I treni di notte
di
Biblioteca di Macondo
genere
pulp
C'è stato un tempo prima del Great Reset, prima che ci riducessero tutti alla miseria, in cui oltre a respirare si poteva ancora vivere. Le bollette erano più basse, i traghettini vendevano enciclopedie invece che contratti e andare in treno costava poco.
I treni di notte erano un mondo a parte, come città mobili abitate da gente che sembrava li da tutta la vita.
Gente che mi passava davanti in ciabatte, con la camicia aperta e la barba sfatta, come se fossero nella camera di casa loro.
Poi c'erano le puttane, che ogni notte, finito il turno, tornano in treno alle loro camerette in qualche caseggiato di periferia che costa poco.
Perché sto parlando della notte vera, quella che sta per farsi mattina e lascia scorgere le strisce viola nel buio del cielo oltre i finestrini.
Non avevano stelle i cieli di quei treni, sarebbe stato troppo lusso.
E c'erano predatori in quell'ecosistema, persone in apparenza umane, che però vedono gli altri umani come oggetti inanimati da cui prendere quel che desiderano, quando desiderano.
Così, una di quelle notti, ci eravamo trovati per caso. Un gruppo di sei puttane, io, altri due tizi, tutti ammucchiati al centro del vagone, con l'intesa silenziosa di proteggerci dai predatori. Un vagone vero da treno che costa poco, poltroncine rosse a gruppi di quattro e nessuno scompartimento, la luce di una lampada sopra di noi, non funzionavano tutte, c'erano zone buie.
Le poltroncine sul lato corridoio avevano una tavoletta pieghevole per appoggiarci i bicchieri.
Una delle puttane invece ci aveva appoggiato un rasoio a lama libera, immagino abitudine, casomai qualcuno non avesse capito che non era in servizio. Uno dei tizi poi ci aveva messo di fianco un coltello, senza dire niente.
Allora anche io ci avevo messo il mio, poi da qualche parte era uscita una pistola, revolver nero, canna corta.
Le armi sul tavolo, tutto in chiaro per i predatori di passaggio, e noi rilassati a chiacchierare come se ci conoscessimo. Come se fosse stato un treno di giorno.
Era come avere acceso un fuoco da campo, vite forse miserabili avevano generato un raggio di luce calda, che respingeva il buio tutto attorno.
Una delle puttane aveva i capelli ricci e un bel sorriso, forse un filo mulatta, una sudamericana, una di quelle colombiane che nascono già senza imene, per un fatto di adattamento naturale all'ambiente.
La guardavo, mi guardava, si scambiava qualche parola.
Io andavo al capolinea, loro alla fermata prima.
Quando già mancava poco, si è alzata e mi è venuta vicino.
" Ho lasciato la borsa la in fondo. Mi accompagni ? "
Come no. Recupero il coltello, ripongo nella tasca interna del bomber, la seguo pochi sedili oltre, ai margini della luce. Ha tirato giù la borsa dal portapacchi, ci siamo seduti di spalle alla comitiva, non c'era niente da dire, solo pochi minuti alla frenata, la mia mano a sostenere la sua guancia. Si sentiva l'osso sotto, ma la pelle era seta calda, la bocca sapeva di sigaretta e stanchezza, ho succhiato quel sapore dalla sua lingua fingendo di non sapere cosa ci fosse passato prima.
L'ho lasciata salire sulle mie gambe, la testa abbandonata sul mio petto, ha chiuso gli occhi e si è lasciata avvolgere.
Le mancava il calore, voleva essere cullata, non era tagliata per fare quel mestiere, ma la vita non le aveva dato altro, si capiva.
Pochi minuti preziosi e li abbiamo spesi a occhi chiusi dalla stanchezza, con i suoi capelli nelle mie mani.
Ma sotto intanto i bacini erano a contatto, si strusciava per ringraziare di quella briciola d'affetto, panta in similpelle contro jeans neri. Era bagnata ? Io sicuramente lo ero, le nostre lingue lo erano. La frenata ci aveva fatto sobbalzare una sull'altro come un orgasmo.
Poi, il vagone si è svuotato, sono tornato al sedile di prima, era rimasto solo il proprietario della rivoltella, che mi ha passato un sorriso d'intesa.
All'arrivo mancavano cinque sei minuti.
Hermann Morr
I treni di notte erano un mondo a parte, come città mobili abitate da gente che sembrava li da tutta la vita.
Gente che mi passava davanti in ciabatte, con la camicia aperta e la barba sfatta, come se fossero nella camera di casa loro.
Poi c'erano le puttane, che ogni notte, finito il turno, tornano in treno alle loro camerette in qualche caseggiato di periferia che costa poco.
Perché sto parlando della notte vera, quella che sta per farsi mattina e lascia scorgere le strisce viola nel buio del cielo oltre i finestrini.
Non avevano stelle i cieli di quei treni, sarebbe stato troppo lusso.
E c'erano predatori in quell'ecosistema, persone in apparenza umane, che però vedono gli altri umani come oggetti inanimati da cui prendere quel che desiderano, quando desiderano.
Così, una di quelle notti, ci eravamo trovati per caso. Un gruppo di sei puttane, io, altri due tizi, tutti ammucchiati al centro del vagone, con l'intesa silenziosa di proteggerci dai predatori. Un vagone vero da treno che costa poco, poltroncine rosse a gruppi di quattro e nessuno scompartimento, la luce di una lampada sopra di noi, non funzionavano tutte, c'erano zone buie.
Le poltroncine sul lato corridoio avevano una tavoletta pieghevole per appoggiarci i bicchieri.
Una delle puttane invece ci aveva appoggiato un rasoio a lama libera, immagino abitudine, casomai qualcuno non avesse capito che non era in servizio. Uno dei tizi poi ci aveva messo di fianco un coltello, senza dire niente.
Allora anche io ci avevo messo il mio, poi da qualche parte era uscita una pistola, revolver nero, canna corta.
Le armi sul tavolo, tutto in chiaro per i predatori di passaggio, e noi rilassati a chiacchierare come se ci conoscessimo. Come se fosse stato un treno di giorno.
Era come avere acceso un fuoco da campo, vite forse miserabili avevano generato un raggio di luce calda, che respingeva il buio tutto attorno.
Una delle puttane aveva i capelli ricci e un bel sorriso, forse un filo mulatta, una sudamericana, una di quelle colombiane che nascono già senza imene, per un fatto di adattamento naturale all'ambiente.
La guardavo, mi guardava, si scambiava qualche parola.
Io andavo al capolinea, loro alla fermata prima.
Quando già mancava poco, si è alzata e mi è venuta vicino.
" Ho lasciato la borsa la in fondo. Mi accompagni ? "
Come no. Recupero il coltello, ripongo nella tasca interna del bomber, la seguo pochi sedili oltre, ai margini della luce. Ha tirato giù la borsa dal portapacchi, ci siamo seduti di spalle alla comitiva, non c'era niente da dire, solo pochi minuti alla frenata, la mia mano a sostenere la sua guancia. Si sentiva l'osso sotto, ma la pelle era seta calda, la bocca sapeva di sigaretta e stanchezza, ho succhiato quel sapore dalla sua lingua fingendo di non sapere cosa ci fosse passato prima.
L'ho lasciata salire sulle mie gambe, la testa abbandonata sul mio petto, ha chiuso gli occhi e si è lasciata avvolgere.
Le mancava il calore, voleva essere cullata, non era tagliata per fare quel mestiere, ma la vita non le aveva dato altro, si capiva.
Pochi minuti preziosi e li abbiamo spesi a occhi chiusi dalla stanchezza, con i suoi capelli nelle mie mani.
Ma sotto intanto i bacini erano a contatto, si strusciava per ringraziare di quella briciola d'affetto, panta in similpelle contro jeans neri. Era bagnata ? Io sicuramente lo ero, le nostre lingue lo erano. La frenata ci aveva fatto sobbalzare una sull'altro come un orgasmo.
Poi, il vagone si è svuotato, sono tornato al sedile di prima, era rimasto solo il proprietario della rivoltella, che mi ha passato un sorriso d'intesa.
All'arrivo mancavano cinque sei minuti.
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