L'equivoco - capitolo 3 - Valencia
di
Alex 88
genere
sentimentali
Capitolo terzo
Valencia
- Si può sapere che cazzo di fine hai fatto? Hai una faccia!
Alessio, il mio coinquilino, non era certo tipo da andare per il sottile; m’aspettava sulla soglia di casa, con un espressione a metà tra il preoccupato e l’incazzato.
- Non mi va di parlarne – gli dissi entrando mentre scrollavo i capelli gocciolanti dalla pioggia.
- Senti, Gene Kelly dei poveri…
- Come mi hai chiamato scusa?
- Gene Kelly! – replicò allusivo – che io sappia, l’unico che se ne sia andato in giro sotto la pioggia senza ombrello e ne fosse anche felice; o era Fred Aster? Mi hai fatto venire il dubbio. Ad ogni modo: ha telefonato quel tua amico, Marco, ha detto di richiamarlo non appena fossi tornato a casa.
- Di a quel Giuda che, per quanto mi riguarda, può andarsene comodamente a fanculo!
- Senti non so proprio perché ti ostini a frequentare quella sottospecie di morto di figa; ma sembrava preoccupato. Di un po’: ha forse a che fare col tuo personale rifacimento di “Singing in the rain”? – mi disse indicando lo stato pietoso dei miei vestiti. Da quando ero rientrato non avevano smesso di sgocciolare neppure per un secondo; potevo riempire una piscina.
- A giudicare dall’espressione sulla tua faccia direi che è proprio così… – commentò subito dopo stringendo le labbra. - Ti va di parlarne?
- Preferirei di no! - Non avevo abbastanza forza per sostenere ancora per molto quel suo sguardo indagatore
- Va bene….! – sospirò – ma sappi che, nel caso fortuito in cui ti trovassi sommerso da una irrefrenabile voglia di confidare a qualcuno che cazzo di mentecatto sia il tuo migliore amico, sarò qui ad ascoltarti!
Quel suo linguaggio colorito mi strappò un sorriso e Dio solo sa se ne avessi bisogno. Quel giorno avevo fatto l’Amore con la ragazza di cui ero innamorato, la stessa per cui avevo perso la testa sin dal primo giorno delle superiori, e sentirmi come se mi fosse passato sopra un treno, francamente, era l’ultima cosa a cui avrei pensato. Lasciai Alessio a destreggiarsi coi suoi libri d’economia, rifugiandomi in camera mia. Temendo il peggio, il mio coinquilino aveva scollegato qualunque cosa fosse collegata alla corrente di casa, persino il modem del wi-fi; il nostro appartamento è abbastanza vecchio e, sebbene il proprietario abbia provveduto ad installare un salvavita, le apparecchiature elettroniche sono sempre sotto scacco quando si parla di fulmini. La pioggia era finita, perciò riavviai il modem, ma una seconda pioggia di notifiche, ben più devastante della prima, tartassò il mio smartphone condannandolo a otto secondi buoni di quella che avrei potuto definire la sua personale rivisitazione del “ballo di san Vito”.
– 17:45 Ma dove cazzo stai?
- 17:59 Si può sapere che fine hai fatto?
– 18:13 Oh? Mi rispondi? Vedi che se è per la storia del passaggio…
- 18:14 Mi spieghi che cosa dovevo fare? Chiara se ne stava andando e non potevo farla andare via cosi.
- 18:30 Abbiamo litigato, l’ho lasciata a casa è infuriata a bestia. Oh, mi raccomando, acqua in bocca su quel fatto della Sarli; se Chiara scopre quanto mi attizza quella porcona è sicuro che, almeno per un mese, posso scordarmela. Non me la darà mai.
- 21:40 Si può sapere che cazzo di fine ai fatto? A ogni modo, con Chiara ho risolto! Vedessi come ci siamo strusciati… il sesso riparatore è il migliore!
Quell’ultimo messaggio avrei preferito di gran lunga non leggerlo. C’era una ragione se avevo deciso di non rispondere alle chiamate di Marco e ai suoi sms, ma quelle notifiche di Whats’app furono impossibili da ignorare. Che stronza… - pensai - non era passata neanche mezz’ora da quando me n’ero andato, da quando io e lei avevamo fatto l’Amore, e già lo aveva perdonato? E tutto quel che c’era stato tra noi? Che cos’ero io? Un diversivo? Uno zerbino? Un modo stupido e infantile di farla pagare a Marco, il mio ex-migliore amico, visto che quello stronzo continuava a riempirla di corna un giorno sì e l’altro pure? No, se c’era uno stronzo in tutta questa fottuta vicenda, lo stronzo ero proprio io. Sono io ad essermi lasciato abbindolare da quei due; sempre pronto a raccogliere i cocci del loro rapporto quando una andava ai pazzi a causa delle scappatelle dell’altro. Mi sentivo sporco, usato e sull’orlo di una crisi di nervi. Con violenza lanciai lo smartphone contro il cuscino, giusto in tempo per l’ultima, inesorabile, notifica che ne fece illuminare lo schermo. Era un messaggio di Chiara e questo non potevo proprio digerirlo:
- Ti prego, non dire niente a Marco di stasera.
Una pugnalata dritta al cuore.
Lo schermo del mio smartphone si illuminò di nuovo. Ero sul punto di scagliarlo direttamente fuori dalla finestra quando ci ripensai: il messaggio non era di nessuno dei due.
- Oggi ti ho giudicato male. Mi dispiace. Ti va se un giorno di questi ci prendiamo un caffè insieme?
Arianna
P.S. ho preso il tuo numero dal cell di Chiara. Spero che non ti dispiaccia
In quel momento l’ultima cosa a cui avrei dovuto pensare era un’altra ragazza, lo so bene, specie visto che quella di cui ero ancora innamorato, nonostante tutto, adesso stava tra le braccia di quella carogna del mio ex - migliore amico. Sì, avevo tradito la fiducia di Marco andando a letto con la sua fidanzata, ma lui s’era scopato tutte quelle che avevano avuto anche solo un cenno di interesse per me. Bell’amico di merda!
- Certo. Ti va bene se domani ci incontriamo in caffetteria?
- Sì, dove? E a che ora?
- Quella che hanno aperto da poco in Centro? Vogliamo fare alle 10:30?
- Va bene
- A domani
- A domani ;)
Quella caffetteria sembrava esser saltata fuori da Greese o da Happy days, anche se in una stucchevole versione rosa confetto che non lasciava dubbi sul tipo di clientela a cui era rivolta. Un’enorme coltre d’orsacchiotti di peluche, d'ogni misura, andava ammassandosi qua e là: negli angoli, sulle sedie, mischiandosi ai pochi avventori, o meglio alle avventrici che affollavano il locale. Tranne sparuti casi, infatti, (qualche fidanzato costretto dalla morosa) la clientela era pressoché tutta al femminile. Non conoscevo bene Arianna e non riuscivo proprio a immaginare come avrebbe reagito ad un posto del genere. La sua mise: jeans strappati, t-shirt degli Slipknot, Converse e giacca di pelle con le borchie, tutto lasciava presagire tranne che le potesse piacere un posto del genere, ma il sorriso che le si stampò sul viso non appena fummo dentro fugò da me ogni dubbio. Non so dirvi per quanto tempo restammo dentro quel locale, le ore sembrarono letteralmente volare mentre la guardavo affondare i denti in una deliziosa crepes ricotta e miele, guarnita con granella di noci di macadamia. Lo so, può sembrare scontato, ma con lei mi sentivo sorprendentemente a mio agio, come se quel nostro incontro avesse in sé qualcosa di prestabilito, ineluttabile e determinato e finalmente si facesse avanti come un destino manifesto.
Con lei potevo parlare di tutto, era un’ottima ascoltatrice, e vantava a sua volta di una cultura “pop” come poche. Quel nostro incontro fu un pieno susseguirsi di citazioni, di riferimenti, di frasi che mi lasciarono sbalordito; piacevolmente sbalordito. E gli sguardi con cui condimmo il tutto lasciavano davvero poco spazio all'immaginazione.
Lo so a cosa starete pensando e no, quella sera non siamo andati a finire a letto insieme. Nonostante la bellissima chiacchierata mi sentivo ancora abbastanza a pezzi per imbarcarmi in una nuova relazione, anche se non so se quella con Chiara potesse definirsi tale. Ad ogni modo andare a letto con un’altra ragazza era l'ultimo dei miei pensieri. La ferita era ancora troppo fresca. Così, da perfetto galantuomo, accompagnai Arianna a casa, aspettando pazientemente che chiudesse il portone prima d'andar via. Avevamo parlato tutto il tempo e persino sotto casa ci si era attardati a conversare un po' visto che ad entrambi non ci era sembrato giunto ancora il tempo di congedarsi. Forse Arianna si aspettava qualcosa di più, forse si aspettava un bacio, ma, come dicevo, per me era ancora troppo presto e sebbene con lei fossi stato bene, il mio cuore apparteneva ancora a Chiara.
Quello fu solo il primo di una lunga serie di appuntamenti in cui, pian pianino, cominciavo a conoscere e apprezzare sempre più la coinquilina della donna che amavo. Consideravo Arianna un’amica, la mia migliore amica ad essere precisi, ma nulla più. Per quanto mi sforzassi l'attrazione che provavo per lei non riusciva ad oltrepassare la soglia della semplice amicizia. L'affinità con Arianna era totale, talmente alta da relegare quel nostro screzio iniziale ad un banale incidente di percorso. Ma il mio cuore anelava ad altro… e a volte il fato ci si mette davvero d'impegno per essere crudele.
Eravamo tornati a casa da poco. Con Arianna ci eravamo barcamenati in una di quelle nostre accesissime discussioni senza né capo né coda in cui ognuno diceva la sua e l'altro cercava ogni mezzo possibile per confutarlo. Lo adoravo. Il protagonista di questa sera era il rapporto tra Ron ed Hermione nella saga di Harry Potter e l'inesorabile e quantomeno imprescindibile differenza presente tra libri e saga cinematografica: avevamo già fatto lo stesso con Twilight; discorsi a cui solo un vero fan “accanito” avrebbe potuto interessarsi. Arianna era ancora lì che presentava ogni elemento del suo discorso con suo fare flemmatico e bislaccamente solenne quando il mio sguardo si perse dietro la lunga e folta chioma della sua coinquilina. Chiara era appena uscita dal bagno e i suoi lunghi capelli castani emanavano un inebriante sentore di shampoo e di pulito a cui era difficilissimo resistere. Dal quel nostro ultimo incontro erano passate un po' di settimane e tra noi era calata una sottile cortina di ferro: una strana guerra fredda, lunga e deleteria, che avrebbe fatto impallidire persino Kennedy e Nikita Chruscev. Vedendomi perso e intontito dietro la sua amica, Arianna aveva smesso di parlare, cominciando a guardarmi di sbieco prima di mollarmi un colpetto sul braccio per catturare la mia attenzione.
- Ehm… scusa, stavi dicendo?
- Stai bene?
- Sì, diciamo di sì – le risposi poco convinto
- Secondo me dovreste parlarvi
- Di cosa? Del fatto che sono innamorato di lei da prima che si mettesse insieme a Marco? Del fatto che è da allora che le muoia dietro, o di come mi faccia soffrire il fatto che lei lo abbia perdonato nonostante Marco continui imperterrito a riempirla di corna dalla mattina alla sera? Ari, se quei due hanno deciso di giocare a fare gli Eduardo e Carlotta da Le affinità elettive, beh io me ne chiamo fuori! È troppo doloroso.
Vidi Arianna accennare un sorriso sghembo.
– Solo a te puoi venire in mente Goethe in un momento simile.
– Sì, lo so, sono irrecuperabile – le dissi sconfortato
– No, è tenero – precisò lei – certa gente alle volte non si rende conto della fortuna che ha davanti…
I nostri sguardi si incrociarono. Chiunque altro al mio posto ne avrebbe subito approfittato per strapparle un bacio. Quelle labbra turgide, quei suoi grandi occhioni verdi, erano troppo invitanti per rimanere impassibili. Fossimo stati i protagonisti di un romanzo rosa quella sarebbe stata l'occasione ideale per dar sfogo a tutta quella tensione sessuale che chiaramente sentivo addensarsi tra noi due. Ma io, come ho già detto, divento un vero e proprio coglione quando si tratta di queste cose; così mi abbandonai sulla sua spalla, lasciando che le sue dita affusolate m’accarezzassero il viso, giocherellando coi ricci sulla mia fronte.
Due settimane dopo le avrei raccontato di come la Sarli, approfittando di una pausa di metà semestre, avesse organizzato un viaggio a Valencia per assistere ad un importantissimo convegno su quei farmaci di nuova generazione che avevano come principio attivo un “complesso”, ovvero un composto di coordinazione; parte integrante del suo corso di studi. La partecipazione era “fortemente consigliata”, per non dire obbligatoria, d'altronde l'evento avrebbe avuto rilevanza a livello europeo, e non parteciparvi era un errore da non compiere se si sperava di superare poi indenni il suo esame. L'università, d’altro canto, aveva messo a disposizione dei fondi per venire incontro ai meno abbienti.
Ari fu così carina ad accompagnarmi all’aeroporto il giorno della partenza. Aveva ragione lei: alle volte la gente non si rende conto della fortuna che ha davanti… Naturalmente Marco volle da subito organizzarsi il suo bel programmino con Chiara. Avrebbe usato la scusa del convegno per viaggiare con noi e concedersi un bel week-end nella metropoli spagnola, approfittando delle ore in cui Chiara fosse occupata col convegno per fare i suoi porci comodi in quel di Valencia. Non so se Chiara si rendesse minimamente conto di come lui la sfruttasse e basta, di come lei per lui non fosse altro che un ripiego tra una scappatella e l'altra o se la cosa gli stesse bene; e forse avrei fatto meglio a farmi i fatti miei… ma giuro che è davvero difficile restare in disparte quando qualcuno, financo il tuo ex-migliore amico, tratta di merda la donna che ami. Non vi risulterà quindi difficile comprendere con quale stato d’animo abbia appreso la notizia della loro presenza nel gruppo di Valencia. Non ho dormito per una settimana. Ma delle volte ci pensa il fato stesso a toglierti d'impaccio da certe situazioni incresciose; nel mio caso la Moira si chiamava Anna Sarli e, con mio sommo sollievo, impedì a Marco di venire con noi. L'accesso al sussidio speciale posto in essere dall'Università – spiegò la prof. – era appannaggio dei soli iscritti alla facoltà di Farmacia; Marco poteva solo attaccarsi al… lasciamo perdere.
Ari accompagnò tutti all'aeroporto, pure quell'accattone di Marco che aveva tanto insistito per venire in macchina con noi. Al nostro ingresso al terminal mi lanciò uno sguardo inequivocabile: al mio ritorno avremmo dovuto fare quel famoso discorso che sin troppe volte avevamo rimandato per non compromettere la nostra amicizia; ma questo era un problema che avrei affrontato solo il lunedì successivo. Anche Ari mi lanciò uno sguardo che non lasciava dubbi; ma il discorso con lei era tutta un'altra storia. Col senno di poi credo che avrei dovuto fare di più lo stronzo, approfittarmi di lei come faceva Marco con Chiara, i segnali che mi lanciava, dopotutto, erano più che evidenti; anche se ero fin troppo accecato da Chiara per notarli. Ma avrei mai avuto il coraggio? Come potevo approfittarmi a quel modo di una persona tanto dolce? Di un’ottima amica? Continuai a chiedermelo per tutta la durata del volo, conscio che, a prescindere dalla mia decisione, quell'impasse emotivo non avrebbe portato a nulla di buono. Al mio ritorno dalla Spagna la situazione sarebbe stata ben diversa; ma questo ancora non mi era dato saperlo.
- Se non ti conoscessi bene Ale, penserei che sei preoccupato per qualcosa. – Disse Elizabeth distogliendomi dai miei pensieri – Sicuro che vada tutto bene?
Il suo sorriso gentile fece capolino tra i sedili davanti a me. Aveva una lunga cascata di capelli ricci e un profilo greco che avrebbe fatto invidia alla stessa Afrodite. Per non peccare di hybris, o forse solo per praticità, portava la folta criniera legata in una sciatta coda di cavallo, ma la cosa, devo dire, la rendeva ancora più attraente. Indossava un maglioncino leggero di cotone bianco, a costine, e una camicia di seta lucida color fiordaliso a cui seguivano un paio di jeans a sigaretta. Un paio di Converse, tempestate di margherite su sfondo lilla, conferivano all'insieme una delicata e quanto mai studiata nota “casual”. Gli occhi erano vispi, impazienti, pieni di quella luce e leggiadria che la rendevano simile a una bimba al suo primo viaggio a Disneyland Paris.
- Non sei eccitato anche tu per la conferenza? La Sarli mi ha detto che vi parteciperanno un sacco di quelli che contano. Ha anche fatto un paio di nomi, ma sinceramente non ne conoscevo nemmeno uno, perciò non ho fatto molta attenzione. Credi che riusciremo a capire tutto? Non hai paura che...
Confermo: una bimba in viaggio a Disneyland. Continuò a parlarmi a raffica per tutta la restante parte del volo. Poco male, per lo meno mi distoglieva dai miei pensieri e devo dire che la sua compagnia fu quanto mai piacevole; anche se non avevo la minima idea di che cosa quell'innocente conversazione avrebbe scatenato poco più tardi in albergo. Ma sarà meglio procedere per gradi. Come ebbe ampiamente modo di spiegare a me e a Elisa seduta accanto a lei, il convegno si sarebbe svolto nella Ciutat de les Artes i les Cìences, il complesso architettonico messo a punto da Candela e Calatrava sul finire degli anni ‘90. Un bus c’avrebbe portato in albergo e si sarebbe premurato di venirci a prendere per accompagnarci al museo de las ciencias principe Felipe: il convegno, infatti, si sarebbe svolto in una delle sue sale principali. La povera Elisa si limitava ad annuire timidamente, lasciando a quel fiume in piena di Elizabeth di battere chiodo per tutta la durata del volo. I suoi grandi occhi marroni continuavano a ondeggiare tra me e la loquace compagna di posto, perdendosi ogni tanto tra le candide nubi d'ovatta fuori dall'oblò. Quella chiacchierata in volo non sembrava dar cenno di voler terminare; non che mi lamentassi: seppure un po' fissata, Elizabeth era pur sempre una bella ragazza, e anche Elisa aveva il suo perché. Non avevamo mai parlato molto con loro durante le lezioni, ci eravamo limitati ai soliti convenevoli. Sapevo che, oltre a essere compagne di corso, le due erano anche coinquiline, ma la mimesi non si limitava certo a questo. Elisa era l’ombra di Elisabeth, su questo non c'era alcun dubbio; due facce della stessa medaglia, se mi si concede il paragone, al punto da non percepire più dove finisse l'una e cominciasse l'altra. Forse dovuto alla parziale omonimia; quel sodalizio aveva raggiunto livelli inimmaginabili per un osservatore esterno, tanto che in facoltà cominciavamo a chiederci se tra loro ci fosse altro oltre all'amicizia. Ammetto di aver pensato che quella fosse l'occasione giusta per un chiarimento; non ne vado molto fiero ma dopotutto erano state loro a voler attaccar bottone.
Arrivammo a Valencia nel primo pomeriggio. Il sole andava ancora allungandosi dietro i bianchi stralli del pont de l'Assault de l'Or che, dall'alto del suo pilone di 125metri, si infila come una spada tra le bianche ossature degli edifici della Ciutat. Il museo della scienza, sede del nostro convegno, e l’elegante Àgora dal caratteristico trencandìs azzurro, giacevano inerti ai lati del ponte, come resti scheletriti d'un drago addormentato. Elizabeth continuava a descriverci tutto sin nei minimi particolari, dimostrando conoscenze che andavano ben oltre l'ambito dei nostri studi. Fu sempre lei a far cenno al fatto che la Spagna, sebbene in corrispondenza del meridiano di Greenwich, condivida lo stesso fuso orario di Germania, Francia e Italia: una decisione del Caudillo – la si poteva sentir sentenziare con enfasi, mentre Elisa non poteva trattenersi dal pendere dalle sue labbra. Quelle due non me la contavano giusta.
Giunti in albergo non restò che disfare le valige. L'appuntamento col resto del gruppo era per l’indomani mattina alle nove, ma con le due ci eravamo dati appuntamento per le 21.00 per andare ad assaggiare insieme una di quelle famose Horciata di cui Elizabeth non aveva smesso un attimo di tessere le lodi. Avevo appena finito di prepararmi quando qualcuno bussò alla porta della mia stanza. Pensai si trattasse di loro, delle due Elisa, ma mi sbagliavo di grosso. Davanti a me trovai Chiara, rossa di rabbia, una Valchiria assetata di sangue pronta a dar filo da torcere a qualunque uomo. Che cosa ci facesse lì davanti alla porta di camera mia era un assoluto mistero.
- Adesso mi spieghi che cosa cazzo conti di fare – esordì a denti stretti, dopo una breve pausa imbarazzante
- Come scusa?
- Che diavolo di intenzioni hai? – continuò imperterrita con uno sguardo che lanciava fulmini e saette
- Mi spieghi che ti prende?
- Che mi prende? Che mi prende? Hai forse voglia di scherzare? – la sua voce continuava a cantilenare stridula e piena di tremore
- Prima Arianna, adesso quelle due sciacquette. Pensi che non veda quel che stai facendo?
- Si può sapere di che diamine stai parlando?
- Di te e del fatto che sono settimane che fai finta che io sia sparita dalla faccia della terra.
- Non pensavo che ti importasse. – mi limitai a risponderle alzando le spalle
- Hai voglia di scherzare? Prima mi dici che mi ami e poi per settimane fai finta che non esisto? Ma che ti dice il cervello?
- Chiara non so che intenzioni tu abbia, ma non credo certo di dover dare conto a te se…
- Non mi ami più?
- Come puoi chiedermi certe cose.
- Rispondimi, cazzo, non mi ami più?
- Chiara non…
Le vidi gli occhi riempirsi di lacrime. Doveva essere successo qualcosa.
- Stai bene?
- Ah, perché? Ti interessa? Cos’è, adesso che non c'è più la tua Arianna, sono tornata improvvisamente nei i tuoi pensieri?
- Ma sei tu quella che si è presentata qui all'improvviso per farmi una scenata; scusa tanto se ho pensato che ci fosse qualcosa che non va e ho voluto chiederti se stessi bene! E poi, lascia Arianna fuori da questa faccenda!
- Oh, scusa se ho nominato quella lurida puttana
- Modera il linguaggio…
- Cos’è? Ti scoccia se dico la verità? Quella zoccola ti sta sempre appiccicata addosso come le api al miele. Non la sopporto più.
- Modera il linguaggio, ti ho detto! Non mi va che la chiami a quel modo. E poi se qui c'è qualcuna che ha deciso di trombarsi uno per far dispetto al fidanzato beh…
Non ebbi modo di finire la frase. Lo schiaffo che ne ricavai in piena faccia mi colse talmente alla sprovvista da lasciarmi senza fiato. Chiara non replicò, non che ne avesse motivo ormai; si limitò a girare i tacchi e a lasciarmi lì, come uno stronzo, a massaggiarmi la guancia gonfia e dolorante.
A quanto pare quel nostro incontro/scontro aveva sortito l’esito sperato visto che, al mio arrivo davanti alla porta della loro camera, le due Elisa erano già belle che andate. Che avessero pensato che alla fine gli avessi dato buca? Il lungo rosario di bestemmie che snocciolai avrebbe fatto impallidire anche il più incallito degli atei. Ma possibile che non me ne andasse mai bene una? Maledetto il giorno in cui m’ero innamorato di quella st… No, non potevo chiamarla in quel modo. Nonostante tutto, nonostante quello schiaffo degno di Mike Tyson, l'amavo ancora. E questo era qualcosa con cui avrei dovuto imparare a convivere. Anche se non era giusto. Non era per niente giusto. Ma non ero ancora pronto a darmi per vinto. Chiara aveva fatto di tutto per far sfumare il mio appuntamento con le “Elisa”? Allora sarei uscito lo stesso e le avrei raggiunte dovunque fossero, anche se avessi dovuto setacciare ogni discoteca, pub o ristorante della città!
Avevo da poco superato l'elegante profilo di un palazzo di epoca coloniale quando un motivetto familiare mi attrasse verso l'ingresso di un pub. Il brano era Take Five di Dave Brudbeck, in Italia passato tristemente alla storia come la colonna sonora della pubblicità della banca Mediolanum e delle assicurazioni Zurick, ovvero quanto di più lontano ci possa essere da quelle sveltissime note di sceltissima musica, il cui Jazz incalzante era un piacere per gli orecchi difficile da descrivere. La band aveva quasi terminato di eseguire il brano e già s’apprestava a dar fiato alle prime note di Moanin' di Art Blakey & the Jazz Messangers quando, nella densa foschia del fumo di sigaretta, intravidi un profilo familiare. Elegantemente vestita di rosso, con un abito di seta lucida da rivista patinata, la prof. Anna Sarli trascorreva un piacevole momento di distensione seduta al bancone del bar del locale. Un barista in maniche di camicia, cravatta, gilet a doppio petto, e dei vistosi baffi a spazzola si premurava, tra un cliente e l'altro, che la sua flûte di champagne non fosse mai vuota; lasciando alla prof. Il piacere di godersi in santa pace quell'incredibile performance Jazz dal vivo. Non potei fare a meno di prendere posto ad un tavolino sul fondo della sala. Una cameriera venne subito a raccogliere la mia ordinazione: un Horciata bella ghiacciata che mi fu servita poco dopo, giusto nel tramezzo tra Moanin' e Moondance di Van Morrison, eseguita però nella versione di Michael Boublé. Personalmente preferisco la versione originale… ma non c'era di che fare gli schizzinosi: quei ragazzi erano dei draghi. Con la coda dell'occhio notai qualcuno avvicinarsi alla Sarli. Che la prof. avesse un appuntamento romantico? Devo ammettere che la curiosità era parecchia. L'uomo, un attempato e canuto figuro sulla sessantina, dalla fronte rada e modi untuosi, le si fece accanto mettendole una mano sulla bella spalla nuda. Dall'espressione che fece capii subito quanto la cosa non le andasse a genio. Che si trattasse di uno di quei pomposi conferenzieri a cui aveva accennato Elizabeth durante il volo? La cosa spiegherebbe perché la prof. avesse deciso di fare buon viso a cattivo gioco e non stampare un bel cinquino su una delle guance paffute e arrossate del tipo.
Quest’ultimo non aveva smesso un attimo di sussurrarle qualcosa nell'orecchio, qualcosa di estremamente noioso a giudicare dall’espressione tediata della donna, la quale, non perdette altro tempo e, accampando sicuramente una scusa di qualche tipo, si allontanò in direzione del bagno. L'occasione, si sa, fa l'uomo ladro, ma vedere quel vecchio laido e attempato calare una pasticca di qualche tipo nel bicchiere della prof mi fece subito ribollire il sangue nelle vene. In men che non si dica mi fiondai su di lui per dirgliene quattro ma venni anticipato dal barista del locale, anch'egli testimone del misfatto che, afferrato l'uomo per la collottola, senza tanti giri di parole, lo cacciò fuori dal locale a pedate. Io, fosse stato per me, gli avrei gettato addosso anche il contenuto del bicchiere incriminato, ma non si può avere tutto dalla vita.
Quando la prof. tornò dal bagno la band aveva appena concluso Baker Steet di Gerry Rafferty e si avviava ad accennare le prime note di Fly me to the moon. Notai che aveva indossato un lungo spolverino di raso blu scuro, a doppio petto, con un elegante cintino in vita dello stesso colore. I guanti, corti, con un bel fiocchetto all'altezza del polso, erano anch’essi in raso, ma dello stesso rosso del vestito, e facevano pendant con un borsalino dalla fibbia dorata. Il tutto si sposava alla perfezione con le decolleté blu dalle suole rosse che non avevo ancora avuto modo di notare. Quel chiasmo cromatico le dava un’aria elegante, ricercata; nulla a che vedere con l’aria scialba e da squattrinato di quello sprovveduto che, grazie alla bravata di poco prima, aveva avuto modo di provare il “soffice bacio” dei marciapiedi di Valencia. Anna sembrò sorpresa dell’assenza del vecchio laido, ma non per questo meno sollevata. Quella presenza si era fatta più ingombrante di quanto avessi potuto immaginare, infatti, toltasi borsalino e soprabito, la donna tornò subito a godersi appieno la performance della Jazz band, accomodandosi nuovamente sullo sgabello difronte al bancone e ordinando un altro bicchiere di champagne.
Restammo lì ancora per una buona mezz’ora, dico “restammo” perché, sebbene non avessi alcuna voglia di andar via (la band aveva appena iniziato ad improvvisare sulle note di take that train di Duke Ellington), non me la son sentita di lasciar andar via Anna da sola, specie dopo averla vista allontanarsi con passo pericolosamente malfermo verso l'uscita: troppi Champagne. Tempo di pagare il conto e la ritrovai a ciondolare in direzione dell’albergo, mantenendosi a un lampione per non cadere. Non era proprio in condizioni di poter continuare da sola, questo era poco ma sicuro, e sebbene non fossi del tutto sicuro di quale sarebbe stata la sua reazione una volta che l’avessi raggiunta, non potevo farla andar via da sola; non a quell'ora, non in quello stato.
- Professoressa, professoressa, tutto bene? – le chiesi cancellando con pochi passi la distanza tra noi due.
- Ce ne hai messo di tempo per farti avanti... – mi rispose lei, spiazzandomi.
- Come, scusi?
- Niente, è tutta la sera che continui a guardarmi dal fondo del locale. Mi chiedevo quando avresti trovato il coraggio di venire a parlare con me.
Il suo sguardo era sfuggente, il suo tono alticcio, e anche il suo alito lasciava parecchio a desiderare, ma nonostante tutto era bellissima come sempre.
- Posso accompagnarla in albergo?
- Ancora con questo “Lei”, non avevamo deciso di darci un taglio?
- Sì ma…
- Shhh… - continuò lei zittendomi con un dito sulle labbra - nessun “ma”; non c'è “ma” che tenga. Io sono Anna, chiamami “Anna”.
- Volevo solo…
- Questa è una bella serata, ed io voglio concluderla con una bella passeggiata verso l’albergo. Mi accompagneresti?
- Non chiedo di meglio – le dissi prendendole la mano inguantata
- Oddio, queste scarpe mi stanno uccidendo – proseguì lei sfilandosi una delle decolleté – per quello che costano dovrebbero essere comode come delle pantofole.
- Jimmy choo?
- Louboutin!
- Costano parecchio?
- Non immagini neanche quanto.
- Potrei portarla io a cavalcioni sulle spalle – suggerii aiutandola a sfilarsi anche l'altra scarpa
- Non essere ridicolo, si rovinerebbe il vestito.
- Armani?
- Fendi… Oh, che diamine; dammi una mano!
Non con poca difficoltà aiutai Anna a salirmi a cavalcioni sulla schiena. La prof. mi aveva messo le mani intorno al collo, mentre io la sorreggevo per le gambe.
- Fendi, Louboutin… Non ti sembra di esserti messa parecchio in tiro per un semplice pub di Valencia? La musica era stupenda ma per il resto mi è sembrato un locale come un altro.
- Non è per il locale che ero vestita così…
- Capisco… Era forse per il vecchio bavoso andato via mezz'ora fa?
- Hai visto anche quello eh? Non ti sfugge niente a quanto vedo. Ebbene, per tua informazione sappi che quell’uomo era, anzi “è” una delle menti più brillanti del panorama scientifico spagnolo. Fa parte infatti dell'equipe che presiederà la conferenza di domani mattina; il suo laboratorio è riuscito a mettere a punto un protocollo sullo studio dei complessi di coordinazione che ha dell’incredibile. Era tutta la vita che desideravo fare la sua conoscenza.
- Ma quando lo ha fatto…
- Hanno proprio ragione quando dicono che non bisogna mai conoscere i propri miti, che si corre sempre il rischio di scoprire che dietro grandi opere si celino uomini minuscoli, inutili… e il professor Rodrigo Vergara non fa di certo eccezione. È stato di un noioso… credo di non aver mai conosciuto un uomo più noioso di lui. Domani ci toccherà combattere parecchio per non addormentarci.
Non me la son sentita di raccontare ad Anna dell’episodio della pasticca. Quel segreto sarebbe rimasto tra me, Vergara, il barista e il lucido lastrato di cemento dei marciapiedi di Valencia. Percorremmo quel che restava del tragitto fino all'hotel parlando di Jazz. Entrambi eravamo rimasti colpiti dalla maestria della band sebbene per il sottoscritto si trattasse della prima volta a cui assistevo ad eventi di questo tipo.
- Oh, la musica migliore è quella che ascolti mentre la suonano dal vivo. – sentenziò lei appoggiando il mento sulla mia spalla destra - Diffida da tutti quei sedicenti esperti che passano la loro vita alla ricerca del vinile perfetto. Un vinile non è altro che una registrazione: la cristallizzazione di un momento che trova tutto il suo fascino proprio nella sua fugacità… Il Jazz è una cosa viva. Non la puoi immortalare come si fa con le fotografie. Pensa ai tramonti. Sfido chiunque ad affermare che vederne uno in foto e osservalo sulla spiaggia, mano nella mano con qualcuno, sia la stessa identica cosa. Non so se rendo l'idea. Forse ho bevuto troppo per discorsi filosofici di questo tipo.
- Credo di aver afferrato il concetto.
- Non ne dubito. Sei un ragazzo intelligente. Ero sicura che avresti capito… - continuò lei adagiando adesso la guancia sulla mia spalla.
Quel contatto, seppur semplice, innocente, la diceva lunga su quanto noi due ci stessimo avvicinando in quel momento e quella serata, un fiasco totale fino a poche ore prima, era giunta ad una piacevole svolta, così come m'apprestavo a fare io stesso di lì a qualche metro.
- Toh, siamo quasi arrivati – constatò la Sarli alzando la testa. Aveva riconosciuto infatti l’angolo dietro cui si celava l'ingresso del nostro albergo.
- Non è proprio il Luxor, eh? Ma ce lo faremo andar bene lo stesso - sussurrò poi la prof civettuola a pochi centimetri dal mio orecchio – D'altronde l'Università ha fondi limitati… anzi, mi meraviglio che abbiano deciso di promuovere questo progetto; non era per nulla scontato. Ti prego fammi scendere.
- Ne è sicura? Mancano ancora parecchi metri…
- Ti immagini cosa accadrebbe se qualcuno ci vedesse così? Le voci messe in giro su di noi potrebbero sfidare la teoria della relatività di Einstein per la velocità con cui circolerebbero in facoltà; e sinceramente vorrei evitarlo.
- Capisco…. – lasciai cadere a malincuore mentre aiutavo Anna a scendere per infilarsi nuovamente le Louboutin.
- Oh, non fare quella faccia – riprese lei accarezzandomi il viso – si vede lontano un miglio che sei un bravo ragazzo; sei stato un vero cavaliere a volermi portare sin’ qui; ma sai come vanno queste cose… Non c'è nulla di peggio di un gruppo di professori attempati per dare adito alle maldicenze.
Il suo sguardo era sincero, il suo sorriso gentile. Non aveva davvero senso prendersela se aveva deciso di salvare le apparenze; per quanto non ci fosse poi molto da salvare in verità, che cos'avevamo mai potuto fare di così sbagliato? Era stanca, alticcia, ed io avevo deciso di riportarla in albergo a cavalcioni sulla mia schiena. Tutto qui.
- Sicura di riuscire a tornare in camera sana e salva?
- Ci proviamo… - mi rispose lei incrociando le dita
- Il Fendi?
- Un po' sgualcito, ma nulla che non possa essere riparato dalla tintoria
- Si riferisce al servizio dell’albergo?
- Non sia mai! – mi rispose lei come colpita nell'orgoglio. – Non affiderei a quegli sprovveduti un paio di jeans strappati, figuriamoci il mio “Fendi” originale.
- Eresia! – continuai io facendole il verso – Solo che dall'ultima volta che siamo andati insieme in tintoria le cose non si erano messe proprio bene.
- Scemo – riprese lei sorridendo. Quell'allusione alle nostre disavventure le strappò una risata e un buffetto dispettoso sul mio braccio sinistro. Ma il ghigno compiaciuto con cui mi guardò subito dopo mi diede molto a cui pensare…
- Ola, pendejo, ¿qué pasa?
Sono in due, sembrano ubriachi fradici, ed hanno svoltato l'angolo alle nostre spalle poco dopo di noi. Uno di loro, il più mingherlino, ciondola vistosamente, forse ancor più di quanto non abbia visto fare alla Sarli, e non sembra per nulla avere buone intenzioni. Mi irrigidisco. Con una mano sposto Anna alle mie spalle mentre noto che un altro, leggermente alticcio anche lui, ha appena detto qualcosa al compare e ci guarda come un lupo che squadra un paio di pecore. Qui le cose stanno per mettersi male, davvero male.
- ¿Están perdido, italianos? – riprese il più smilzo inclinando la testa a destra e a manca con fare maniacale. Non ci separano che una manciata di metri.
- ¡Qué mujer mui ermosa…! – riprende l'altro indicando Anna e ondeggiando le mani come per disegnarne le curve. – ¡Ermosita!
Schiocca un bacio portando le dita alle labbra con fare teatrale, come a voler prendere in giro il nostro essere stranieri. Continuano a farsi avanti.
- Scappa – sussurro a denti stretti ad Anna, spingendola indietro verso l’albergo. La prof sembra essere rimasta interdetta – Scappa!
Quel grido deve aver galvanizzato i nostri aggressori. Vidi Anna correre verso l’albergo in cerca di aiuto, mentre i due mi furono subito addosso. Il primo pugno mi raggiunse in pieno viso, mentre il secondo mi colpì all'addome spezzandomi il fiato. Non so come riuscii a fare quello che ho fatto in seguito. Credo che il mio cervello abbia trovato dentro di me qualcosa di cui fino ad allora mi ero quasi dimenticato; “quasi” per l'appunto.
Non ero mai stato un tipo sportivo. I miei erano sempre stati disperati dal fatto che qualsiasi attività fisica non mi andasse a genio. Non che non abbiano provato a stimolarmi in qualunque maniera possibile: c'era stato il calcetto, il basket, la pallavolo; ma a me quegli sport non piacciono affatto. Infine mia madre si convinse a farmi frequentare un corso di Judo (non durai più di tre anni), ma tanto mi era bastato per imparare qualcosina sulle cadute e sull' autodifesa. Non chiedetemi di ripetervi i nomi delle prese, non mi erano chiari ad undici anni figuriamoci adesso… Credo che la prima si chiamasse O Soto Gari, o qualcosa del genere, e consisteva nell'afferrare l'avversario per il bavaro della giacca e fargli una specie di sgambetto dietro la gamba, una falciata data a metà tra stinco e caviglia con cui lo si faceva finire per terra. Il primo lo misi fuori gioco proprio così. Il mio maestro si era sempre raccomandato di terminare l'azione con una presa di “immobilizzazione”, ma non credo avrebbe avuto nulla da obbiettare quando rifilai a quel tipo un bel calcio nello stomaco. Il secondo, lo smilzo, mi afferrò da dietro, allungando il braccio intorno al mio collo. Lo sollevai facendo presa propri sotto la sua ascella e il suo baricentro, lo caricai sulle spalle, e lo scagliai a terra prima ancora che abbia avuto modo di reagire. Credo che tutto questo si chiamasse Ippon Seoi Nage… ma potrei sbagliarmi; ad ogni modo sferrai anche a lui un bel calcio nei “cosidetti” che gli strappò più di qualche gemito di dolore. Erano passati più di dieci anni dalla mia ultima volta sul tatami della palestra, ma era come se il tempo non fosse mai passato. Ero ancora io, che ripetevo a iosa prese e mosse per guadagnarmi la prossima cintura, anche se adesso in ballo c'era ben più di una semplice medaglia di metallo dorato. Anna doveva essersi rifugiata nella Hall dell’Hotel, o almeno così speravo. Alla fine quei due si erano dimostrati avversari meno temibili di quanto pensassi. Ma ancora non sapevo quanto m’ero sbagliato.
Qualcuno o qualcosa mi colpì da dietro, all’altezza della nuca e, per dirla alla Dante: Caddi, come corpo morto cade.
Rinvenni mezz’ora più tardi, steso su uno dei divanetti della Hall. Devo solo ad Anna il fatto che me la fossi cavata con una semplice commozione celebrale e un bernoccolo all'altezza della nuca. Ancora qualche secondo e sarei stato spacciato, ma per fortuna lei era riuscita ad allertare in tempo quelli dell'albergo e a salvarmi la vita. Era ancora lì, al mio capezzale, con gli occhi ancora scossi dalla paura. Le strinsi con dolcezza la mano destra, ridestandola da un lungo incubo ad occhi aperti. Visto che avevo ripreso conoscenza i poliziotti, ancora lì sul posto, vollero subito raccogliere la mia deposizione, per quanto sarebbe bastata quella di Anna e le registrazioni delle telecamere a furare via ogni dubbio. Mi informarono che quel bruto che mi aveva aggredito era un complice dei due; il trio gli era già noto: erano famosi per avere la cattiva abitudine di aggredire le coppie di turisti rimasti soli nei vicoli bui della città. Di solito si limitavano a minacciare e derubare i malcapitati, ma era già capitato, proprio come nel nostro caso, che tentassero di tramortire l'uno per poi stuprare la donna. Io e Anna eravamo dei miracolati. Incrociai il suo sguardo smarrito mentre l'agente continuava a parlarmi; la sua fronte imperlata di sudori freddi mentre realizzava quanto la sorte ci fosse stata favorevole.
- Andrà tutto bene - le dissi con un filo di voce, mentre quello strano senso di ottundimento andava via via affievolendosi leggero. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Sono sicuro che le ci sia voluta una gran forza d'animo per non scoppiare a piangere davanti a tutti. Mezzo gruppo dell'università era proprio lì nella Hall a godersi lo spettacolo di noi due braccati dal corso degli eventi.
- Prof, è stata brava – ripresi ancora accarezzandole la mano. La Sarli mi fissò con quei suoi occhi velati di lacrime. Un misto di dolcezza e disperazione difficile da descrivere.
- Anna, chiamiami Anna – obbiettò lei con dolcezza in presenza di tutti - ti devo la vita, non c'è bisogno che tu mi dia ancora del “lei”!
- Vi lascio riposare in pace – soggiunse l'agente prima di congedarsi – ho una cella che attende con ansia l'arrivo di quei tre “gentiluomini”. E pensare che sono fuori da poco più di un mese…
Quell'ultima frase cadde nel vuoto del silenzio generale. Sinceramente non me ne fregava un cazzo della sorte che sarebbe spettata a quei tre. Speravo solo che nessun altro si sarebbe dovuto trovare nella nostra stessa situazione. Anna sembrò pensarla come me. Insistette molto per accompagnarmi lei stessa in ospedale per fare i dovuti accertamenti, ma rifiutai. Tranne che per quell'antipatico senso d’ottundimento e una leggera fitta dietro il capo stavo egregiamente. Non c'era bisogno di recarsi in ospedale. Stavo bene.
- Certo che è strano – ripresi io una volta soli in ascensore – Ho insistito tanto per accompagnarti in camera ed è andata a finire che adesso sei tu ad accompagnare me – la prof accennò un mezzo sorriso sghembo. Chissà a che stava pensando…
- E poi non capisco perché – continuai a metà tra il serio e il faceto - ma ogni qual volta io e te stiamo insieme finiamo per incontrare la polizia!
La mia, naturalmente, voleva essere solo una battuta di spirito, ma non sortì l'effetto sperato.
- Mi dispiace, mi dispiace tanto – cominciò a singhiozzare lei disperata. – se solo… se solo penso.
- Ehi, ehi, Anna, è tutto a posto. Sto bene!
- Non che non è a posto, avresti potuto morire! – continuò lei inconsolabile mentre le accarezzavo il volto.
- Sono vivo! Sto bene! E te lo dimostro!
La baciai. Non so perché lo feci, forse solo perché m'andava di farlo, o per il semplice fatto di essere vivo; non lo so. Non so darvi alcuna spiegazione. Il fatto è che agii d'istinto, senza pensarci molto, lasciando che la colpa ricadesse sulla commozione celebrale di poco prima. La baciai con passione, assaporando ogni centimetro di quelle sue belle labbra carnose, affidando al cielo e al fato le sorti di quella mia azione tanto avventata. Anna non mi respinse, non subito almeno. Si staccò dalle mie labbra con calma, come se le cose fossero avvenute troppo velocemente per reagire con prontezza. E dopo aver fermato la corsa dell'ascensore, e avermi fissato con degli occhi che non saprei descrivere, ricambiò quel mio bacio più e più volte, con ancor più passione se solo fosse possibile, dimostrando una voracità che aveva dell'incredibile. Quei suoi baci erano dolci, appassionati, languidi. Si può fare l'Amore solo con dei baci? Beh noi l'abbiamo fatto, ed è stato bellissimo.
Non so dirvi per quanto tempo sia durato quel nostro momento di pura passione. Ma ero con lei e tanto mi bastava. Anna fece riprendere all'ascensore la sua corsa. Un’infinita sequenza di baci ci accompagnò alla porta di camera mia.
- Entra –
- Non posso
- Entra – le chiesi strappando l'ennesimo bacio a quelle labbra infuocate
- Non posso – ripeté lei – non sarebbe giusto.
Un bacio, un ultimo bacio a labbra salate suggellò quel nostro idillio.
- Sarebbe bellissimo – mi sussurrò ancora – ma non possiamo.
- Di che parli – le chiesi allontanandomi per guardarla negli occhi
- Sono sposata, - riprese lei abbassando lo sguardo - e poi… e poi che cosa ne penserebbero quelli dell'università?
- Ma io ti Am…
- Non dirlo – mi intimò lei azzittendomi con un dito sulle labbra – perché non lo pensi sul serio.
- Come puoi pensare che io non sia serio? – le chiesi cingendola tra le mie braccia
- Troppe emozioni – sentenziò lei liberandosi dal mio abbraccio – e poi hai battuto la testa.
- Sì, ho battuto la testa – ripresi io non dandomi per vinto – perciò diamo colpa alla botta di poco prima e vieni dentro con me.
La baciai nuovamente con foga e lei mi lasciò fare. Non so fino a che punto si sarebbe spinta quella notte se uno strano rumore non ci avesse sorpresi all'improvviso.
- Tutto bene? – chiese una voce familiare facendo capolino dietro l'uscio della porta
- Sì, Francesca, torna pure a dormire – rispose prontamente la Sarli con tono serio allontanandosi del tutto da me – Stavo accompagnando Alessandro alla sua camera. Sai, ne ha passate tante questa sera… Adesso è meglio se ce ne andiamo tutti a letto buoni buoni. Non trovi anche tu, Ale?
Non ebbi modo di replicare, quel suo sguardo non ammetteva repliche. Mi limitai a salutare con la mano la bella testolina rossa dallo sguardo assonnato che faceva ancora capolino da dietro la porta, maledicendo me stesso e la mia sfiga che, ancora una volta, m’aveva teso un colpo gobbo.
Le due donne aspettarono che io entrassi nella mia camera, scambiandosi un cenno d'intesa poco prima che richiudessi la porta. La possibilità che quella fresca brezza di primavera si trasformasse in vento di passione era sfumata via per sempre. S’era dissolta come neve al sole nei primi, tiepidi, giorni di Maggio.
Valencia
- Si può sapere che cazzo di fine hai fatto? Hai una faccia!
Alessio, il mio coinquilino, non era certo tipo da andare per il sottile; m’aspettava sulla soglia di casa, con un espressione a metà tra il preoccupato e l’incazzato.
- Non mi va di parlarne – gli dissi entrando mentre scrollavo i capelli gocciolanti dalla pioggia.
- Senti, Gene Kelly dei poveri…
- Come mi hai chiamato scusa?
- Gene Kelly! – replicò allusivo – che io sappia, l’unico che se ne sia andato in giro sotto la pioggia senza ombrello e ne fosse anche felice; o era Fred Aster? Mi hai fatto venire il dubbio. Ad ogni modo: ha telefonato quel tua amico, Marco, ha detto di richiamarlo non appena fossi tornato a casa.
- Di a quel Giuda che, per quanto mi riguarda, può andarsene comodamente a fanculo!
- Senti non so proprio perché ti ostini a frequentare quella sottospecie di morto di figa; ma sembrava preoccupato. Di un po’: ha forse a che fare col tuo personale rifacimento di “Singing in the rain”? – mi disse indicando lo stato pietoso dei miei vestiti. Da quando ero rientrato non avevano smesso di sgocciolare neppure per un secondo; potevo riempire una piscina.
- A giudicare dall’espressione sulla tua faccia direi che è proprio così… – commentò subito dopo stringendo le labbra. - Ti va di parlarne?
- Preferirei di no! - Non avevo abbastanza forza per sostenere ancora per molto quel suo sguardo indagatore
- Va bene….! – sospirò – ma sappi che, nel caso fortuito in cui ti trovassi sommerso da una irrefrenabile voglia di confidare a qualcuno che cazzo di mentecatto sia il tuo migliore amico, sarò qui ad ascoltarti!
Quel suo linguaggio colorito mi strappò un sorriso e Dio solo sa se ne avessi bisogno. Quel giorno avevo fatto l’Amore con la ragazza di cui ero innamorato, la stessa per cui avevo perso la testa sin dal primo giorno delle superiori, e sentirmi come se mi fosse passato sopra un treno, francamente, era l’ultima cosa a cui avrei pensato. Lasciai Alessio a destreggiarsi coi suoi libri d’economia, rifugiandomi in camera mia. Temendo il peggio, il mio coinquilino aveva scollegato qualunque cosa fosse collegata alla corrente di casa, persino il modem del wi-fi; il nostro appartamento è abbastanza vecchio e, sebbene il proprietario abbia provveduto ad installare un salvavita, le apparecchiature elettroniche sono sempre sotto scacco quando si parla di fulmini. La pioggia era finita, perciò riavviai il modem, ma una seconda pioggia di notifiche, ben più devastante della prima, tartassò il mio smartphone condannandolo a otto secondi buoni di quella che avrei potuto definire la sua personale rivisitazione del “ballo di san Vito”.
– 17:45 Ma dove cazzo stai?
- 17:59 Si può sapere che fine hai fatto?
– 18:13 Oh? Mi rispondi? Vedi che se è per la storia del passaggio…
- 18:14 Mi spieghi che cosa dovevo fare? Chiara se ne stava andando e non potevo farla andare via cosi.
- 18:30 Abbiamo litigato, l’ho lasciata a casa è infuriata a bestia. Oh, mi raccomando, acqua in bocca su quel fatto della Sarli; se Chiara scopre quanto mi attizza quella porcona è sicuro che, almeno per un mese, posso scordarmela. Non me la darà mai.
- 21:40 Si può sapere che cazzo di fine ai fatto? A ogni modo, con Chiara ho risolto! Vedessi come ci siamo strusciati… il sesso riparatore è il migliore!
Quell’ultimo messaggio avrei preferito di gran lunga non leggerlo. C’era una ragione se avevo deciso di non rispondere alle chiamate di Marco e ai suoi sms, ma quelle notifiche di Whats’app furono impossibili da ignorare. Che stronza… - pensai - non era passata neanche mezz’ora da quando me n’ero andato, da quando io e lei avevamo fatto l’Amore, e già lo aveva perdonato? E tutto quel che c’era stato tra noi? Che cos’ero io? Un diversivo? Uno zerbino? Un modo stupido e infantile di farla pagare a Marco, il mio ex-migliore amico, visto che quello stronzo continuava a riempirla di corna un giorno sì e l’altro pure? No, se c’era uno stronzo in tutta questa fottuta vicenda, lo stronzo ero proprio io. Sono io ad essermi lasciato abbindolare da quei due; sempre pronto a raccogliere i cocci del loro rapporto quando una andava ai pazzi a causa delle scappatelle dell’altro. Mi sentivo sporco, usato e sull’orlo di una crisi di nervi. Con violenza lanciai lo smartphone contro il cuscino, giusto in tempo per l’ultima, inesorabile, notifica che ne fece illuminare lo schermo. Era un messaggio di Chiara e questo non potevo proprio digerirlo:
- Ti prego, non dire niente a Marco di stasera.
Una pugnalata dritta al cuore.
Lo schermo del mio smartphone si illuminò di nuovo. Ero sul punto di scagliarlo direttamente fuori dalla finestra quando ci ripensai: il messaggio non era di nessuno dei due.
- Oggi ti ho giudicato male. Mi dispiace. Ti va se un giorno di questi ci prendiamo un caffè insieme?
Arianna
P.S. ho preso il tuo numero dal cell di Chiara. Spero che non ti dispiaccia
In quel momento l’ultima cosa a cui avrei dovuto pensare era un’altra ragazza, lo so bene, specie visto che quella di cui ero ancora innamorato, nonostante tutto, adesso stava tra le braccia di quella carogna del mio ex - migliore amico. Sì, avevo tradito la fiducia di Marco andando a letto con la sua fidanzata, ma lui s’era scopato tutte quelle che avevano avuto anche solo un cenno di interesse per me. Bell’amico di merda!
- Certo. Ti va bene se domani ci incontriamo in caffetteria?
- Sì, dove? E a che ora?
- Quella che hanno aperto da poco in Centro? Vogliamo fare alle 10:30?
- Va bene
- A domani
- A domani ;)
Quella caffetteria sembrava esser saltata fuori da Greese o da Happy days, anche se in una stucchevole versione rosa confetto che non lasciava dubbi sul tipo di clientela a cui era rivolta. Un’enorme coltre d’orsacchiotti di peluche, d'ogni misura, andava ammassandosi qua e là: negli angoli, sulle sedie, mischiandosi ai pochi avventori, o meglio alle avventrici che affollavano il locale. Tranne sparuti casi, infatti, (qualche fidanzato costretto dalla morosa) la clientela era pressoché tutta al femminile. Non conoscevo bene Arianna e non riuscivo proprio a immaginare come avrebbe reagito ad un posto del genere. La sua mise: jeans strappati, t-shirt degli Slipknot, Converse e giacca di pelle con le borchie, tutto lasciava presagire tranne che le potesse piacere un posto del genere, ma il sorriso che le si stampò sul viso non appena fummo dentro fugò da me ogni dubbio. Non so dirvi per quanto tempo restammo dentro quel locale, le ore sembrarono letteralmente volare mentre la guardavo affondare i denti in una deliziosa crepes ricotta e miele, guarnita con granella di noci di macadamia. Lo so, può sembrare scontato, ma con lei mi sentivo sorprendentemente a mio agio, come se quel nostro incontro avesse in sé qualcosa di prestabilito, ineluttabile e determinato e finalmente si facesse avanti come un destino manifesto.
Con lei potevo parlare di tutto, era un’ottima ascoltatrice, e vantava a sua volta di una cultura “pop” come poche. Quel nostro incontro fu un pieno susseguirsi di citazioni, di riferimenti, di frasi che mi lasciarono sbalordito; piacevolmente sbalordito. E gli sguardi con cui condimmo il tutto lasciavano davvero poco spazio all'immaginazione.
Lo so a cosa starete pensando e no, quella sera non siamo andati a finire a letto insieme. Nonostante la bellissima chiacchierata mi sentivo ancora abbastanza a pezzi per imbarcarmi in una nuova relazione, anche se non so se quella con Chiara potesse definirsi tale. Ad ogni modo andare a letto con un’altra ragazza era l'ultimo dei miei pensieri. La ferita era ancora troppo fresca. Così, da perfetto galantuomo, accompagnai Arianna a casa, aspettando pazientemente che chiudesse il portone prima d'andar via. Avevamo parlato tutto il tempo e persino sotto casa ci si era attardati a conversare un po' visto che ad entrambi non ci era sembrato giunto ancora il tempo di congedarsi. Forse Arianna si aspettava qualcosa di più, forse si aspettava un bacio, ma, come dicevo, per me era ancora troppo presto e sebbene con lei fossi stato bene, il mio cuore apparteneva ancora a Chiara.
Quello fu solo il primo di una lunga serie di appuntamenti in cui, pian pianino, cominciavo a conoscere e apprezzare sempre più la coinquilina della donna che amavo. Consideravo Arianna un’amica, la mia migliore amica ad essere precisi, ma nulla più. Per quanto mi sforzassi l'attrazione che provavo per lei non riusciva ad oltrepassare la soglia della semplice amicizia. L'affinità con Arianna era totale, talmente alta da relegare quel nostro screzio iniziale ad un banale incidente di percorso. Ma il mio cuore anelava ad altro… e a volte il fato ci si mette davvero d'impegno per essere crudele.
Eravamo tornati a casa da poco. Con Arianna ci eravamo barcamenati in una di quelle nostre accesissime discussioni senza né capo né coda in cui ognuno diceva la sua e l'altro cercava ogni mezzo possibile per confutarlo. Lo adoravo. Il protagonista di questa sera era il rapporto tra Ron ed Hermione nella saga di Harry Potter e l'inesorabile e quantomeno imprescindibile differenza presente tra libri e saga cinematografica: avevamo già fatto lo stesso con Twilight; discorsi a cui solo un vero fan “accanito” avrebbe potuto interessarsi. Arianna era ancora lì che presentava ogni elemento del suo discorso con suo fare flemmatico e bislaccamente solenne quando il mio sguardo si perse dietro la lunga e folta chioma della sua coinquilina. Chiara era appena uscita dal bagno e i suoi lunghi capelli castani emanavano un inebriante sentore di shampoo e di pulito a cui era difficilissimo resistere. Dal quel nostro ultimo incontro erano passate un po' di settimane e tra noi era calata una sottile cortina di ferro: una strana guerra fredda, lunga e deleteria, che avrebbe fatto impallidire persino Kennedy e Nikita Chruscev. Vedendomi perso e intontito dietro la sua amica, Arianna aveva smesso di parlare, cominciando a guardarmi di sbieco prima di mollarmi un colpetto sul braccio per catturare la mia attenzione.
- Ehm… scusa, stavi dicendo?
- Stai bene?
- Sì, diciamo di sì – le risposi poco convinto
- Secondo me dovreste parlarvi
- Di cosa? Del fatto che sono innamorato di lei da prima che si mettesse insieme a Marco? Del fatto che è da allora che le muoia dietro, o di come mi faccia soffrire il fatto che lei lo abbia perdonato nonostante Marco continui imperterrito a riempirla di corna dalla mattina alla sera? Ari, se quei due hanno deciso di giocare a fare gli Eduardo e Carlotta da Le affinità elettive, beh io me ne chiamo fuori! È troppo doloroso.
Vidi Arianna accennare un sorriso sghembo.
– Solo a te puoi venire in mente Goethe in un momento simile.
– Sì, lo so, sono irrecuperabile – le dissi sconfortato
– No, è tenero – precisò lei – certa gente alle volte non si rende conto della fortuna che ha davanti…
I nostri sguardi si incrociarono. Chiunque altro al mio posto ne avrebbe subito approfittato per strapparle un bacio. Quelle labbra turgide, quei suoi grandi occhioni verdi, erano troppo invitanti per rimanere impassibili. Fossimo stati i protagonisti di un romanzo rosa quella sarebbe stata l'occasione ideale per dar sfogo a tutta quella tensione sessuale che chiaramente sentivo addensarsi tra noi due. Ma io, come ho già detto, divento un vero e proprio coglione quando si tratta di queste cose; così mi abbandonai sulla sua spalla, lasciando che le sue dita affusolate m’accarezzassero il viso, giocherellando coi ricci sulla mia fronte.
Due settimane dopo le avrei raccontato di come la Sarli, approfittando di una pausa di metà semestre, avesse organizzato un viaggio a Valencia per assistere ad un importantissimo convegno su quei farmaci di nuova generazione che avevano come principio attivo un “complesso”, ovvero un composto di coordinazione; parte integrante del suo corso di studi. La partecipazione era “fortemente consigliata”, per non dire obbligatoria, d'altronde l'evento avrebbe avuto rilevanza a livello europeo, e non parteciparvi era un errore da non compiere se si sperava di superare poi indenni il suo esame. L'università, d’altro canto, aveva messo a disposizione dei fondi per venire incontro ai meno abbienti.
Ari fu così carina ad accompagnarmi all’aeroporto il giorno della partenza. Aveva ragione lei: alle volte la gente non si rende conto della fortuna che ha davanti… Naturalmente Marco volle da subito organizzarsi il suo bel programmino con Chiara. Avrebbe usato la scusa del convegno per viaggiare con noi e concedersi un bel week-end nella metropoli spagnola, approfittando delle ore in cui Chiara fosse occupata col convegno per fare i suoi porci comodi in quel di Valencia. Non so se Chiara si rendesse minimamente conto di come lui la sfruttasse e basta, di come lei per lui non fosse altro che un ripiego tra una scappatella e l'altra o se la cosa gli stesse bene; e forse avrei fatto meglio a farmi i fatti miei… ma giuro che è davvero difficile restare in disparte quando qualcuno, financo il tuo ex-migliore amico, tratta di merda la donna che ami. Non vi risulterà quindi difficile comprendere con quale stato d’animo abbia appreso la notizia della loro presenza nel gruppo di Valencia. Non ho dormito per una settimana. Ma delle volte ci pensa il fato stesso a toglierti d'impaccio da certe situazioni incresciose; nel mio caso la Moira si chiamava Anna Sarli e, con mio sommo sollievo, impedì a Marco di venire con noi. L'accesso al sussidio speciale posto in essere dall'Università – spiegò la prof. – era appannaggio dei soli iscritti alla facoltà di Farmacia; Marco poteva solo attaccarsi al… lasciamo perdere.
Ari accompagnò tutti all'aeroporto, pure quell'accattone di Marco che aveva tanto insistito per venire in macchina con noi. Al nostro ingresso al terminal mi lanciò uno sguardo inequivocabile: al mio ritorno avremmo dovuto fare quel famoso discorso che sin troppe volte avevamo rimandato per non compromettere la nostra amicizia; ma questo era un problema che avrei affrontato solo il lunedì successivo. Anche Ari mi lanciò uno sguardo che non lasciava dubbi; ma il discorso con lei era tutta un'altra storia. Col senno di poi credo che avrei dovuto fare di più lo stronzo, approfittarmi di lei come faceva Marco con Chiara, i segnali che mi lanciava, dopotutto, erano più che evidenti; anche se ero fin troppo accecato da Chiara per notarli. Ma avrei mai avuto il coraggio? Come potevo approfittarmi a quel modo di una persona tanto dolce? Di un’ottima amica? Continuai a chiedermelo per tutta la durata del volo, conscio che, a prescindere dalla mia decisione, quell'impasse emotivo non avrebbe portato a nulla di buono. Al mio ritorno dalla Spagna la situazione sarebbe stata ben diversa; ma questo ancora non mi era dato saperlo.
- Se non ti conoscessi bene Ale, penserei che sei preoccupato per qualcosa. – Disse Elizabeth distogliendomi dai miei pensieri – Sicuro che vada tutto bene?
Il suo sorriso gentile fece capolino tra i sedili davanti a me. Aveva una lunga cascata di capelli ricci e un profilo greco che avrebbe fatto invidia alla stessa Afrodite. Per non peccare di hybris, o forse solo per praticità, portava la folta criniera legata in una sciatta coda di cavallo, ma la cosa, devo dire, la rendeva ancora più attraente. Indossava un maglioncino leggero di cotone bianco, a costine, e una camicia di seta lucida color fiordaliso a cui seguivano un paio di jeans a sigaretta. Un paio di Converse, tempestate di margherite su sfondo lilla, conferivano all'insieme una delicata e quanto mai studiata nota “casual”. Gli occhi erano vispi, impazienti, pieni di quella luce e leggiadria che la rendevano simile a una bimba al suo primo viaggio a Disneyland Paris.
- Non sei eccitato anche tu per la conferenza? La Sarli mi ha detto che vi parteciperanno un sacco di quelli che contano. Ha anche fatto un paio di nomi, ma sinceramente non ne conoscevo nemmeno uno, perciò non ho fatto molta attenzione. Credi che riusciremo a capire tutto? Non hai paura che...
Confermo: una bimba in viaggio a Disneyland. Continuò a parlarmi a raffica per tutta la restante parte del volo. Poco male, per lo meno mi distoglieva dai miei pensieri e devo dire che la sua compagnia fu quanto mai piacevole; anche se non avevo la minima idea di che cosa quell'innocente conversazione avrebbe scatenato poco più tardi in albergo. Ma sarà meglio procedere per gradi. Come ebbe ampiamente modo di spiegare a me e a Elisa seduta accanto a lei, il convegno si sarebbe svolto nella Ciutat de les Artes i les Cìences, il complesso architettonico messo a punto da Candela e Calatrava sul finire degli anni ‘90. Un bus c’avrebbe portato in albergo e si sarebbe premurato di venirci a prendere per accompagnarci al museo de las ciencias principe Felipe: il convegno, infatti, si sarebbe svolto in una delle sue sale principali. La povera Elisa si limitava ad annuire timidamente, lasciando a quel fiume in piena di Elizabeth di battere chiodo per tutta la durata del volo. I suoi grandi occhi marroni continuavano a ondeggiare tra me e la loquace compagna di posto, perdendosi ogni tanto tra le candide nubi d'ovatta fuori dall'oblò. Quella chiacchierata in volo non sembrava dar cenno di voler terminare; non che mi lamentassi: seppure un po' fissata, Elizabeth era pur sempre una bella ragazza, e anche Elisa aveva il suo perché. Non avevamo mai parlato molto con loro durante le lezioni, ci eravamo limitati ai soliti convenevoli. Sapevo che, oltre a essere compagne di corso, le due erano anche coinquiline, ma la mimesi non si limitava certo a questo. Elisa era l’ombra di Elisabeth, su questo non c'era alcun dubbio; due facce della stessa medaglia, se mi si concede il paragone, al punto da non percepire più dove finisse l'una e cominciasse l'altra. Forse dovuto alla parziale omonimia; quel sodalizio aveva raggiunto livelli inimmaginabili per un osservatore esterno, tanto che in facoltà cominciavamo a chiederci se tra loro ci fosse altro oltre all'amicizia. Ammetto di aver pensato che quella fosse l'occasione giusta per un chiarimento; non ne vado molto fiero ma dopotutto erano state loro a voler attaccar bottone.
Arrivammo a Valencia nel primo pomeriggio. Il sole andava ancora allungandosi dietro i bianchi stralli del pont de l'Assault de l'Or che, dall'alto del suo pilone di 125metri, si infila come una spada tra le bianche ossature degli edifici della Ciutat. Il museo della scienza, sede del nostro convegno, e l’elegante Àgora dal caratteristico trencandìs azzurro, giacevano inerti ai lati del ponte, come resti scheletriti d'un drago addormentato. Elizabeth continuava a descriverci tutto sin nei minimi particolari, dimostrando conoscenze che andavano ben oltre l'ambito dei nostri studi. Fu sempre lei a far cenno al fatto che la Spagna, sebbene in corrispondenza del meridiano di Greenwich, condivida lo stesso fuso orario di Germania, Francia e Italia: una decisione del Caudillo – la si poteva sentir sentenziare con enfasi, mentre Elisa non poteva trattenersi dal pendere dalle sue labbra. Quelle due non me la contavano giusta.
Giunti in albergo non restò che disfare le valige. L'appuntamento col resto del gruppo era per l’indomani mattina alle nove, ma con le due ci eravamo dati appuntamento per le 21.00 per andare ad assaggiare insieme una di quelle famose Horciata di cui Elizabeth non aveva smesso un attimo di tessere le lodi. Avevo appena finito di prepararmi quando qualcuno bussò alla porta della mia stanza. Pensai si trattasse di loro, delle due Elisa, ma mi sbagliavo di grosso. Davanti a me trovai Chiara, rossa di rabbia, una Valchiria assetata di sangue pronta a dar filo da torcere a qualunque uomo. Che cosa ci facesse lì davanti alla porta di camera mia era un assoluto mistero.
- Adesso mi spieghi che cosa cazzo conti di fare – esordì a denti stretti, dopo una breve pausa imbarazzante
- Come scusa?
- Che diavolo di intenzioni hai? – continuò imperterrita con uno sguardo che lanciava fulmini e saette
- Mi spieghi che ti prende?
- Che mi prende? Che mi prende? Hai forse voglia di scherzare? – la sua voce continuava a cantilenare stridula e piena di tremore
- Prima Arianna, adesso quelle due sciacquette. Pensi che non veda quel che stai facendo?
- Si può sapere di che diamine stai parlando?
- Di te e del fatto che sono settimane che fai finta che io sia sparita dalla faccia della terra.
- Non pensavo che ti importasse. – mi limitai a risponderle alzando le spalle
- Hai voglia di scherzare? Prima mi dici che mi ami e poi per settimane fai finta che non esisto? Ma che ti dice il cervello?
- Chiara non so che intenzioni tu abbia, ma non credo certo di dover dare conto a te se…
- Non mi ami più?
- Come puoi chiedermi certe cose.
- Rispondimi, cazzo, non mi ami più?
- Chiara non…
Le vidi gli occhi riempirsi di lacrime. Doveva essere successo qualcosa.
- Stai bene?
- Ah, perché? Ti interessa? Cos’è, adesso che non c'è più la tua Arianna, sono tornata improvvisamente nei i tuoi pensieri?
- Ma sei tu quella che si è presentata qui all'improvviso per farmi una scenata; scusa tanto se ho pensato che ci fosse qualcosa che non va e ho voluto chiederti se stessi bene! E poi, lascia Arianna fuori da questa faccenda!
- Oh, scusa se ho nominato quella lurida puttana
- Modera il linguaggio…
- Cos’è? Ti scoccia se dico la verità? Quella zoccola ti sta sempre appiccicata addosso come le api al miele. Non la sopporto più.
- Modera il linguaggio, ti ho detto! Non mi va che la chiami a quel modo. E poi se qui c'è qualcuna che ha deciso di trombarsi uno per far dispetto al fidanzato beh…
Non ebbi modo di finire la frase. Lo schiaffo che ne ricavai in piena faccia mi colse talmente alla sprovvista da lasciarmi senza fiato. Chiara non replicò, non che ne avesse motivo ormai; si limitò a girare i tacchi e a lasciarmi lì, come uno stronzo, a massaggiarmi la guancia gonfia e dolorante.
A quanto pare quel nostro incontro/scontro aveva sortito l’esito sperato visto che, al mio arrivo davanti alla porta della loro camera, le due Elisa erano già belle che andate. Che avessero pensato che alla fine gli avessi dato buca? Il lungo rosario di bestemmie che snocciolai avrebbe fatto impallidire anche il più incallito degli atei. Ma possibile che non me ne andasse mai bene una? Maledetto il giorno in cui m’ero innamorato di quella st… No, non potevo chiamarla in quel modo. Nonostante tutto, nonostante quello schiaffo degno di Mike Tyson, l'amavo ancora. E questo era qualcosa con cui avrei dovuto imparare a convivere. Anche se non era giusto. Non era per niente giusto. Ma non ero ancora pronto a darmi per vinto. Chiara aveva fatto di tutto per far sfumare il mio appuntamento con le “Elisa”? Allora sarei uscito lo stesso e le avrei raggiunte dovunque fossero, anche se avessi dovuto setacciare ogni discoteca, pub o ristorante della città!
Avevo da poco superato l'elegante profilo di un palazzo di epoca coloniale quando un motivetto familiare mi attrasse verso l'ingresso di un pub. Il brano era Take Five di Dave Brudbeck, in Italia passato tristemente alla storia come la colonna sonora della pubblicità della banca Mediolanum e delle assicurazioni Zurick, ovvero quanto di più lontano ci possa essere da quelle sveltissime note di sceltissima musica, il cui Jazz incalzante era un piacere per gli orecchi difficile da descrivere. La band aveva quasi terminato di eseguire il brano e già s’apprestava a dar fiato alle prime note di Moanin' di Art Blakey & the Jazz Messangers quando, nella densa foschia del fumo di sigaretta, intravidi un profilo familiare. Elegantemente vestita di rosso, con un abito di seta lucida da rivista patinata, la prof. Anna Sarli trascorreva un piacevole momento di distensione seduta al bancone del bar del locale. Un barista in maniche di camicia, cravatta, gilet a doppio petto, e dei vistosi baffi a spazzola si premurava, tra un cliente e l'altro, che la sua flûte di champagne non fosse mai vuota; lasciando alla prof. Il piacere di godersi in santa pace quell'incredibile performance Jazz dal vivo. Non potei fare a meno di prendere posto ad un tavolino sul fondo della sala. Una cameriera venne subito a raccogliere la mia ordinazione: un Horciata bella ghiacciata che mi fu servita poco dopo, giusto nel tramezzo tra Moanin' e Moondance di Van Morrison, eseguita però nella versione di Michael Boublé. Personalmente preferisco la versione originale… ma non c'era di che fare gli schizzinosi: quei ragazzi erano dei draghi. Con la coda dell'occhio notai qualcuno avvicinarsi alla Sarli. Che la prof. avesse un appuntamento romantico? Devo ammettere che la curiosità era parecchia. L'uomo, un attempato e canuto figuro sulla sessantina, dalla fronte rada e modi untuosi, le si fece accanto mettendole una mano sulla bella spalla nuda. Dall'espressione che fece capii subito quanto la cosa non le andasse a genio. Che si trattasse di uno di quei pomposi conferenzieri a cui aveva accennato Elizabeth durante il volo? La cosa spiegherebbe perché la prof. avesse deciso di fare buon viso a cattivo gioco e non stampare un bel cinquino su una delle guance paffute e arrossate del tipo.
Quest’ultimo non aveva smesso un attimo di sussurrarle qualcosa nell'orecchio, qualcosa di estremamente noioso a giudicare dall’espressione tediata della donna, la quale, non perdette altro tempo e, accampando sicuramente una scusa di qualche tipo, si allontanò in direzione del bagno. L'occasione, si sa, fa l'uomo ladro, ma vedere quel vecchio laido e attempato calare una pasticca di qualche tipo nel bicchiere della prof mi fece subito ribollire il sangue nelle vene. In men che non si dica mi fiondai su di lui per dirgliene quattro ma venni anticipato dal barista del locale, anch'egli testimone del misfatto che, afferrato l'uomo per la collottola, senza tanti giri di parole, lo cacciò fuori dal locale a pedate. Io, fosse stato per me, gli avrei gettato addosso anche il contenuto del bicchiere incriminato, ma non si può avere tutto dalla vita.
Quando la prof. tornò dal bagno la band aveva appena concluso Baker Steet di Gerry Rafferty e si avviava ad accennare le prime note di Fly me to the moon. Notai che aveva indossato un lungo spolverino di raso blu scuro, a doppio petto, con un elegante cintino in vita dello stesso colore. I guanti, corti, con un bel fiocchetto all'altezza del polso, erano anch’essi in raso, ma dello stesso rosso del vestito, e facevano pendant con un borsalino dalla fibbia dorata. Il tutto si sposava alla perfezione con le decolleté blu dalle suole rosse che non avevo ancora avuto modo di notare. Quel chiasmo cromatico le dava un’aria elegante, ricercata; nulla a che vedere con l’aria scialba e da squattrinato di quello sprovveduto che, grazie alla bravata di poco prima, aveva avuto modo di provare il “soffice bacio” dei marciapiedi di Valencia. Anna sembrò sorpresa dell’assenza del vecchio laido, ma non per questo meno sollevata. Quella presenza si era fatta più ingombrante di quanto avessi potuto immaginare, infatti, toltasi borsalino e soprabito, la donna tornò subito a godersi appieno la performance della Jazz band, accomodandosi nuovamente sullo sgabello difronte al bancone e ordinando un altro bicchiere di champagne.
Restammo lì ancora per una buona mezz’ora, dico “restammo” perché, sebbene non avessi alcuna voglia di andar via (la band aveva appena iniziato ad improvvisare sulle note di take that train di Duke Ellington), non me la son sentita di lasciar andar via Anna da sola, specie dopo averla vista allontanarsi con passo pericolosamente malfermo verso l'uscita: troppi Champagne. Tempo di pagare il conto e la ritrovai a ciondolare in direzione dell’albergo, mantenendosi a un lampione per non cadere. Non era proprio in condizioni di poter continuare da sola, questo era poco ma sicuro, e sebbene non fossi del tutto sicuro di quale sarebbe stata la sua reazione una volta che l’avessi raggiunta, non potevo farla andar via da sola; non a quell'ora, non in quello stato.
- Professoressa, professoressa, tutto bene? – le chiesi cancellando con pochi passi la distanza tra noi due.
- Ce ne hai messo di tempo per farti avanti... – mi rispose lei, spiazzandomi.
- Come, scusi?
- Niente, è tutta la sera che continui a guardarmi dal fondo del locale. Mi chiedevo quando avresti trovato il coraggio di venire a parlare con me.
Il suo sguardo era sfuggente, il suo tono alticcio, e anche il suo alito lasciava parecchio a desiderare, ma nonostante tutto era bellissima come sempre.
- Posso accompagnarla in albergo?
- Ancora con questo “Lei”, non avevamo deciso di darci un taglio?
- Sì ma…
- Shhh… - continuò lei zittendomi con un dito sulle labbra - nessun “ma”; non c'è “ma” che tenga. Io sono Anna, chiamami “Anna”.
- Volevo solo…
- Questa è una bella serata, ed io voglio concluderla con una bella passeggiata verso l’albergo. Mi accompagneresti?
- Non chiedo di meglio – le dissi prendendole la mano inguantata
- Oddio, queste scarpe mi stanno uccidendo – proseguì lei sfilandosi una delle decolleté – per quello che costano dovrebbero essere comode come delle pantofole.
- Jimmy choo?
- Louboutin!
- Costano parecchio?
- Non immagini neanche quanto.
- Potrei portarla io a cavalcioni sulle spalle – suggerii aiutandola a sfilarsi anche l'altra scarpa
- Non essere ridicolo, si rovinerebbe il vestito.
- Armani?
- Fendi… Oh, che diamine; dammi una mano!
Non con poca difficoltà aiutai Anna a salirmi a cavalcioni sulla schiena. La prof. mi aveva messo le mani intorno al collo, mentre io la sorreggevo per le gambe.
- Fendi, Louboutin… Non ti sembra di esserti messa parecchio in tiro per un semplice pub di Valencia? La musica era stupenda ma per il resto mi è sembrato un locale come un altro.
- Non è per il locale che ero vestita così…
- Capisco… Era forse per il vecchio bavoso andato via mezz'ora fa?
- Hai visto anche quello eh? Non ti sfugge niente a quanto vedo. Ebbene, per tua informazione sappi che quell’uomo era, anzi “è” una delle menti più brillanti del panorama scientifico spagnolo. Fa parte infatti dell'equipe che presiederà la conferenza di domani mattina; il suo laboratorio è riuscito a mettere a punto un protocollo sullo studio dei complessi di coordinazione che ha dell’incredibile. Era tutta la vita che desideravo fare la sua conoscenza.
- Ma quando lo ha fatto…
- Hanno proprio ragione quando dicono che non bisogna mai conoscere i propri miti, che si corre sempre il rischio di scoprire che dietro grandi opere si celino uomini minuscoli, inutili… e il professor Rodrigo Vergara non fa di certo eccezione. È stato di un noioso… credo di non aver mai conosciuto un uomo più noioso di lui. Domani ci toccherà combattere parecchio per non addormentarci.
Non me la son sentita di raccontare ad Anna dell’episodio della pasticca. Quel segreto sarebbe rimasto tra me, Vergara, il barista e il lucido lastrato di cemento dei marciapiedi di Valencia. Percorremmo quel che restava del tragitto fino all'hotel parlando di Jazz. Entrambi eravamo rimasti colpiti dalla maestria della band sebbene per il sottoscritto si trattasse della prima volta a cui assistevo ad eventi di questo tipo.
- Oh, la musica migliore è quella che ascolti mentre la suonano dal vivo. – sentenziò lei appoggiando il mento sulla mia spalla destra - Diffida da tutti quei sedicenti esperti che passano la loro vita alla ricerca del vinile perfetto. Un vinile non è altro che una registrazione: la cristallizzazione di un momento che trova tutto il suo fascino proprio nella sua fugacità… Il Jazz è una cosa viva. Non la puoi immortalare come si fa con le fotografie. Pensa ai tramonti. Sfido chiunque ad affermare che vederne uno in foto e osservalo sulla spiaggia, mano nella mano con qualcuno, sia la stessa identica cosa. Non so se rendo l'idea. Forse ho bevuto troppo per discorsi filosofici di questo tipo.
- Credo di aver afferrato il concetto.
- Non ne dubito. Sei un ragazzo intelligente. Ero sicura che avresti capito… - continuò lei adagiando adesso la guancia sulla mia spalla.
Quel contatto, seppur semplice, innocente, la diceva lunga su quanto noi due ci stessimo avvicinando in quel momento e quella serata, un fiasco totale fino a poche ore prima, era giunta ad una piacevole svolta, così come m'apprestavo a fare io stesso di lì a qualche metro.
- Toh, siamo quasi arrivati – constatò la Sarli alzando la testa. Aveva riconosciuto infatti l’angolo dietro cui si celava l'ingresso del nostro albergo.
- Non è proprio il Luxor, eh? Ma ce lo faremo andar bene lo stesso - sussurrò poi la prof civettuola a pochi centimetri dal mio orecchio – D'altronde l'Università ha fondi limitati… anzi, mi meraviglio che abbiano deciso di promuovere questo progetto; non era per nulla scontato. Ti prego fammi scendere.
- Ne è sicura? Mancano ancora parecchi metri…
- Ti immagini cosa accadrebbe se qualcuno ci vedesse così? Le voci messe in giro su di noi potrebbero sfidare la teoria della relatività di Einstein per la velocità con cui circolerebbero in facoltà; e sinceramente vorrei evitarlo.
- Capisco…. – lasciai cadere a malincuore mentre aiutavo Anna a scendere per infilarsi nuovamente le Louboutin.
- Oh, non fare quella faccia – riprese lei accarezzandomi il viso – si vede lontano un miglio che sei un bravo ragazzo; sei stato un vero cavaliere a volermi portare sin’ qui; ma sai come vanno queste cose… Non c'è nulla di peggio di un gruppo di professori attempati per dare adito alle maldicenze.
Il suo sguardo era sincero, il suo sorriso gentile. Non aveva davvero senso prendersela se aveva deciso di salvare le apparenze; per quanto non ci fosse poi molto da salvare in verità, che cos'avevamo mai potuto fare di così sbagliato? Era stanca, alticcia, ed io avevo deciso di riportarla in albergo a cavalcioni sulla mia schiena. Tutto qui.
- Sicura di riuscire a tornare in camera sana e salva?
- Ci proviamo… - mi rispose lei incrociando le dita
- Il Fendi?
- Un po' sgualcito, ma nulla che non possa essere riparato dalla tintoria
- Si riferisce al servizio dell’albergo?
- Non sia mai! – mi rispose lei come colpita nell'orgoglio. – Non affiderei a quegli sprovveduti un paio di jeans strappati, figuriamoci il mio “Fendi” originale.
- Eresia! – continuai io facendole il verso – Solo che dall'ultima volta che siamo andati insieme in tintoria le cose non si erano messe proprio bene.
- Scemo – riprese lei sorridendo. Quell'allusione alle nostre disavventure le strappò una risata e un buffetto dispettoso sul mio braccio sinistro. Ma il ghigno compiaciuto con cui mi guardò subito dopo mi diede molto a cui pensare…
- Ola, pendejo, ¿qué pasa?
Sono in due, sembrano ubriachi fradici, ed hanno svoltato l'angolo alle nostre spalle poco dopo di noi. Uno di loro, il più mingherlino, ciondola vistosamente, forse ancor più di quanto non abbia visto fare alla Sarli, e non sembra per nulla avere buone intenzioni. Mi irrigidisco. Con una mano sposto Anna alle mie spalle mentre noto che un altro, leggermente alticcio anche lui, ha appena detto qualcosa al compare e ci guarda come un lupo che squadra un paio di pecore. Qui le cose stanno per mettersi male, davvero male.
- ¿Están perdido, italianos? – riprese il più smilzo inclinando la testa a destra e a manca con fare maniacale. Non ci separano che una manciata di metri.
- ¡Qué mujer mui ermosa…! – riprende l'altro indicando Anna e ondeggiando le mani come per disegnarne le curve. – ¡Ermosita!
Schiocca un bacio portando le dita alle labbra con fare teatrale, come a voler prendere in giro il nostro essere stranieri. Continuano a farsi avanti.
- Scappa – sussurro a denti stretti ad Anna, spingendola indietro verso l’albergo. La prof sembra essere rimasta interdetta – Scappa!
Quel grido deve aver galvanizzato i nostri aggressori. Vidi Anna correre verso l’albergo in cerca di aiuto, mentre i due mi furono subito addosso. Il primo pugno mi raggiunse in pieno viso, mentre il secondo mi colpì all'addome spezzandomi il fiato. Non so come riuscii a fare quello che ho fatto in seguito. Credo che il mio cervello abbia trovato dentro di me qualcosa di cui fino ad allora mi ero quasi dimenticato; “quasi” per l'appunto.
Non ero mai stato un tipo sportivo. I miei erano sempre stati disperati dal fatto che qualsiasi attività fisica non mi andasse a genio. Non che non abbiano provato a stimolarmi in qualunque maniera possibile: c'era stato il calcetto, il basket, la pallavolo; ma a me quegli sport non piacciono affatto. Infine mia madre si convinse a farmi frequentare un corso di Judo (non durai più di tre anni), ma tanto mi era bastato per imparare qualcosina sulle cadute e sull' autodifesa. Non chiedetemi di ripetervi i nomi delle prese, non mi erano chiari ad undici anni figuriamoci adesso… Credo che la prima si chiamasse O Soto Gari, o qualcosa del genere, e consisteva nell'afferrare l'avversario per il bavaro della giacca e fargli una specie di sgambetto dietro la gamba, una falciata data a metà tra stinco e caviglia con cui lo si faceva finire per terra. Il primo lo misi fuori gioco proprio così. Il mio maestro si era sempre raccomandato di terminare l'azione con una presa di “immobilizzazione”, ma non credo avrebbe avuto nulla da obbiettare quando rifilai a quel tipo un bel calcio nello stomaco. Il secondo, lo smilzo, mi afferrò da dietro, allungando il braccio intorno al mio collo. Lo sollevai facendo presa propri sotto la sua ascella e il suo baricentro, lo caricai sulle spalle, e lo scagliai a terra prima ancora che abbia avuto modo di reagire. Credo che tutto questo si chiamasse Ippon Seoi Nage… ma potrei sbagliarmi; ad ogni modo sferrai anche a lui un bel calcio nei “cosidetti” che gli strappò più di qualche gemito di dolore. Erano passati più di dieci anni dalla mia ultima volta sul tatami della palestra, ma era come se il tempo non fosse mai passato. Ero ancora io, che ripetevo a iosa prese e mosse per guadagnarmi la prossima cintura, anche se adesso in ballo c'era ben più di una semplice medaglia di metallo dorato. Anna doveva essersi rifugiata nella Hall dell’Hotel, o almeno così speravo. Alla fine quei due si erano dimostrati avversari meno temibili di quanto pensassi. Ma ancora non sapevo quanto m’ero sbagliato.
Qualcuno o qualcosa mi colpì da dietro, all’altezza della nuca e, per dirla alla Dante: Caddi, come corpo morto cade.
Rinvenni mezz’ora più tardi, steso su uno dei divanetti della Hall. Devo solo ad Anna il fatto che me la fossi cavata con una semplice commozione celebrale e un bernoccolo all'altezza della nuca. Ancora qualche secondo e sarei stato spacciato, ma per fortuna lei era riuscita ad allertare in tempo quelli dell'albergo e a salvarmi la vita. Era ancora lì, al mio capezzale, con gli occhi ancora scossi dalla paura. Le strinsi con dolcezza la mano destra, ridestandola da un lungo incubo ad occhi aperti. Visto che avevo ripreso conoscenza i poliziotti, ancora lì sul posto, vollero subito raccogliere la mia deposizione, per quanto sarebbe bastata quella di Anna e le registrazioni delle telecamere a furare via ogni dubbio. Mi informarono che quel bruto che mi aveva aggredito era un complice dei due; il trio gli era già noto: erano famosi per avere la cattiva abitudine di aggredire le coppie di turisti rimasti soli nei vicoli bui della città. Di solito si limitavano a minacciare e derubare i malcapitati, ma era già capitato, proprio come nel nostro caso, che tentassero di tramortire l'uno per poi stuprare la donna. Io e Anna eravamo dei miracolati. Incrociai il suo sguardo smarrito mentre l'agente continuava a parlarmi; la sua fronte imperlata di sudori freddi mentre realizzava quanto la sorte ci fosse stata favorevole.
- Andrà tutto bene - le dissi con un filo di voce, mentre quello strano senso di ottundimento andava via via affievolendosi leggero. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Sono sicuro che le ci sia voluta una gran forza d'animo per non scoppiare a piangere davanti a tutti. Mezzo gruppo dell'università era proprio lì nella Hall a godersi lo spettacolo di noi due braccati dal corso degli eventi.
- Prof, è stata brava – ripresi ancora accarezzandole la mano. La Sarli mi fissò con quei suoi occhi velati di lacrime. Un misto di dolcezza e disperazione difficile da descrivere.
- Anna, chiamiami Anna – obbiettò lei con dolcezza in presenza di tutti - ti devo la vita, non c'è bisogno che tu mi dia ancora del “lei”!
- Vi lascio riposare in pace – soggiunse l'agente prima di congedarsi – ho una cella che attende con ansia l'arrivo di quei tre “gentiluomini”. E pensare che sono fuori da poco più di un mese…
Quell'ultima frase cadde nel vuoto del silenzio generale. Sinceramente non me ne fregava un cazzo della sorte che sarebbe spettata a quei tre. Speravo solo che nessun altro si sarebbe dovuto trovare nella nostra stessa situazione. Anna sembrò pensarla come me. Insistette molto per accompagnarmi lei stessa in ospedale per fare i dovuti accertamenti, ma rifiutai. Tranne che per quell'antipatico senso d’ottundimento e una leggera fitta dietro il capo stavo egregiamente. Non c'era bisogno di recarsi in ospedale. Stavo bene.
- Certo che è strano – ripresi io una volta soli in ascensore – Ho insistito tanto per accompagnarti in camera ed è andata a finire che adesso sei tu ad accompagnare me – la prof accennò un mezzo sorriso sghembo. Chissà a che stava pensando…
- E poi non capisco perché – continuai a metà tra il serio e il faceto - ma ogni qual volta io e te stiamo insieme finiamo per incontrare la polizia!
La mia, naturalmente, voleva essere solo una battuta di spirito, ma non sortì l'effetto sperato.
- Mi dispiace, mi dispiace tanto – cominciò a singhiozzare lei disperata. – se solo… se solo penso.
- Ehi, ehi, Anna, è tutto a posto. Sto bene!
- Non che non è a posto, avresti potuto morire! – continuò lei inconsolabile mentre le accarezzavo il volto.
- Sono vivo! Sto bene! E te lo dimostro!
La baciai. Non so perché lo feci, forse solo perché m'andava di farlo, o per il semplice fatto di essere vivo; non lo so. Non so darvi alcuna spiegazione. Il fatto è che agii d'istinto, senza pensarci molto, lasciando che la colpa ricadesse sulla commozione celebrale di poco prima. La baciai con passione, assaporando ogni centimetro di quelle sue belle labbra carnose, affidando al cielo e al fato le sorti di quella mia azione tanto avventata. Anna non mi respinse, non subito almeno. Si staccò dalle mie labbra con calma, come se le cose fossero avvenute troppo velocemente per reagire con prontezza. E dopo aver fermato la corsa dell'ascensore, e avermi fissato con degli occhi che non saprei descrivere, ricambiò quel mio bacio più e più volte, con ancor più passione se solo fosse possibile, dimostrando una voracità che aveva dell'incredibile. Quei suoi baci erano dolci, appassionati, languidi. Si può fare l'Amore solo con dei baci? Beh noi l'abbiamo fatto, ed è stato bellissimo.
Non so dirvi per quanto tempo sia durato quel nostro momento di pura passione. Ma ero con lei e tanto mi bastava. Anna fece riprendere all'ascensore la sua corsa. Un’infinita sequenza di baci ci accompagnò alla porta di camera mia.
- Entra –
- Non posso
- Entra – le chiesi strappando l'ennesimo bacio a quelle labbra infuocate
- Non posso – ripeté lei – non sarebbe giusto.
Un bacio, un ultimo bacio a labbra salate suggellò quel nostro idillio.
- Sarebbe bellissimo – mi sussurrò ancora – ma non possiamo.
- Di che parli – le chiesi allontanandomi per guardarla negli occhi
- Sono sposata, - riprese lei abbassando lo sguardo - e poi… e poi che cosa ne penserebbero quelli dell'università?
- Ma io ti Am…
- Non dirlo – mi intimò lei azzittendomi con un dito sulle labbra – perché non lo pensi sul serio.
- Come puoi pensare che io non sia serio? – le chiesi cingendola tra le mie braccia
- Troppe emozioni – sentenziò lei liberandosi dal mio abbraccio – e poi hai battuto la testa.
- Sì, ho battuto la testa – ripresi io non dandomi per vinto – perciò diamo colpa alla botta di poco prima e vieni dentro con me.
La baciai nuovamente con foga e lei mi lasciò fare. Non so fino a che punto si sarebbe spinta quella notte se uno strano rumore non ci avesse sorpresi all'improvviso.
- Tutto bene? – chiese una voce familiare facendo capolino dietro l'uscio della porta
- Sì, Francesca, torna pure a dormire – rispose prontamente la Sarli con tono serio allontanandosi del tutto da me – Stavo accompagnando Alessandro alla sua camera. Sai, ne ha passate tante questa sera… Adesso è meglio se ce ne andiamo tutti a letto buoni buoni. Non trovi anche tu, Ale?
Non ebbi modo di replicare, quel suo sguardo non ammetteva repliche. Mi limitai a salutare con la mano la bella testolina rossa dallo sguardo assonnato che faceva ancora capolino da dietro la porta, maledicendo me stesso e la mia sfiga che, ancora una volta, m’aveva teso un colpo gobbo.
Le due donne aspettarono che io entrassi nella mia camera, scambiandosi un cenno d'intesa poco prima che richiudessi la porta. La possibilità che quella fresca brezza di primavera si trasformasse in vento di passione era sfumata via per sempre. S’era dissolta come neve al sole nei primi, tiepidi, giorni di Maggio.
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