare una piega. A questo punto provai a fingere un altro colpo alle gambe, cambiando poi traiettoria all’ultimo e mirando allo stomaco. Con mia sorpresa il mio piede attraversò l’aria e cadde nel vuoto. Vidi con la coda dell’occhio che lui era al mio fianco e d’istinto arretrai. Che storia era quella? Forse ero solo deconcentrata; l’emozione gioca brutti scherzi. “Sei fuori esercizio…”, mi prese in giro lui, lanciandomi un’occhiata sorniona. Questo era troppo e decisi di punirlo. Saltellando ritmicamente per confonderlo, finsi di avvicinarmi ma poi rialzai la gamba, mirando alla sua guancia. Dopo un istante, realizzai con orrore che il mio piede era stato fermato in aria. Alessandro lo stava tenendo stretto, costringendomi a saltellare sull’altro per tenermi in equilibrio. Trattenni il fiato, mentre il mio avversario si avvicinava. La sua colonia era buonissima, pensai, mentre il mio unico piede di appoggio veniva spazzato via. Con un tonfo caddi con il sedere a terra. Il mio piede destro era ancora saldamente nelle sue mani e la gamba alzata. Provai ad aiutarmi con la gamba sinistra per rialzarmi ma subito sentii il suo piede che mi schiacciava la mia coscia a terra. Guardai in alto. L’uomo non aveva mai perso il contatto visivo. Mi accorsi che stava per farmi male e finalmente realizzai che Alessandro sapeva combattere e probabilmente meglio di me. Infatti, dopo appena un istante necessario per farmi realizzare il suo controllo, incrociò le braccia intorno al mio ginocchio, facendo in modo che l’intera gamba fosse innaturalmente flessa verso l’esterno. Istintivamente mi buttai all’indietro mentre il dolore si irradiava al polpaccio e a tutti i legamenti vicini; pensai che con la sua forza, se avesse voluto, l’avrebbe anche potuta rompere. Sapevo cosa dovevo fare. Era penoso ma necessario. Ero stata battuta e a tradirmi erano state le gambe, la parte del mio corpo di cui ero più fiera, la parte più allenata e quella che gli uomini ammiravano di più. Chiusi gli occhi per sfuggire il suo sguardo e poi dissi “Basta, per favore, hai vinto!”, battendo la mano a terra. Immediatamente lui mi lasciò, mentre io emettevo dei pesanti respiri. Quando aprii gli occhi mi accorsi che l’uomo, non pago della vittoria, si stava sedendo sopra di me, come io avevo fatto con il ladro il giorno prima. Non potevo permetterlo e così lanciai le braccia verso l’alto per contrastarlo. Le mie mani smaltate avvinghiarono le sue grandi e forti, con un esito scontato. Dopo pochi istanti mi ritrovai con la braccia bloccate a terra, immobilizzata dal suo peso. Era la prima volta che un uomo mi sottometteva in questo modo e mi resi conto che il mio respiro affannoso ora non era più imputabile allo sforzo. “Sono un poco deluso…”, disse lui, increspando le labbra in un’espressione che gli era propria, con un misto di soddisfazione e disappunto. “Perché? Non ti aspettavi di vincere?”, gli chiesi io, ora molto meno agitata di prima. “No, di quello ero certo. Sapevo di vincere e che le avrei dato una lezione di umiltà. Sono deluso invece dal fatto che lei era così sicura. Dovrebbe conoscere il mio CV. Gliel’ho mandato il primo giorno. Il fatto che fossi praticante di sport da combattimento fin da bambino era alla fine dell’ultima pagina…questa disattenzione non è accettabile”. Mi morsi il labbro. Mi stava umiliando fisicamente e professionalmente allo stesso tempo e per me era difficile da accettare. Ma al contempo essere sottomessa così da lui mi stava dando un senso di calore umano e di piacere perverso inspiegabile. “Scusa Alessandro…”, dissi alla fine, distogliendo lo sguardo.
L’uomo finalmente si alzò, tendendomi la mano. La accettai e mi feci tirare su. Fu come essere sollevata velocemente da una gru. “Brava comunque…”, disse lui, per darmi il contentino, “Ma ora si può rivestire. Io devo andare, al resto pensiamo al mio ritorno…”. Vidi la sua grossa schiena girata verso di me. Era tutto qui? Non potevo lasciar cadere la cosa in quel modo. “Voglio una rivincita!”, dissi improvvisamente, sperando di suonare minacciosa e fiera. Ma probabilmente ero solo patetica. “Una volta non è bastata, eh?”, chiese lui divertito, abbottonandosi la camicia. “Va bene. Allora ci vediamo il 25 agosto a casa mia. Venga vestita in modo sportivo. E se inizio anche a darle lezioni di arti marziali le detrarrò dallo stipendio”. “Non ci sarà nessuna lezione”, risposi, “Questa volta sarò pronta…”. Il mio cuore batteva all’impazzata. Mi aveva invitata a casa sua.
scritto il
2023-08-07
4 . 1 K
visite
1 1
voti
valutazione
2.6
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.