Le stagioni di Sara - L’autunno
di
Biblioteca di Macondo
genere
sentimentali
Le stagioni di Sara. L’autunno.
Novembre è già pentito delle miti giornate con cui ha esordito, antica tradizione che la cultura popolare celebra come omaggio a San Martino. Ora rivendica con decisione la sua dignità di mese pre invernale. Folate di grecale mi scagliano in faccia spruzzi di pioggia, che poi scivolano giù disegnando sentieri tortuosi sul vetro; dietro di esso, protetta, osservo il cielo già plumbeo di suo, incupirsi in un crepuscolo senza tramonto.
Un lampo disegna un bizzarro ricamo di luce viola all'orizzonte, qualche secondo di attesa e una vibrazione impercettibile mi preannuncia il boato sordo del tuono.
Altri lampi, meno violenti e più cadenzati, fendono la pioggia. Lampi rassicuranti, guida per chi naviga; ne conto il ritmo: uno, pausa, un altro, pausa lunga, due ravvicinati, pausa e poi riprende il ciclo. Dal faro sposto lo sguardo ad altre luci. Coppie di luci che scivolano silenziose riflettendosi sull'asfalto bagnato. Passano davanti casa e proseguono, verso le loro destinazioni. Non sono quelle che aspetto, quelle per cui sono lì.
Ecco finalmente i fari che rallentano, l'ammiccare arancione che mi conforta e l'auto che imbocca il vialetto d'ingresso infrangendo per un attimo la superficie delle pozzanghere.
Ti vengo ad aprire la porta, corri dentro riparandoti la testa con il collo del giubbotto sollevato. Ti bacio che hai ancora gocce sul viso, sulle labbra, sulla barba già ispida della giornata.
«Ehi, fammi almeno spogliare...»
Ti aiuto col giaccone, grondante, a toglierlo e appenderlo. Mi prendi tra le tue braccia e ricambi il bacio, con desiderio, poi vai in bagno ad asciugarti i capelli.
Un buon whisky torbato per scaldarci e ci accoccoliamo sul divano a guardare la tele. Un quarto d'ora di zapping tra le insulsaggini proposte per poi arrivare alla conclusione di spegnerla.
«Più aumentano i canali e più cala la qualità. Assurdo.»
«Fosse per me potrebbero anche eliminarla del tutto.»
«Ehi! E io poi che farei? Hai dimenticato che ci vivo?» Dici ridendo.
Sorrido. No che non l'ho scordato. È proprio grazie al tuo lavoro che ci siamo conosciuti. Mi ero appena trasferita qui e chiamai il primo antennista che trovai in zona. Ed ecco che alla mia porta suonò questo bell'uomo, carino, educato e sorridente che mi sistemò l'impianto.
Una volta sintonizzato il televisore, verificando i vari canali, incappammo in quel vecchio film. La scena di Jack Lemmon e Juliet Mills che fanno il bagno nudi nel mare di Ischia, pur vista e rivista tante volte, ci rapì. Con una sfacciataggine che non immaginavo avessi, mi paragonasti a lei e io feci lo stesso con te. E fu così che miss Pamela Piggott e mr. Wendell Armbruster Jr. si rincontrarono in un altro letto, su un'altra isola.
Non è stata un'avventura, il classico luogo comune del tecnico, idraulico, fabbro o elettricista che sia, che si scopa la cliente a domicilio. No, capimmo subito che eravamo fatti per stare insieme, bene e a lungo. I rispettivi bagagli di matrimoni, divorzi e convivenze, ci avevano resi diffidenti ma esperti, meno sensibili alle fiammate improvvise e capaci invece di riconoscere affinità più profonde.
Mi stringo accanto a te, accucciata sotto il tuo braccio, la testa posata sul tuo petto. Mi arruffi i capelli con le dita che poi scendono a solleticarmi il collo.
«Alexa, metti della musica soft. Grazie.»
Sorridi sottolineando il mio ringraziare un essere inesistente, virtuale. La calda voce dell'entità invisibile conferma e inizia a riprodurre note dolci e soffuse.
Mi alzo e mi metto a danzare, lenta, sensuale. Inizio a sbottonare la camicetta e la sfilo. Poi la gonna. Ora indosso solo reggiseno, brasiliana e autoreggenti. Prendo una sedia e mi ci siedo all'incontrario, poi mi giro e accavallo le gambe. Sfilo una scarpa e la lascio dondolare sostenuta solo dalla punta dell'alluce. La lancio via e lo stesso faccio con l'altra. Mi alzo e vengo a sfilarmi le calze posando il piede sul divano. Te le lascio cadere addosso. Ululi come Mastroianni con la Loren. Mi slaccio il reggiseno e lo tengo su solo con le mani sulle coppe. Ti interrogo con lo sguardo. Lo vuoi: annuisci e allora le mani scivolano lasciando libere le morbide tette di ballare seguendo il mio ondeggiare. Le carezzo, le sostengo e le strizzo, poi le mani scendono lungo i fianchi seguendone la curva fino a raggiungere l’elastico degli slip. La musica mi ispira, è proprio adatta a ciò che sto facendo; mi giro di spalle e li abbasso un po’, sculetto sensuale poi li ritiro su. Mi sto divertendo, cosa che fino a un anno fa mai avrei immaginato. Mi giro di nuovo per averti di fronte: anche tu ti stai divertendo, sorridi della spensieratezza con cui mi cimento in questo spettacolo a te riservato. Intanto, la tua mano sta già accarezzando la patta dei pantaloni. Quindi, birichino, non ti stai solo divertendo ma anche eccitando. Visto che sei pronto, non ci sto più tanto a giocare; con decisione la brasiliana finisce sotto i piedi e poi, scalciata, vola verso la tv.
Eccomi qui: nuda come mi piace essere, come solo tu mi hai insegnato ad apprezzare. Senza pudore, senza imbarazzo per il mio fisico chubby, con la sicurezza di accettarlo e la gioia di mostrarlo.
Ricordo ancora la prima volta che facemmo l’amore: sentivo il tuo sguardo su di me e avvampavo di vergogna. Una volta finito, mi sentii in dovere di prometterti che sarei dimagrita, come fece miss Piggott nel film. Ho sempre avuto la tendenza ad essere ‘formosa’; solo con grandi sacrifici ero riuscita, all’epoca del matrimonio, ad avere una forma accettabile, nei canoni di quell’essere che mi abbindolò per condurmi all’altare. Lasciamo perdere. Sapevo quanto mi sarebbe costato farlo, ma per te ero disposta a rinunce anche più drastiche. E tu, invece, clonando la battuta di Wendell, mi rispondesti che se avessi perso un solo etto non mi avresti più voluta.
Mi avvicino per fartela vedere: glabra come quella di un’infante, come a te piace che sia. La accarezzi compiaciuto e intanto l’altra mano apre la zip e fa emergere in tutta la sua maestà il tuo scettro, che poi impugna con orgoglio.
Allora mi avvicino e mi inginocchio, pronta al rituale di adorazione del totem. Lo bacio sulla punta e poi scivolo con la lingua fino alla base. Togli la mano, sai che ora il controllo delle operazioni è mio, soltanto mio. Ti adagi all’indietro sullo schienale e osservi la mia opera.
Adoro la fellatio: atto sessuale non naturale ma nato nella notte dei tempi, che io sento come un istinto ancestrale; mentalmente benedico la prima donna (o il primo uomo) che volle prendere un pene in bocca; persona sconosciuta ma degna di essere ricordata in eterno nella hall of fame degli inventori. Non è come molti pensano un atto di sottomissione, no. È un atto di generosità da parte di chi lo pratica, un dono per la persona che lo riceve e lo merita e un piacere sublime per entrambi.
E tu invece adori la mia abilità nel farlo scivolare oltre l’epiglottide, giù nella gola. Abilità che è l’unica cosa per cui merita di essere ricordato il mio ex marito: fu lui a spiegarmi la tecnica di deglutire come se stessi ingoiando del cibo.
Dio! Quanto vorrei fosse così lungo da scendermi dentro fino allo stomaco!
Mi fai cenno di alzarmi
«Fermati un po’, ti prego…»
Solo un attimo; mi rialzo e ti punto negli occhi uno sguardo di soddisfazione cattiva, sporca. Mi inginocchio di nuovo e riprendo da dove avevo lasciato. Su e giù, dentro e fuori, nella bocca e nella gola, più in fondo che posso. So che vuoi vedere il mio sguardo e alzo gli occhi: esprimono insieme desiderio, gioia e gratitudine. Ora sento che ci sei e rallento, lo sfilo e mi preparo con la bocca spalancata ad accogliere il tuo piacere. Mira bene, ti prego, non sprecarne una goccia. Ti aiuti con la mano e, appoggiando il glande alle labbra, mi inondi coi tuoi getti. Adesso sì che posso dirmi soddisfatta, come anche tu. A piccoli sorsi ingoio il tuo elisir, caldo e sublime. Pulisco le ultime gocce rimaste sulla punta e poi mi accoccolo come una gatta, felice ai tuoi piedi.
«Che fai? Vieni sul divano, dai…»
«Fammi stare un po’ così, voglio essere la tua gattina.»
Allunghi la mano e mi gratti la testa, infilando le dita tra i capelli.
«miaoooo… ron ron…»
Faccio io languida.
Sara Aras
Mi chiamo Sara; il cognome è un altro ma ho scelto questo, facendo il contrario del mio nome, perché a volte sono me stessa; altre l’esatto contrario.
Ho già pubblicato qualcosa, anni fa su questo sito, con altro nick; preferisco però non ripubblicare i vecchi scritti e proporre un inedito.
Novembre è già pentito delle miti giornate con cui ha esordito, antica tradizione che la cultura popolare celebra come omaggio a San Martino. Ora rivendica con decisione la sua dignità di mese pre invernale. Folate di grecale mi scagliano in faccia spruzzi di pioggia, che poi scivolano giù disegnando sentieri tortuosi sul vetro; dietro di esso, protetta, osservo il cielo già plumbeo di suo, incupirsi in un crepuscolo senza tramonto.
Un lampo disegna un bizzarro ricamo di luce viola all'orizzonte, qualche secondo di attesa e una vibrazione impercettibile mi preannuncia il boato sordo del tuono.
Altri lampi, meno violenti e più cadenzati, fendono la pioggia. Lampi rassicuranti, guida per chi naviga; ne conto il ritmo: uno, pausa, un altro, pausa lunga, due ravvicinati, pausa e poi riprende il ciclo. Dal faro sposto lo sguardo ad altre luci. Coppie di luci che scivolano silenziose riflettendosi sull'asfalto bagnato. Passano davanti casa e proseguono, verso le loro destinazioni. Non sono quelle che aspetto, quelle per cui sono lì.
Ecco finalmente i fari che rallentano, l'ammiccare arancione che mi conforta e l'auto che imbocca il vialetto d'ingresso infrangendo per un attimo la superficie delle pozzanghere.
Ti vengo ad aprire la porta, corri dentro riparandoti la testa con il collo del giubbotto sollevato. Ti bacio che hai ancora gocce sul viso, sulle labbra, sulla barba già ispida della giornata.
«Ehi, fammi almeno spogliare...»
Ti aiuto col giaccone, grondante, a toglierlo e appenderlo. Mi prendi tra le tue braccia e ricambi il bacio, con desiderio, poi vai in bagno ad asciugarti i capelli.
Un buon whisky torbato per scaldarci e ci accoccoliamo sul divano a guardare la tele. Un quarto d'ora di zapping tra le insulsaggini proposte per poi arrivare alla conclusione di spegnerla.
«Più aumentano i canali e più cala la qualità. Assurdo.»
«Fosse per me potrebbero anche eliminarla del tutto.»
«Ehi! E io poi che farei? Hai dimenticato che ci vivo?» Dici ridendo.
Sorrido. No che non l'ho scordato. È proprio grazie al tuo lavoro che ci siamo conosciuti. Mi ero appena trasferita qui e chiamai il primo antennista che trovai in zona. Ed ecco che alla mia porta suonò questo bell'uomo, carino, educato e sorridente che mi sistemò l'impianto.
Una volta sintonizzato il televisore, verificando i vari canali, incappammo in quel vecchio film. La scena di Jack Lemmon e Juliet Mills che fanno il bagno nudi nel mare di Ischia, pur vista e rivista tante volte, ci rapì. Con una sfacciataggine che non immaginavo avessi, mi paragonasti a lei e io feci lo stesso con te. E fu così che miss Pamela Piggott e mr. Wendell Armbruster Jr. si rincontrarono in un altro letto, su un'altra isola.
Non è stata un'avventura, il classico luogo comune del tecnico, idraulico, fabbro o elettricista che sia, che si scopa la cliente a domicilio. No, capimmo subito che eravamo fatti per stare insieme, bene e a lungo. I rispettivi bagagli di matrimoni, divorzi e convivenze, ci avevano resi diffidenti ma esperti, meno sensibili alle fiammate improvvise e capaci invece di riconoscere affinità più profonde.
Mi stringo accanto a te, accucciata sotto il tuo braccio, la testa posata sul tuo petto. Mi arruffi i capelli con le dita che poi scendono a solleticarmi il collo.
«Alexa, metti della musica soft. Grazie.»
Sorridi sottolineando il mio ringraziare un essere inesistente, virtuale. La calda voce dell'entità invisibile conferma e inizia a riprodurre note dolci e soffuse.
Mi alzo e mi metto a danzare, lenta, sensuale. Inizio a sbottonare la camicetta e la sfilo. Poi la gonna. Ora indosso solo reggiseno, brasiliana e autoreggenti. Prendo una sedia e mi ci siedo all'incontrario, poi mi giro e accavallo le gambe. Sfilo una scarpa e la lascio dondolare sostenuta solo dalla punta dell'alluce. La lancio via e lo stesso faccio con l'altra. Mi alzo e vengo a sfilarmi le calze posando il piede sul divano. Te le lascio cadere addosso. Ululi come Mastroianni con la Loren. Mi slaccio il reggiseno e lo tengo su solo con le mani sulle coppe. Ti interrogo con lo sguardo. Lo vuoi: annuisci e allora le mani scivolano lasciando libere le morbide tette di ballare seguendo il mio ondeggiare. Le carezzo, le sostengo e le strizzo, poi le mani scendono lungo i fianchi seguendone la curva fino a raggiungere l’elastico degli slip. La musica mi ispira, è proprio adatta a ciò che sto facendo; mi giro di spalle e li abbasso un po’, sculetto sensuale poi li ritiro su. Mi sto divertendo, cosa che fino a un anno fa mai avrei immaginato. Mi giro di nuovo per averti di fronte: anche tu ti stai divertendo, sorridi della spensieratezza con cui mi cimento in questo spettacolo a te riservato. Intanto, la tua mano sta già accarezzando la patta dei pantaloni. Quindi, birichino, non ti stai solo divertendo ma anche eccitando. Visto che sei pronto, non ci sto più tanto a giocare; con decisione la brasiliana finisce sotto i piedi e poi, scalciata, vola verso la tv.
Eccomi qui: nuda come mi piace essere, come solo tu mi hai insegnato ad apprezzare. Senza pudore, senza imbarazzo per il mio fisico chubby, con la sicurezza di accettarlo e la gioia di mostrarlo.
Ricordo ancora la prima volta che facemmo l’amore: sentivo il tuo sguardo su di me e avvampavo di vergogna. Una volta finito, mi sentii in dovere di prometterti che sarei dimagrita, come fece miss Piggott nel film. Ho sempre avuto la tendenza ad essere ‘formosa’; solo con grandi sacrifici ero riuscita, all’epoca del matrimonio, ad avere una forma accettabile, nei canoni di quell’essere che mi abbindolò per condurmi all’altare. Lasciamo perdere. Sapevo quanto mi sarebbe costato farlo, ma per te ero disposta a rinunce anche più drastiche. E tu, invece, clonando la battuta di Wendell, mi rispondesti che se avessi perso un solo etto non mi avresti più voluta.
Mi avvicino per fartela vedere: glabra come quella di un’infante, come a te piace che sia. La accarezzi compiaciuto e intanto l’altra mano apre la zip e fa emergere in tutta la sua maestà il tuo scettro, che poi impugna con orgoglio.
Allora mi avvicino e mi inginocchio, pronta al rituale di adorazione del totem. Lo bacio sulla punta e poi scivolo con la lingua fino alla base. Togli la mano, sai che ora il controllo delle operazioni è mio, soltanto mio. Ti adagi all’indietro sullo schienale e osservi la mia opera.
Adoro la fellatio: atto sessuale non naturale ma nato nella notte dei tempi, che io sento come un istinto ancestrale; mentalmente benedico la prima donna (o il primo uomo) che volle prendere un pene in bocca; persona sconosciuta ma degna di essere ricordata in eterno nella hall of fame degli inventori. Non è come molti pensano un atto di sottomissione, no. È un atto di generosità da parte di chi lo pratica, un dono per la persona che lo riceve e lo merita e un piacere sublime per entrambi.
E tu invece adori la mia abilità nel farlo scivolare oltre l’epiglottide, giù nella gola. Abilità che è l’unica cosa per cui merita di essere ricordato il mio ex marito: fu lui a spiegarmi la tecnica di deglutire come se stessi ingoiando del cibo.
Dio! Quanto vorrei fosse così lungo da scendermi dentro fino allo stomaco!
Mi fai cenno di alzarmi
«Fermati un po’, ti prego…»
Solo un attimo; mi rialzo e ti punto negli occhi uno sguardo di soddisfazione cattiva, sporca. Mi inginocchio di nuovo e riprendo da dove avevo lasciato. Su e giù, dentro e fuori, nella bocca e nella gola, più in fondo che posso. So che vuoi vedere il mio sguardo e alzo gli occhi: esprimono insieme desiderio, gioia e gratitudine. Ora sento che ci sei e rallento, lo sfilo e mi preparo con la bocca spalancata ad accogliere il tuo piacere. Mira bene, ti prego, non sprecarne una goccia. Ti aiuti con la mano e, appoggiando il glande alle labbra, mi inondi coi tuoi getti. Adesso sì che posso dirmi soddisfatta, come anche tu. A piccoli sorsi ingoio il tuo elisir, caldo e sublime. Pulisco le ultime gocce rimaste sulla punta e poi mi accoccolo come una gatta, felice ai tuoi piedi.
«Che fai? Vieni sul divano, dai…»
«Fammi stare un po’ così, voglio essere la tua gattina.»
Allunghi la mano e mi gratti la testa, infilando le dita tra i capelli.
«miaoooo… ron ron…»
Faccio io languida.
Sara Aras
Mi chiamo Sara; il cognome è un altro ma ho scelto questo, facendo il contrario del mio nome, perché a volte sono me stessa; altre l’esatto contrario.
Ho già pubblicato qualcosa, anni fa su questo sito, con altro nick; preferisco però non ripubblicare i vecchi scritti e proporre un inedito.
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