L'equivoco - capitolo 1 - un inaspettato passaggio a casa
di
Alex 88
genere
voyeur
Capitolo primo
Un inaspettato passaggio a casa
Quando Marco, il mio compagno di banco me lo disse, credetti subito si trattasse di una bufala, una di quelle panzane stratosferiche che ci piaceva raccontare tra noi nerd per fantasticare un po’ e alleggerire il peso di una vita tra i libri; dovetti ricredermi.
Ma sarà meglio procedere per gradi. Mi chiamo Alessandro, ho trent’anni e sono un Farmacista. All’epoca dei fatti avevo da poco compiuto diciannove anni e frequentavo il primo anno della facoltà di Farmacia. Con un po’ di vergogna devo ammettere che, al contrario della stragrande maggioranza dei miei coetanei, il mio rapporto col sesso, allora, era limitato all’innumerevole numero di seghe che mi sparavo in continuazione già quando frequentavo le medie. Si può dire che la mia conoscenza del corpo femminile si limitasse quindi a qualche porno visto su internet, i film di Tinto Brass che puntualmente passavano in seconda o terza serata in tv, e qualche risicata nozione di educazione sessuale che ci avevano passato al liceo. Come si può ben capire me ne intendevo davvero poco di “Donne”, ad esempio non ne avevo mai baciata una, figuriamoci poi vederne una nuda dal vivo. La cosa, di per sé, non mi creava troppi problemi, continuavo a raccontare a me stesso che avrei fatto meglio a concentrarmi sullo studio piuttosto che pensare a simili scemenze, ma devo ammettere che il confronto con quelli della mia età si faceva sempre più difficile, al punto che il vedere tutti felicemente fidanzati mi procurava non pochi disagi.
Come avrete certamente intuito, le ragazze erano il mio tallone d’Achille, l’argomento tabù di cui avrei allegramente fatto a meno di parlare, in special modo visto che l’unica per cui battesse davvero il mio cuore era già impegnata. Si chiamava Chiara, frequentava la mia stessa facoltà, ed era la fidanzata di Marco, il mio migliore amico. Stavano insieme dalla gita del IV ginnasio, quell’anno ci portarono a visitare l’acquario di Genova e, sebbene fossi stato io a notarla per primo tra i banchi delle prime file della nostra classe, Marco non si era fatto remore a farsi avanti. Era alto, atletico, un vero figurino; le ragazze facevano a gara per farsi notare da un tipo del genere, ma lui non aveva occhi che per Chiara e, visto che lei lo ricambiava, io ero stato costretto a farmi da parte. Non che avessi grandi chance al riguardo, avevo da poco compiuto diciannove anni e, al contrario del mio ex-compagno di banco, ero mingherlino, brufoloso e con un pessimo modo di approcciarmi con il gentil sesso. Le giornate le passavo a studiare e a giocare al pc, mentre lui dedicava pomeriggi interi in palestra o sul campo di pallacanestro. E Chiara era fantastica, semplicemente perfetta; forse troppo perché le piacesse uno sfigato come il sottoscritto. La mia media era alta, su questo non avevo di che lamentarmi, ma di certo non si poteva dire la stessa cosa del mio morale o della mia vita sociale. Vederli insieme mi faceva male, ma Marco era il mio migliore amico e la sua amicizia era la cosa più bella che avessi nella mia vita solitaria, ma di notte non potevo evitare di pensare a Chiara, al suo volto angelico e al suo corpo perfetto…
- Ma sì. Ti dico di sì, credimi!
- Scusa Marco ma a me ‘sta cosa sa tanto di stronzata.
- Ti assicuro che è vero, me l’ha detto Alfredo di Ingegneria due giorni fa.
- Ma che ne può sapere Alfredo visto che la sua facoltà non si trova neppure nel nostro stesso plesso!
- Alfredo viene sempre qui per provarci con le ragazze. Farmacia è la facoltà scientifica con il più grande numero di iscrizioni femminili di tutta l’università; ma forse tu non te ne sei neppure accorto visto che vivi sempre nel tuo mondo.
Quando Marco faceva così mi faceva proprio saltare i nervi. Certo che sapevo che la mia facoltà era caratterizzata da una grossa percentuale femminile, ma come ho già detto le altre non mi interessavano; i miei occhi non erano che per Chiara.
- E, fammi capire, lui come se ne sarebbe accorto?
- Stava salendo le scale anti-incendio, quelle che portano al parcheggio sotto Informatica, la prof si trovava qualche metro sopra di lui. La gonna lunga, qualche brezza leggera di troppo…
- E ha capito che la Sarli era senza mutande? – ripresi per nulla convinto - puttanate!
- Non credo siano puttanate. Ho saputo che…
- Che cosa? – chiese Chiara piombando alle nostre spalle. – Ciao Amore – disse poi stampandogli un bacio sulle labbra.
- Nulla Amore – si affrettò a precisare Marco – uno di Ingegneria dice di aver visto tutta la saga di Nightmare da solo e senza aver avuto paura.
- Beato lui – riprese lei arrossendo e stringendo tra le braccia quello destro di Marco – io non riesco a vedere neppure i primi dieci minuti del primo film senza tremare dalla paura.
Era sempre uno spettacolo vedere Marco all’opera; inventare cazzate sul momento, era un’arte sopraffina che aveva affinato con anni e anni di pratica, sin da quando frequentavamo insieme le medie e, semmai fosse stato istituito un premio Nobel per le puttanate, sono certo che l’avrebbe vinto a mani basse. Non vi risulterà difficile, quindi, comprendere la mia reticenza al credere a una cazzata del genere: la professoressa Sarli che se va in giro senza mutandine? Puzzava di frottola come non mai!
La Sarli era davvero una bella donna; assomigliava ad Angelina Jolie ai tempi di “Mr. & Mrs. Smith” e insegnava “chimica dei composti inorganici” al secondo semestre del primo anno. Era una di quelle professoresse sempre in tiro, che la lezione te la spiegano in tailleur, calze velate e tacchi alti. Mai una macchia di gesso, mai un capello fuori posto. La sua mise era sempre impeccabile e si fregiava di eleganti camicie di seta accostate a superbi collier di perle bianche. Un vero spettacolo per gli occhi. Credo che siano stati in molti, in questi anni, ad aver perso letteralmente la testa per lei; ma il suo comportamento è sempre stato pressoché irreprensibile, al limite della perfezione. Quella storia delle mutandine faceva acqua da tutte le parti.
-Ciao Alex!
- C..Ciao Chiara – balbettai impacciato. Il bacio che mi schioccò sulla guancia mi fece girare la testa, ma forse era colpa anche dell’inebriante profumo al patchouli che indossava quel giorno. La fragranza era fresca, leggermente fruttata, e si sposava benissimo col profumo della sua pelle rosea e soffice. Non potete capire cosa avrei dato pur di poterla stringere forte tra le braccia come faceva Marco, e sapere che quello era un lusso che non potevo concedermi mi faceva star male come non mai.
Marco mi lanciò uno sguardo eloquente, conscio che quella storia non sarebbe mai venuta fuori dalle mie labbra in presenza di Chiara, a dir poco gelosa, ma entrambi non aspettavamo altro che giungessero le 11:00 perché l’oggetto della nostra diatriba si presentasse in facoltà per la lezione di ‘inorganica. Marco, con la scusa di venirla a prendere, si era procurato una copia dell’orario delle lezioni della fidanzata e, sebbene frequentasse Informatica, era super informato sugli orari di ricevimento e delle lezioni della Sarli. Difatti non perdeva mai l’occasione di fare una capatina in facoltà per vederla arrivare. Un giorno, mentre eravamo da soli, mi aveva confessato che vedere una prof, con un fisico del genere, in un ambiente accademico in cui a farla da padroni erano vecchi topi da biblioteca col riporto sulla testa glabra e le maniche dei blazer sporche di gesso, era un bel passo avanti per lui; una bella ventata d’aria fresca in un luogo asfittico come le nostre facoltà.
La prof si presentò puntuale e impeccabile come sempre, percorrendo il lungo corridoio dell’università con una leggiadria e una grazia che scatenava ogni volta l’invidia e la curiosità di quelle mummie impomatate dei suoi colleghi. Una volta in classe si concesse qualche minuto per riordinare il marasma di fogli volanti che, puntualmente, si portava appresso per far lezione, piegandosi disinvolta sulla lunga e pesante cattedra in noce per stare più comoda. I miei occhi si fiondarono subito sulla striminzita scollatura della camicetta di seta, ma quella sua mise castigata ed elegante lasciava trasparire davvero poco del florido seno o di quel bel culetto a mandolino sapientemente fasciato da una gonna a tubino nera, rimandando tutto il resto all’immaginazione. I suoi occhi corvini si presero ancora qualche minuto scrutare l’aula, attendendo con pazienza che la maggior parte di noi facesse silenzio.
- Certo che oggi è più bona del solito – si lasciò sfuggire alle mie spalle Fabio, uno studente del secondo anno che non aveva ancora passato l’esame e che occupava il banco dietro il mio. Chiara lo fulminò con un’occhiataccia.
- Tiè, tiè – bisbigliò sornione un ragazzo alla sua destra di cui mi sfuggiva il nome – guarda che occhi, pare ‘na pantera mezzo a giungla!
Chiara fulminò anche lui, poi si voltò a guardarmi e a sorridermi imbarazzata. Era adorabile.
- Chissà se porta ‘e mutande – riprese il ragazzo accanto a Fabio. Per un attimo temetti che Chiara l’avesse sentito, ma la vidi passarsi distrattamente la mano tra i lunghi capelli castani, accomodandoli dietro l’orecchio mentre morsicava una matita. Era davvero un angelo…
La Sarli cominciò a saettare col mouse sulla lavagna luminosa, dispiegando dispositive su diapositive ad un ritmo così serrato che a stento riuscivo a starle dietro con gli appunti.
- Aspé mi so persa – mi disse Chiara avvicinandosi per controllare i miei appunti e regalandomi un altro effluvio del suo profumo. Quella sua guancia, quel suo collo, così vicini, così esposti, mi mandarono ai pazzi.
- Signor Ferri è dei nostri?
- Certo professoressa – risposi con tono pacato. Chiara mi gettò uno sguardo pieno d’apprensione.
- Di che cosa stavamo parlando? – mi chiese la prof con tono aspro fissandomi con quei suoi occhi da pantera.
- Della distorsione tetragonale nei complessi di coordinazione ottaedrici dovuta all’effetto Jahn-Teller. Come possiamo vedere dalla diapositiva avremo un allungamento sull’asse z e un corrispettiva compressione dei quattro legami sul piano equatoriale…
- Va bene, va bene. Basta così – mi interruppe la Sarli spazientita – come stavo dicendo…
La prof riprese la sua spiegazione sulla geometria dei complessi di coordinazione metallo-organici, argomento con cui, a detta degli studenti degli altri anni, ne faceva fuori in molti all’esame. Ve l’ho detto, lo studio per me non era mai stato un problema. Chiara mi lanciò uno sguardo strabiliato a cui risposi facendo l’occhiolino; ahhhh se solo mi guardasse con gli stessi occhi con cui io guardavo lei.
-Adesso basta! – sentenziò la Sarli seccata – Se sento ancora volare una mosca giuro che vado avanti col programma e questa parte ve la dovrete studiare da soli! Sia ben chiaro, tutto questo è materia d’esame perciò vi conviene stare bene attenti piuttosto che presentarvi quel giorno e fare scena muta! Ci siamo intesi?
Il chiacchiericcio, endemico nella mia facoltà, terminò all’istante. Lo spauracchio dell’esame mozzò la lingua a tutti… o quasi.
-Hai capito la panterona… - bisbigliò ancora una volta il ragazzo alle mie spalle – oggi va affilata!
- Forse la cosa, caro Giorgi, non le è Arianna. Vedremo cosa avrà da dire al riguardo il giorno dell’esame. Buona giornata!
- Ma, prof…
- Ho detto buona giornata!
- Ma guarda te ‘sta troia! – masticò a denti stretti il ragazzo alle mie spalle raccattando la tracolla sul banco.
- Le suggerisco di non peggiorare la sua situazione, Giorgi. Vada piuttosto; prima che decida di rivolgermi al magnifico rettore per farla espellere per condotta inappropriata.
- Altro che mutande, questa è senza cuore! - disse rivolgendosi a Fabio.
Vidi la Sarli arrossire, non so dire se di vergogna, di rabbia o di un misto di entrambe le cose, ma lo sguardo che rivolse a tanta irriverenza è indimenticabile.
- Credo che qualcuno qui sarà costretto a cambiare percorso di studi, se non addirittura Università. – riprese la donna rincarando la dose e indicando, imperterrita, al ragazzo l’uscita.
-Cavolo, oggi sta proprio incazzata nera, sussurrò una voce femminile alle mie spalle
- Qualcuno ha da aggiungere qualcosa? – gli occhi della Sarli sprigionavano fulmini e saette. La tensione poteva essere tagliata col coltello, mentre un silenzio assordante imperversò per l’intera aula universitaria.
- Volevo ben dire… - rimbrottò nel silenzio assoluto la prima di pareggiarsi con calma gli orli della giacca.
- Come stavamo dicendo…
La prof riprese la sua lezione sui complessi di coordinazione con un tono sordo e pacato da cui, comunque, traspariva il suo cipiglio fumantino. Il resto della lezione passò senza ulteriori intoppi, lasciando sia me, che la mia avvenente compagna di banco, letteralmente senza fiato.
- Cavolo che bona! – commentò Marco vedendola allontanarsi dopo la lezione. – Hai visto come le scendeva bene la gonna? Secondo me non le portava – aggiunse allusivo.
Lo scapaccione che gli mollò Chiara subito dopo essere apparsa alle sue spalle credo che lo abbiano sentito fin in fondo al corridoio.
- E bravo – commentò incazzata – Allora è per questo che ci tieni a venirmi a prendere! Complimenti! – e, girati i tacchi, se ne andò.
Giuro di non averla vista arrivare, lo giuro. La credevo ancora in classe, altrimenti avrei cercato di avvisare Marco del pericolo imminente. Lui la inseguì subito dopo, massaggiandosi ancora la guancia dolorante per la sberla a mano aperta. Rimasto solo, non mi rimase che rassegnarmi a farmela a piedi; l’ultimo autobus era già passato da tempo e, visto che non potevo più contare in uno strappo da parte del mio migliore amico, percorrere in solitaria il lungo tragitto per casa era la mia unica alternativa. Ero fermo sul marciapiedi ad aspettare che un semaforo diventasse verde, quando vidi un’auto accostarsi a pochi passi da me.
- Solo?
La voce dentro l’abitacolo era l’ultima di cui avrei mai potuto immaginare: Chiara, la bellissima fidanzata del mio migliore amico, si era accostata per parlare con me.
- Ehm… sì – le risposi sorridendo imbarazzato.
-Lo vuoi uno strappo fino a casa?
Dentro di me lo sapevo che quella sarebbe stata una pessima idea, ma era dai tempi del liceo che aspettavo l’occasione di stare un po’ da solo con lei, senza Marco e il suo fascino da atleta tra i piedi; così accettai. Lo so cosa starete pensando: sei un amico di merda. Non posso darvi torto.
L’auto di Chiara, una vecchia seicento degli anni ’90, profumava della stessa fragranza al patchouli che avevo sentito prima in facoltà. I tappetini, così come i sedili erano lisi ma puliti, e dimostravano di non esser stati mai cambiati. Anche i sedili sembravano aver visto giornate migliori, mentre la moquette sul tettuccio mostrava quell’ingiallimento tipico di chi è solito fumare in auto.
- Questa è l’auto di mia madre – mi spiegò mentre spostava la pesante borsa a tracolla sul sedile posteriore per farmi accomodare. Giuro che non lo feci con malizia, ma non potei trattenermi dal guardarle le belle gambe lisce sotto il vestitino a fiori, era come guardare quelle della Venere del Botticelli. Ripartimmo poco dopo. Chiara aveva una guida “sbarazzina”, se così si può definire e non andava molto per il sottile per quanto riguarda l’uso di turpiloqui alla guida. Il suo era tutto un: “e che ca…!”, “Ma porc…!”, “ma ti vuoi levare da davanti al ca…!”. Sembrava di star seduti accanto ad uno scaricatore di porto. Eppure riusciva ad essere graziosa anche così. Quel suo aspetto fresco e vivace strideva non poco col suo modo di guidare, ma io la guardavo lo stesso con quegli occhi da pesce lesso di cui, adesso, mi vergogno persino a scrivere.
- Non te l’ho mai chiesto ma: tu e Marco vi conoscete da tanto? – Chiara curvò all’improvviso verso destra
- Una vita – le risposi laconico mentre m’aggrappavo con tutto me stesso alla maniglia del passeggero per non finirle addosso.
- Davvero? – mi chiese mentre raddrizzava l’auto in direzione della tangenziale.
- Ti sei già dimenticata? Io e Marco siamo compagni di banco dalla prima elementare! Marco non te l’ha mai detto?
-Non parliamo molto di te – mi rispose lei alzando le spalle. La cosa, in un certo qual modo, mi ferì, almeno al momento, poi pensai fosse normale che loro due pensassero a ben altro mentre erano insieme; a dirla tutta anch’io avrei avuto ben altro a cui pensare se fossi stato il suo ragazzo, così lasciai perdere.
-Cosa sai dirmi di Flora? – Mi chiese poi rivolgendomi uno sguardo sprezzante. Flora era un'altra ragazza che frequentava la nostra stessa facoltà: un tipetto anonimo, dai lunghi capelli rossicci e le lentiggini. Seguiva con noi le lezioni di Chimica analitica I, ma non avevo mai avuto modo di parlarci. Dissi a Chiara le stesse cose che ho riferito a voi, ricevendo in cambio uno sguardo arrabbiato.
-Non ci hai mai parlato?
- Non che io sappia – ripresi faceto – di solito uno certe cose se le ricorda. Non credi?
-Direi proprio di sì – mi rispose lei a denti stretti e con lo sguardo che sprizzava saette.
-Ho detto o fatto qualcosa che non va? – le chiesi preoccupato.
-No, tu no! – ribadì rivolgendomi ancora una volta uno sguardo sprezzante. Era bella anche quando si arrabbiava. Non avevo ancora capito che cosa l’avesse fatta incavolare così tanto, questo genere di cose non sono il mio forte, ma la sequenza serrata di domande che mi rivolse dopo rasentava uno di quegli interrogatori da film poliziesco; ci mancava solo che mi sparasse la consueta lampada da scrivania dritta in mezzo agli occhi. Il suo tono di voce si era fatto sempre più alto e aggressivo, e la cosa si ripercuoteva, per quanto stentassi a crederlo io stesso, anche sul suo modo di guidare.
- Chiara, ti vuoi calmare? – le chiesi accarezzandole una mano sul volante.
- Mi spieghi perché? – mi disse lei trattenendo a stento una lacrima
- Perché cosa?
-Perché lo copri sempre? - L’allusione fu così chiara che anche un’ emerito idiota come me riuscì a coglierla.
- È il mio migliore amico – le risposi sibillino.
- È uno stronzo! – rimbrottò lei con le lacrime agli occhi. Timidamente sfiorai, ancora una volta, la sua mano destra, ma lo sguardo furente che mi rivolse in quel preciso momento mi fece desistere all’istante.
- È il mio unico amico – precisai serio
- Resta comunque uno stronzo – ribadì Chiara accostando all’improvviso su una banchina di sosta della tangenziale. – e tu sei più stronzo di lui perché lo copri!
Detto questo si allungò su di me per aprirmi la portiera, il suo collo fresco e profumato mi sfiorò le labbra. Ancora non ci credo che mi abbia lasciato lì così, nel bel mezzo del nulla. Ma la sua Seicento sgasò via poco dopo, lasciandomi da solo come un fesso nel bel mezzo del nulla. Il cielo andava adombrandosi all’orizzonte con straordinaria velocità, come se anche il meteo ce l’avesse con me per com’erano andate le cose con Chiara.
Indeciso su cosa fare, visto che la fermata dell’autobus più vicina era comunque a parecchi chilometri di distanza, presi il cellulare per chiamare Claudio, il mio coinquilino. Contattare i miei sarebbe stato del tutto inutile dato che ci avrebbero comunque impiegato ore per raggiungermi; gli inconvenienti di uno studente fuori sede. Avevo scelto quell’università spinto dalle scelte di Marco e Chiara, a discapito di sedi più grandi e prestigiose quali Bologna, Milano o Roma, e mi avevano dato entrambi il ben servito. Quando eravamo ancora al liceo con Marco si parlava di prendere casa insieme, di diventare coinquilini oltre che compagni di banco; ma alla fine aveva scelto di andare a vivere con Chiara. Scelta più che comprensibile visto che avrei fatto lo stesso se solo ne avessi avuto la possibilità, ma che mi aveva costretto a cercare casa da solo in quella che non era certo la mia città; sebbene distasse solo poche ore da casa mia. Ero lì che rimuginavo sul da farsi quando un’altra auto si accostò nella piazzola.
-Rimasto a piedi?
Anche questa voce non mi era nuova: La Sarli, ancora sapientemente fasciata da quell’elegante tailleur nero, fece capolino da dentro l’abitacolo della sua elegante Mercedes argentata. Non appena i nostri sguardi si incrociarono, mi rivolse un sorriso difficile da decifrare.
-Ehm… sì, prof, mi imbarazza molto ammetterlo ma mi hanno lasciato a piedi!
-Lo vuoi un passaggio? – mi chiese trattenendo un risolino divertito
- Dice davvero? – chiesi con ossequio
- Ti sembra che sia il tipo che ti lascia nel bel mezzo del nulla? Hai voglia di scherzare? – il suo tono era un misto di sussiego e ironia di difficile interpretazione.
-Oh no prof, non mi permetterei mai – ripresi con tono ancor più deferente
- Dai che ti sto prendendo un po’ in giro – disse lei allungandosi per aprirmi la portiera – Salta su!
Il suo sorriso era gentile, pieno di comprensione, anche se in quel momento avrei voluto sprofondare per l’imbarazzo.
- Sta per venire giù il diluvio universale! – commentò mentre prendevo posto accanto a lei. L’abitacolo profumava di macchina nuova e di un leggerissimo sentore di Chanel n°5. Una pioggerella fina fina cominciò a picchiettare sul vetro del parabrezza, mentre la Sarli ingranava la marcia per dirigersi in mezzo al traffico dell’ora di punta. L’autoradio mandava un vecchio pezzo di Julie London: “Cry me a river” (che avevo subito riconosciuto visto che conoscevo a memoria la colonna sonora di “V per Vendetta”), mentre io mi lambiccavo il cervello per trovare uno straccio di argomento con cui fare conversazione.
-Chissà che cosa le avrai detto per farla arrabbiare così tanto… - mi incalzò allusiva la prof senza scollare gli occhi dalla strada.
- A mia discolpa posso dire di essere stato messo in mezzo – dissi voltandomi a guardarla.
- Proprio un bel tipetto quella morettina – commentò – se ha deciso di abbandonarti nel bel mezzo della tangenziale e con un acquazzone in arrivo.
- Diciamo che non è stata la migliore delle sue decisioni – lasciai cadere lì mentre mi voltavo a guardare le strisce di pioggia modellate dalla velocità.
-L’altra è stata scegliere quel bellimbusto al posto tuo
-Come? – le chiesi esterrefatto, voltandomi a guardarla con gli occhi sbarrati – si vede così tanto?
La Sarli continuava a concentrarsi sulla guida, dando poca importanza alla porzione di cosce tornite che la gonna aveva lasciato scoperto. Quel suo sorriso sghembo la diceva lunga su cosa pensasse al momento.
- Ti ricordo che anch’io guardo voi quando faccio lezione.
Le sue dita affusolate sfioravano il volante come farebbe una pianista coi tasti di un pianoforte, da ogni suo gesto, infatti, traspariva un’eleganza inusitata, atavica; a cui era impossibile sottrarsi. La sua auto si divincolava con disinvoltura tra la miriade di auto in coda verso l’ingresso della statale, emulando la grazia e la leggiadria della donna alla guida.
- Come ti è sembrata la lezione oggi? – mi chiese cambiando discorso senza scollare neppure per un attimo gli occhi dalla strada. Era stano sentirla darmi del “tu” quando per mesi era stata così irreprensibile nell’uso del “lei”.
- Non saprei che dirle – risposi poco convinto – interessante come sempre.
- Ti chiedo scusa se mi sono saltati i nervi. Non dev’essere stato uno spettacolo edificante quello di poco fa…
La Sarli che mi chiedeva scusa? Per un attimo ho davvero temuto che si trattasse di un sogno.
- Quel coglione si meritava anche di peggio – risposi io in maniera franca – fosse stato per me, un paio di ceffoni non glieli avrebbe tolti nessuno.
- Ti pregherei di moderare il linguaggio – mi redarguì la prof voltandosi a guardarmi negli occhi. – però hai ragione: quel coglione due schiaffi se li meritava proprio. Chissà come avrebbe reagito la tua morettina… - Mi punzecchiò sorniona. Le sorrisi, e lei fece lo stesso, ma il suo era un sorriso strano… da cui traspariva una sorta di stanchezza di cui non sapevo darmi ragione.
Ero sul punto di chiederle se qualcosa non andasse quando la vidi sgranare gli occhi e portare tutta la sua attenzione sulla strada.
-Ma porc…
L’imprecazione della Sarli restò lì sospesa a mezz’aria per tutto il tempo, pochi attimi in realtà, in cui l’auto passò su quella pozzanghera maledetta. L’anteriore destra affondò troppo in basso perché l’auto non deviasse bruscamente verso il guardrail, con la Sarli chiamata a dar prova di tutta la sua destrezza alla guida per mantenere il controllo del mezzo. Un paio di brusche manovre per raddrizzare il tiro ed eravamo finalmente fuori pericolo; anche se il sibilo e il borbottio seguenti a quel piccolo incidente erano segni chiari ed evidenti che avevamo finito per forare.
- Tutto bene Prof? – le chiesi non appena accostammo
- Anna, chiamami Anna. Stavamo quasi per morire, credo che certi convenevoli potremmo anche metterli da parte. Non sei d’accordo?
Sono sicuro che la cosa andasse oltre il comportamento deontologico previsto dal regolamento universitario e dai normali rapporti studente-insegnate, ma decisi di fregarmene altamente.
-Tutto bene Anna?
-Ti sembra che stia bene? – riprese lei cominciando a tremare.
- Calma, stai calma. – le dissi poggiandole una mano sulla spalla - Sei stata brava.
- Una brava pilota avrebbe evitato di finire su quella pozzanghera a tutta velocità – rimbrottò lei sbattendo le mani sul volante – è una delle prime nozioni di guida che si imparano.
- Gli incidenti capitano – le dissi cominciando ad accarezzarle la spalla – l’importante è essere pronti a reagire. E tu oggi hai dato prova di saperlo fare.
Quella situazione a ruoli invertiti aveva un che di surreale. Anna mi rivolse uno sguardo rammaricato.
-Usciamo a vedere che cosa è successo – le suggerii prima di abbozzare un sorriso pieno di comprensione.
La Sarli scese subito dalla macchina, raggiungendomi dall’altro lato dell’automobile per constatare l’entità del danno; dimentica della pioggia incessante che aveva cominciato a inzupparle i vestiti.
- Dovremmo cambiare la gomma – mi gridò per sovrastare il rumore delle auto in corsa sulla tangenziale mentre con la mano cercava di allontanare la pioggia dagli occhi.
- Per prima cosa il triangolo - le suggerii mentre cercavo un paio di gilet catarifrangenti – e soprattutto indossare questi; o ci prenderanno per birilli!
La Sarli mi emulò ubbidiente, dandomi una mano anche a tirar fuori dal bagagliaio: ruotino di scorta, cric e chiave per i bulloni.
-Cosa c’è? Non vengono via? – mi chiese poco dopo vedendomi in difficoltà
- Lascia provare me – disse poi di fronte al mio no con la testa.
- Accidenti a mio marito e alla sua fissa per gli avvitatori elettrici – imprecò dopo aver tentato inutilmente anche lei di allentare con la chiave in dotazione uno dei bulloni di supporto. – Non si smuove neanche con le cannonate!
-Ehm… no, direi di no – le risposi imbarazzato.
- Proviamo insieme. – suggerì lei, così preoccupata da non accorgersi che, nell’impeto del momento, la sua povera camicetta di seta si era bagnata al punto da lasciar intravedere l’elegante bordo di pizzo del reggiseno a balconcino. L’elegante tessuto, infatti, per colpa della pioggia si era fatto pressoché trasparente, aderendo a quel corpo da modella come una seconda pelle.
Lo so che cosa starete pensando: uno in una situazione del gene non bada certo a queste cose!
Che dire… a me l’occhio cadde lo stesso. La Sarli mi era accanto, e i miei occhi vagarono su quel bel decolleté esposto troppo a lungo perché non se ne accorgesse, anche se al momento sembrò non farci caso.
-Su, dammi una mano! – mi disse quindi aggrappandosi alla chiave e tentando di far leva con tutto il suo corpo. Il bullone si smosse all’improvviso, la chiave mulinò su se stessa facendoci perdere l’equilibrio , e fu così che finimmo per terra, l’uno tra le braccia dell’altra, mentre la pioggia rendeva i nostri vestiti già zuppi un indistinguibile melma di stoffa bagnata. Mi sembrò d’essere in una di quelle assurde scene da film romantici americani, con l’alito gentile della Sarli a solleticarmi la punta del naso. Le sue labbra erano pericolosamente vicine alle mie, i miei occhi immersi nelle sue pupille profonde quanto un oceano in tempesta; sentivo il caldo contatto delle sue cosce con le mie gambe, e le fitte gocce di pioggia che tamburellavano insistentemente su entrambi. Quel goffo e improvviso contatto con la mia avvenente professoressa mi provocò una scarica elettrica di cui non sapevo darmi ragione. Tentai di rialzarmi il più in fretta possibile, per evitare a entrambi di fare i conti con una situazione che, per quel che mi riguarda, diventava via via più imbarazzante; ma fu porgendole la mano per rialzarsi che mi resi conto di quanto sconvolta, fradicia e inzaccherata di pioggia, fosse la Sarli. La prof prese la mia mano volentieri, spingendo con le gambe sull’asfalto per rialzarsi e donandomi un altro sconvolgente spettacolo a cui non ero minimamente preparato. Risalita oltre qualsiasi orlo consentito, la sobria e castigata gonna a tubino della mia docente lasciò intravedere per un tempo indefinito l’elegante pizzo delle sue mutandine bianche, troppo trasparenti per non notare la sottile striscia di peli al di sotto. Il mio sguardo venne subito catturato dall’immagine di quel suo monte di venere, scuro e ben curato; e respirare si fece all’improvviso difficile e faticoso.
- Credi di riuscire a darmi una mano – mi disse lei seccata – o sei troppo occupato a spiarmi tra le gambe?
- Mi… mi scusi – balbettai avvampando dalla vergogna mentre mi adoperavo perché si rimettesse in piedi – Non volevo mancarle di rispetto.
- Lascia perdere – mi disse la prof rivolgendomi uno sguardo severo, pieno di biasimo; uno di quelli che avrebbe fatto crollare anche il più arrogante degli sbruffoni. Sfilata la chiave, riprese subito a far leva su un altro bullone, come se nulla fosse, invitandomi implicitamente a fare lo stesso.
Non con pochi sforzi riuscimmo ad aver ragione di ciascuno dei bulloni, sostituendo la ruota e rimettendoci immediatamente in marcia sotto quella pioggia torrenziale che non accennava minimamente a diminuire.
- Mi scusi ancora Prof - le dissi una volta in auto - davvero, non intendevo mancarle di rispetto! –
Ma lei non mi rispose, si limitava a fissare la strada per evitare altri incidenti.
- Non fa niente – la sentii sussurrare dopo un lungo sospiro - Anch’io avrei dovuto fare più attenzione
La Sarli non staccò gli occhi dal lucido asfalto della tangenziale neppure per un minuto; che fosse ancora scossa per l’incidente appena sfiorato? L’imbarazzante silenzio che seguì in quegli ultimi minuti mi diede l’impressione che le cose stessero proprio così.
- Diciamo che è il giusto castigo per aver deciso di indossare questo Armani nonostante le previsioni, stamattina, fossero chiare; cristalline. Per non parlare della camicetta… – continuò amareggiata - è da buttare.
- Non si può fare proprio niente? – le chiesi estremamente rincuorato dalla risposta appena ricevuta.
- Dovrei portarla immediatamente in tintoria – suggerì lei riflessiva – questa seta è così delicata che si rovinerebbe se solo provassi a…
- Ci vada subito – incalzai – In fondo se si è sporcata in questo modo è anche colpa mia.
- Ma la tintoria è dall’altra parte della città… – replicò lei indecisa
-Un motivo in più per non esitare un solo istante
- Ma non posso andare in tintoria e sfilarmi tailleur e camicetta come se nulla fosse… – replicò ancora una volta la Sarli cominciando, stavolta, a mordersi le labbra.
Quella situazione l’aveva messa più a nudo di quanto non si rendesse conto, lasciando trasparire un’umanità che si sposava divinamente con la sua eleganza innata; molto più di quanto fosse disposta ad ammettere, se posso dirla tutta. Le donava.
- E quello? – suggerii dopo qualche minuto notando un vecchio soprabito sgualcito sul sedile posteriore.
- Oh – riprese lei alzando le spalle sovrappensiero - quello è solo un vecchio trench di mio marito.
La prof si voltò a guardarmi con un’espressione più che eloquente.
- Non starai davvero pensando che…
- È un’ipotesi da non sottovalutare – le suggerii complice. Lei soppesò per qualche minuto la mia proposta, mordendosi per tutto il tempo il labbro in preda all’indecisione.
-Uff… e va bene! – sbottò dopo rassegnandosi alla cosa – dopotutto non mostrerei nulla che tu non abbia già visto poco fa sotto la pioggia!
E accostata ancora una volta l’auto in una piccola piazzola di sosta, si fiondò sul sedile posteriore passando direttamente nel varco tra quelli anteriori.
- Parti – mi ordinò perentoria mentre già si sfilava la giacca del tailleur – e occhi sulla strada!
Ubbidii ossequioso, ragionando tra me e me su quanto, col passar del tempo, quella situazione si stesse facendo sempre più assurda e complicata. Sistemai, senza badarci, lo specchietto retrovisore, ricevendo per tutta risposta un sonoro rimprovero da parte della mia avvenente professoressa.
-Mister, ti ho detto occhi sulla strada; non c’è nulla da vedere!
-Ma io in realtà…
- Sbagliare è umano, ma perseverare è diabolico – sentenziò lei mentre, infilatasi il lungo soprabito grigio, armeggiava con maniche e gancetti per sfilarsi camicetta e reggiseno. Nel vedere quei capi, adagiati con tanta non-chalance sul sedile anteriore, il mio arnese cominciò sul serio a indurirsi, fino a diventare barzotto. Con movimenti lenti e studiati la Sarli continuò a sfilarsi gli indumenti bagnati, proseguendo con la lunga gonna nera a tubino del tailleur, una coppia di calze velate e il pezzo più importante di tutti: le sue mutandine bianche. Sotto quell’ingombrante soprabito scuro, in pratica, la mia prof era nuda.
- Quella è la nostra uscita – mi indicò inchinandosi brusca verso di me dal sedile posteriore. Nel farlo i lembi del soprabito si mossero all’improvviso, ma non ebbi modo di poter sbirciare un bel niente vista la celerità con cui sistemò la cinta in vita. Quel soprabito era molto più grande di lei, su questo non c’era alcun dubbio, e così spesso che era pressoché impossibile che qualcuno si accorgesse della mise succinta al disotto; ma era comunque uno strazio sapere la Sarli nuda accanto a me e non potervi dare neppure una sbirciatina.
Chissà di che forma erano le sue tette. Le aureole erano grandi o piccole? I capezzoli scuri o rosei? Devo ammettere che in quel momento non riuscivo a pensare a nient’altro che a quel paio di mutandine bianche di pizzo, che la prof aveva candidamente adagiato sul sedile accanto al mio, proprio in cima al cumulo dei suoi vestiti bagnati.
- Da questa parte – mi ordinò la Sarli strappandomi ai miei pensieri e calamitando la mia attenzione sul suo dito smaltato. – la tintoria è dietro quell’angolo lì – indicò – puoi anche accostare qui, visto che c’è posto.
Ubbidii
- Devi promettermi una cosa però – mi disse prima di scendere dall’auto per recarsi in tintoria – questa storia resta tra noi.
- Ça va sans dire – le risposi io improvvisando il miglior De Sica di cui fossi capace. La prof si fermò a fissarmi seria attraverso lo specchietto retrovisore, ed io non potei fare a meno di arrossire.
- Certo che rimane tra noi. – aggiunsi quindi abbassando gli occhi - Non mi permetterei mai…
- Sei proprio un bravo ragazzo – mi disse lei prendendosi un momento per accarezzarmi una spalla e, raggomitolata quella pila di indumenti bagnati, si diresse di gran carriera in tintoria.
Era difficile immaginare che quel cumulo di vestiti bagnati, sgualciti e appallottolati, fino a poche ore prima erano stati l’invidia dell’intera facoltà, ma la cosa mi strappò un sorriso: ero l’unico a sapere per certo che la prof indossasse o meno le mutandine.
Dannazione!
-Che è successo? – le chiesi vedendola fiondarsi di corsa nell’abitacolo per sfuggire alla pioggia incessante
-Non mi va di parlarne – mi rispose sibillina.
La sentii masticare tra sé e sé un vaffanculo a denti stretti, ad un tono troppo basso per darsene pensiero. La pioggia aveva già ripreso a creare bizzarri rigagnoli sul vetro del parabrezza e cupi nuvoloni neri continuavano ad addensarsi all’orizzonte. Anna continuava a sbirciare fuori dal finestrino e qualcosa mi faceva intendere che tutto questo avesse poco a che fare con la storia della tintoria.
- Ti prego, parti. – mi chiese poco dopo senza distogliere lo sguardo dai lucenti rigagnoli d’acqua sul vetro del finestrino.
- Sicura di non vuol guidare lei? – le chiesi interdetto.
-Le mie Jimmy Choo sono da buttare – mi disse lei voltandosi a guardarmi negli occhi – e poi ti ho detto di darmi del tu.
- Va bene… - ripresi io avviando l’auto – dove si va?
- Ti dispiace se passiamo un attimo da casa – mi chiese lei con tono dolce – sto congelando.
-Sì, c..certo – le risposi impacciato – vuole che accendo l’aria calda?
- Ti prego Ale diamoci del tu. – replicò lei con tono stanco – Fa troppo freddo per continuare con tutta questa assurda formalità! Non trovi anche tu?
Le sorrisi. E su di noi calò ancora una volta quel silenzio che per tutto il viaggio, come un ospite indesiderato, non aveva mai smesso di accompagnarci.
Non funziona – sortì la prof con un’alzata di spalle – e mio marito non fa altro che rimproverarmi di farla controllare. Ma come faccio con l’università? In fatto di mezzi pubblici questa maledetta città rasenta la Dite dell’inferno dantesco…
La osservai incuriosito: la Sarli dimostrava una cultura che andava ben oltre il suo ristretto campo di ricerca, e la cosa mi lasciò piacevolmente colpito.
In cielo cominciò ad impazzare una battaglia di lampi così intensa che avrebbe fatto rabbrividire Zeus in persona, trasformando quel pallido Aprile in un grigio Ottobre senza caldarroste.
- Ecco. Ci mancava solo questo – disse la prof notando la volante appostata in una piazzola di sosta della tangenziale. Credo che l’ufficiale di pattuglia abbia fatto scattare la paletta non appena ha visto la nostra auto imboccare l’ingresso 10A. Come da prassi ci intimò di accostare, avvicinandosi al mio finestrino per un ordinario controllo dei documenti. La pioggia ne rigava il viso mal coperto dal berretto d’ordinanza, sgocciolando sulla scura divisa fradicia e pesante.
- Buonasera Agente
-Buonasera. Favorisca patente e libretto.
La Sarli si adoperò per recuperare quest’ultimo da un cassetto posto sotto il sedile del passeggero, lasciandomi libero di ripescare la patente dalla tasca del giubbotto. Il suo atteggiamento lasciava trasparire un certo nervosismo, cosa che desto subito l’attenzione del poliziotto.
- Signora è sicura di sentirsi bene? – chiese quindi il gendarme sparaflesciando nell’abitacolo l’abbacinante fascio della sua torcia elettrica.
- Va tutto bene – gli rispose la Sarli abbozzando un sorriso stentato e sforzandosi con tutta se stessa di darsi un tono
- Dove siete diretti? – chiese l’uomo con tono ancor più diffidente
- Alex, mio nipote, è stato così gentile da essersi offerto volontario per riportarmi a casa con la mia auto – mentì la prof ostentando non calanche. Mi chiesi perché mai lo avesse fatto visto che per me non c’era nulla di così strano o fuori luogo in quella situazione da dover ricorrere ad una menzogna.
- Signora, sarebbe così gentile da fornire anche i suoi di documenti? – chiese senza fare tanti giri di parole il poliziotto che, intanto, continuava a scansionare entrambi col suo sguardo indagatore.
- Non vedo cosa abbia fatto di male per…
- Signora, lei non ha fatto nulla, per ora… – si affrettò a precisare l’uomo con fare sbruffone – ma noi siamo la Polizia di Stato ed è nostro preciso dovere controllare i documenti di chi è a bordo quando lo riteniamo opportuno.
La prof fece per replicare ma venne subito interrotta dall’agente.
-A lei la scelta Signora: può mostrarci i documenti così che noi procediamo con il controllo e poi siete liberi di andare, oppure ci seguite in caserma e poi dovrete dare spiegazione del vostro comportamento ostile durante un banalissimo controllo di polizia.
Vidi la Sarli cambiar colore peggio di quei vecchi televisori a tubo catodico e subito adoperarsi per recuperare la carta d’identità dalla borsa.
-E…ecco a lei Agente – disse la prof allungandosi su di me per consegnare il documento di plastica colorata. L’aroma inebriante del suo Chanel n°5 raggiunse subito le mie narici, facendo nascere in me la voglia di affondare le labbra sul suo bel collo da nereide.
- Ecco, così va meglio – si limitò a commentare il poliziotto prima di allontanarsi verso il suo collega per procedere al controllo vero e proprio.
- Non dire una parola – mi intimò subito la Sarli quando fummo soli
-Prof, ma…
- Fai silenzio – mi intimò sottovoce - giuro che ti spiegherò tutto, ma adesso taci!
Il suo sguardo era inflessibile, il suo tono perentorio e la cosa le donava un’aria da dominatrice che difficilmente sarei riuscito a dimenticare.
-Mi scusi professoressa Sarli – si affrettò a pronunciare l’agente una volta di ritorno – non l’avevo riconosciuta. – e scattato quasi sull’attenti aggiunse: – Mi saluti tanto suo marito; il vicequestore.
La prof rispose con una smorfia indefinita, limitandosi stoicamente a farsi restituire i documenti.
L’agente mi fece subito cenno di andar via, confidando con tutto se stesso che i rigagnoli di pioggia agli angoli del suo berretto nascondessero per bene le sottili gocce di sudore freddo che ne imperlavano la fronte.
-Posso sapere perché hai deciso di mentire alla polizia? – le chiesi una volta partiti. La Sarli continuava a guardarsi intorno con fare circospetto.
- Che intendi dire?
-Non pensi che sarebbe risultato alquanto difficile spiegare, dopo un attento controllo da parte della polizia, come mai io e te ci siamo definiti “zia” e “nipote” nonostante non ci leghi nessuna parentela?
- Non ci avevo pensato.
- Come sarebbe a dire che “non ci avevi pensato”? Che male c’è ad ammettere che io sono solo un tuo studente dell’Università?
- Ero nel panico, va bene? – mi rispose lei contrariata - Sinceramente in quel momento mi è sembrata la cosa più sensata da dire vista la situazione. – La prof indicò con un gesto eloquente il suo vecchio soprabito.
- Dí un po': al suo posto avresti creduto mai che indosso “solo” questo vecchio soprabito perché la pioggia ha bagnato i miei vestiti?
La Sarli pronunciò quella parola: “solo” con una strana inflessione della voce, come se ammettere la natura stessa del suo striminzito vestiario fosse di gran lunga più imbarazzante del fatto in sé.
- È per questo motivo che poco fa eri così nervosa?
- Per cos’altro sennò? Lo hai sentito anche tu: mio marito è il vicequestore è ho temuto che, se solo avessero deciso di perquisirmi, sarebbe stato davvero impossibile spiegargli il motivo per cui sono mezza nuda in compagnia di uno studente del mio corso.
- Non hai pensato che così facendo hai attirato ancor di più l’attenzione del poliziotto su di te?
-Scusa se mi sono fatta prendere dal panico. – ribatté sarcastica – è la prima volta che mi ritrovo in una situazione del genere. La prossima volta starò più attenta.
- La prossima volta? – le chiesi a metà tra l’interdetto e il sornione
- Era per dire – si affrettò a precisare lei – vabbè che hai capito… - continuò poi, ma i suoi occhi oscillavano ondivaghi nei miei, mentre sulle sue labbra si palesò un sorriso colmo d’imbarazzo.
- Io sono quasi arrivata – mi disse indicando l’ennesima uscita della tangenziale.
Casa sua era ubicata poco dopo, dietro l’elegante portone di legno di un grosso palazzo signorile sulla destra.
- Allora le nostre strade si dividono qui – sentenziai mentre accostavo, tingendo la mia performance con un finto cipiglio alla Clint Eastwood.
-Non essere sciocco. – ribatté lei - Non vorrai mica fartela a piedi da qui sino a casa tua?!
- la metro passa a pochi isolati da qui… - continuai io allusivo
- Sciocchezze! Allora a cosa sarà valso passare tanti guai?
- Anna…
- Sì, mi chiamo così. Finalmente ti sei deciso a chiamarmi per nome. Adesso facciamo così: tu sali con me, aspetti che indosso qualcosa di caldo oltre a questo vecchio soprabito e lasci che ti accompagni a casa. O sarà stato tutto inutile.
- Ma Anna…
La Sarli mi rivolse uno sguardo strano, indecifrabile; a metà tra il rimprovero e l’apprensione. Non ebbi il cuore di dirle di no, anche se ammetto che quel pomeriggio si era fatto già così assurdo e irreale che cinque minuti in più non avrebbero di certo pregiudicato la situazione.
L’appartamento della prof era allocato al quinto piano, scala C, e vi si poteva accedere attraverso uno di quei vecchi ascensori in legno con la cabina che scricchiola al minimo sobbalzo. Le scale, in marmo, e dall’aspetto decisamente anteguerra, costituivano un’alternativa di cui Anna fece piacevolmente a meno. Partivano da un ampio androne, scarsamente illuminato, e si inerpicavano verso l’alto costeggiando un’invidiabile boiserie dai toni freddi e raffinati. L’androne, che tra le altre cose presentava il vetusto gabbiotto in noce di una portineria ormai dismessa, si tingeva dei colori vivaci e sgargianti di un’imponente vetrata, che dava accesso all’atrio interno, diametralmente opposta al pesante portone d’ingresso. Quel gioco di luci e vetri colorati creava accostamenti arlecchini su pavimento e boiserie, ma solo se in quel momento in cielo non impazzava la terza guerra mondiale. Mi fermai ad osservare la sottile balaustra in ferro brunito che andava arroccandosi intorno al torrino dell’ascensore; sebbene fosse stata fusa con la grata della gabbia, manteneva ancora quell’inconfondibile slancio dello stile a cui era ispirata: l’Art Nouveau.
La cabina del vecchio ascensore
La prof ebbe cura di farmi accomodare in salotto, un ambiente eclettico in cui stili diversi erano stati armonizzati con grandissima cura. A sontuosi tappeti persiani, pezzi d’inestimabile valore che ricoprivano un costosissimo parquet di rovere, erano stati accostati pezzi di mobilia dallo stile spiccatamente coloniale. Sembrava insomma di esser stati catapultati in uno di quei salotti inglesi di inizio novecento, dove una piccola piramide egizia di arenaria trovava posto accanto a un Buddha birmano in giava e stampe giapponesi raffiguranti geishe e samurai; un ambiente decisamente inconsueto per un tipo come me che dalla sua poteva vantare solo un vecchio materasso sdrucito, adagiato su una rete sbrindellata e cigolante, posto in una misera stanzetta pidocchiosa che tra l’altro era costretto a condividere con un altro morto di fame come lui. Credo che Alessio, il mio coinquilino, avrebbe sgranato gli occhi quanto me di fronte a tutto quel sapiente spreco degli spazi. La mia attenzione si concentrò quindi su alcuni tomi dell’imponente libreria, un’infinita collezione di volumi che i proprietari avevano fatto rilegare con la copertina in pelle e i caratteri incavati in foglia d’oro. La cosa che mi ricordava molto le interminabili raccolte enciclopediche presenti tra gli scaffali della biblioteca universitaria, ma l’accostamento era decisamente più stravagante. Libri di “Biochimica applicata”, infatti, facevano bella mostra di sé accanto a pomposi volumi di “diritto privato”, condividendo con questi ultimi misure e colori di copertina.
La Sarli mise su un evergreen: Moanin’ di Art Blakey e i messengers, lasciando che il sound suadente e rilassato di quel vecchio Jazz riempisse l’aria del suo appartamento, anche se, dato l’assortimento, mi sarei aspettato che un giovane Sherlock Holmes sbucasse da chissà dove per esercitarsi col violino, ma ancora una volta quel suo accostamento di stili mi lasciò piacevolmente sorpreso. La prof si congedò poco dopo, lasciando che la scia del suo Chanel n°5 si insinuasse lungo le pareti del corridoio, diradandosi tra le pesanti cornici dei quadri, per poi giungere, con maggiore intensità, alla porta della sua camera da letto.
Non so dare una spiegazione del perché m’avventurai su quel lucido pavimento di parquet, né tantomeno cosa mi spinse ad accostarmi alla porta della sua camera, lasciata socchiusa, ma lo spettacolo che vidi era di gran lunga più interessante di tutti i libri presenti in salotto.
Anna si era disfatta del pesante soprabito del marito, pigramente adagiato sul bracciolo di una poltrona poco distante, e s’adoperava, dietro un esile paravento in seta giapponese, per avvolgersi tra la morbida e soffice spugna di un accappatoio. Dalla mia posizione potevo facilmente intravederne l’inconfondibile silhouette attraverso la stoffa sottile del paravento e devo dire che mai spettacolo di ombre cinesi fu più eccitante dello strip involontario della mia insegnante. La luce ambrata dell’abat-jour alle sue spalle ne proiettava l’inconfondibile profilo del seno, nudo, di cui si intravedevano persino i capezzoli turgidi. Le lunghe gambe, snelle, si distaccavano con grazia dall’esile vita, mentre il braccio da silfide, allungato verso un’anta dell’armadio, tirava fuori il soffice accappatoio di morbida schiuma bianca. I suoi movimenti erano lenti, studiati; pieni d’una naturalezza innata, e per nulla volgare, da cui traspariva un’eleganza senza eguali. Che fosse consapevole o meno dello spettacolo che mi stava regalando in quel momento non avrei saputo dirlo con certezza, ma ciò che avvenne dopo fugò da me ogni dubbio. Lo ammetto, i miei occhi stentarono per parecchio tempo a sottrarsi da cotanta grazia, ma feci appena in tempo a tornarmene in corridoio che la voce della Sarli mi raggiunse alle spalle.
-Spero che questa piccola deviazione non ti dia fastidio - mi disse infatti mentre passava una mano tra i lunghi capelli ondulati – Ti va una tazza di tè caldo? ho paura che senza non riuscirei mai a riscaldarmi per bene. E poi c’è tutto il tempo di metterlo su mentre vado a farmi una bella doccia. Ti dispiace?
Vederla così, con addosso solo quello striminzito accappatoio di spugna bianco che lasciava nude le belle gambe tornite, e con i lunghi capelli sciolti, arruffati, mi mandò il sangue al cervello. Con passo cadenzato ondeggiò pigramente verso la cucina, a ritmo di jazz e con il nodo alla cintura saldamente assicurato. Mise su un bollitore rosso, smaltato, dall’aspetto decisamente costoso, regalandomi la percezione della parte bassa del suo culetto, malamente nascosta dal bordo dell’accappatoio. Con la scusa di lasciarmi lì a controllare che nulla andasse a fuoco, si congedò ancora una volta da me per andare in bagno; volando via come un angelo dai lunghi capelli castani.
-Ah sì, questa doccia ci voleva proprio – mi disse sortendo dopo circa un’ora. La cosa era andata troppo per le lunghe perché quel tè fosse ancora caldo, ma alla Sarli sembrò non importare troppo. Avvolta da un raffinato kimono di seta lucida, mentre una nube di vapore caldo e denso si diradava dietro di lei, mi raggiunse in cucina con I capelli perfettamente asciugati, sebbene ancora selvaggi, che cascavano leggeri sulle spalle, creando graziosi arabeschi lungo la schiena. Sorseggiò il tè senza fretta, lasciando che Il suo caldo aroma ne distese i nervi. I miei occhi vagarono lungo il bordo di quel kimono, un indumento ancor più striminzito, per quanto abbia potuto apprezzare, del precedente accappatoio; ma sbirciare qualcos’altro, oltre alle belle gambe tornite mi fu pressoché impossibile. La Prof osservava ogni mia mossa dietro il lucido orlo della sua tazza, fissandomi intensamente con quei suoi bei occhi da odalisca. Sembrava rilassata, divertita e, in un certo qual modo, lusingata. Non so per quanto tempo rimanemmo a guardarci negli occhi mentre Anna, con inusitata lentezza, terminava di assaporare il suo tè, ma deve esser stato parecchio. Bakley aveva da tempo lasciato il posto ad altri colleghi, finché non giunse Dusty Springfield e la sua “Look of love”.
- Spero che il tè sia stato di tuo gradimento – mi suggerì allusiva mentre si allontanava verso la camera da letto. All’inizio non seppi come interpretare quella sua ultima frase, ma il fatto che lasciò la porta socchiusa, fu per me un invito più che eloquente. La sua silhouette attese dietro l’ormai familiare paravento giapponese che io m’accostassi all’uscio, facendo scivolare, con voluttà, il delicato kimono lungo le spalle e poi sino a terra, restando nuda. Con far suadente allungò una dopo l’altra le belle gambe su di un piccolo sgabello da toelette, avvolgendo entrambe con invisibili autoreggenti di nylon. L’inconfondibile forma dei suoi seni si stagliava netta sulla sottile stoffa del paravento, mentre una mano impudica sfiorava le lunghe cosce fino a raggiungere il basso ventre. Sentii Anna trattenere a stento un sospiro, la sua mano s’attardava in mezzo alle gambe, ma presto raggiunse l’altra per infilare un paio di slip dal bordo irregolare. Stessa cosa dicasi per il reggiseno, la Sarli lo indossò lentamente, dandomi tempo e modo di assaporare quella specie di inverso di un normale strip-tease. Per ultimo un elegante vestitino a tubino e un paio di decolleté prese sempre dalla cabina armadio, il cui colore mi sarebbe stato rivelato solo una volta fuori dal paravento. Decisi di lasciarla libera di truccarsi in santa pace, allontanandomi silenziosamente verso la libreria del salotto. Ero lì che sfogliavo distrattamente un tomo di Meccanica quantistica quando la prof. sortì in salotto, impeccabile come sempre, col suo bel tubino nero e un paio di decolleté rosse che si abbinavano perfettamente al colore del suo rossetto.
- Credo sia ora che tu ritorni a casa – mi disse mentre controllava allo specchio la tenuta di uno chignon – credo di averti trattenuto anche fin troppo.
Anna si fermò a guardarmi, abbozzando un sorriso furbetto che lasciava presagire un seguito a quel nostro fortuito episodio. Ma di questo vi parlerò la prossima volta.
Un inaspettato passaggio a casa
Quando Marco, il mio compagno di banco me lo disse, credetti subito si trattasse di una bufala, una di quelle panzane stratosferiche che ci piaceva raccontare tra noi nerd per fantasticare un po’ e alleggerire il peso di una vita tra i libri; dovetti ricredermi.
Ma sarà meglio procedere per gradi. Mi chiamo Alessandro, ho trent’anni e sono un Farmacista. All’epoca dei fatti avevo da poco compiuto diciannove anni e frequentavo il primo anno della facoltà di Farmacia. Con un po’ di vergogna devo ammettere che, al contrario della stragrande maggioranza dei miei coetanei, il mio rapporto col sesso, allora, era limitato all’innumerevole numero di seghe che mi sparavo in continuazione già quando frequentavo le medie. Si può dire che la mia conoscenza del corpo femminile si limitasse quindi a qualche porno visto su internet, i film di Tinto Brass che puntualmente passavano in seconda o terza serata in tv, e qualche risicata nozione di educazione sessuale che ci avevano passato al liceo. Come si può ben capire me ne intendevo davvero poco di “Donne”, ad esempio non ne avevo mai baciata una, figuriamoci poi vederne una nuda dal vivo. La cosa, di per sé, non mi creava troppi problemi, continuavo a raccontare a me stesso che avrei fatto meglio a concentrarmi sullo studio piuttosto che pensare a simili scemenze, ma devo ammettere che il confronto con quelli della mia età si faceva sempre più difficile, al punto che il vedere tutti felicemente fidanzati mi procurava non pochi disagi.
Come avrete certamente intuito, le ragazze erano il mio tallone d’Achille, l’argomento tabù di cui avrei allegramente fatto a meno di parlare, in special modo visto che l’unica per cui battesse davvero il mio cuore era già impegnata. Si chiamava Chiara, frequentava la mia stessa facoltà, ed era la fidanzata di Marco, il mio migliore amico. Stavano insieme dalla gita del IV ginnasio, quell’anno ci portarono a visitare l’acquario di Genova e, sebbene fossi stato io a notarla per primo tra i banchi delle prime file della nostra classe, Marco non si era fatto remore a farsi avanti. Era alto, atletico, un vero figurino; le ragazze facevano a gara per farsi notare da un tipo del genere, ma lui non aveva occhi che per Chiara e, visto che lei lo ricambiava, io ero stato costretto a farmi da parte. Non che avessi grandi chance al riguardo, avevo da poco compiuto diciannove anni e, al contrario del mio ex-compagno di banco, ero mingherlino, brufoloso e con un pessimo modo di approcciarmi con il gentil sesso. Le giornate le passavo a studiare e a giocare al pc, mentre lui dedicava pomeriggi interi in palestra o sul campo di pallacanestro. E Chiara era fantastica, semplicemente perfetta; forse troppo perché le piacesse uno sfigato come il sottoscritto. La mia media era alta, su questo non avevo di che lamentarmi, ma di certo non si poteva dire la stessa cosa del mio morale o della mia vita sociale. Vederli insieme mi faceva male, ma Marco era il mio migliore amico e la sua amicizia era la cosa più bella che avessi nella mia vita solitaria, ma di notte non potevo evitare di pensare a Chiara, al suo volto angelico e al suo corpo perfetto…
- Ma sì. Ti dico di sì, credimi!
- Scusa Marco ma a me ‘sta cosa sa tanto di stronzata.
- Ti assicuro che è vero, me l’ha detto Alfredo di Ingegneria due giorni fa.
- Ma che ne può sapere Alfredo visto che la sua facoltà non si trova neppure nel nostro stesso plesso!
- Alfredo viene sempre qui per provarci con le ragazze. Farmacia è la facoltà scientifica con il più grande numero di iscrizioni femminili di tutta l’università; ma forse tu non te ne sei neppure accorto visto che vivi sempre nel tuo mondo.
Quando Marco faceva così mi faceva proprio saltare i nervi. Certo che sapevo che la mia facoltà era caratterizzata da una grossa percentuale femminile, ma come ho già detto le altre non mi interessavano; i miei occhi non erano che per Chiara.
- E, fammi capire, lui come se ne sarebbe accorto?
- Stava salendo le scale anti-incendio, quelle che portano al parcheggio sotto Informatica, la prof si trovava qualche metro sopra di lui. La gonna lunga, qualche brezza leggera di troppo…
- E ha capito che la Sarli era senza mutande? – ripresi per nulla convinto - puttanate!
- Non credo siano puttanate. Ho saputo che…
- Che cosa? – chiese Chiara piombando alle nostre spalle. – Ciao Amore – disse poi stampandogli un bacio sulle labbra.
- Nulla Amore – si affrettò a precisare Marco – uno di Ingegneria dice di aver visto tutta la saga di Nightmare da solo e senza aver avuto paura.
- Beato lui – riprese lei arrossendo e stringendo tra le braccia quello destro di Marco – io non riesco a vedere neppure i primi dieci minuti del primo film senza tremare dalla paura.
Era sempre uno spettacolo vedere Marco all’opera; inventare cazzate sul momento, era un’arte sopraffina che aveva affinato con anni e anni di pratica, sin da quando frequentavamo insieme le medie e, semmai fosse stato istituito un premio Nobel per le puttanate, sono certo che l’avrebbe vinto a mani basse. Non vi risulterà difficile, quindi, comprendere la mia reticenza al credere a una cazzata del genere: la professoressa Sarli che se va in giro senza mutandine? Puzzava di frottola come non mai!
La Sarli era davvero una bella donna; assomigliava ad Angelina Jolie ai tempi di “Mr. & Mrs. Smith” e insegnava “chimica dei composti inorganici” al secondo semestre del primo anno. Era una di quelle professoresse sempre in tiro, che la lezione te la spiegano in tailleur, calze velate e tacchi alti. Mai una macchia di gesso, mai un capello fuori posto. La sua mise era sempre impeccabile e si fregiava di eleganti camicie di seta accostate a superbi collier di perle bianche. Un vero spettacolo per gli occhi. Credo che siano stati in molti, in questi anni, ad aver perso letteralmente la testa per lei; ma il suo comportamento è sempre stato pressoché irreprensibile, al limite della perfezione. Quella storia delle mutandine faceva acqua da tutte le parti.
-Ciao Alex!
- C..Ciao Chiara – balbettai impacciato. Il bacio che mi schioccò sulla guancia mi fece girare la testa, ma forse era colpa anche dell’inebriante profumo al patchouli che indossava quel giorno. La fragranza era fresca, leggermente fruttata, e si sposava benissimo col profumo della sua pelle rosea e soffice. Non potete capire cosa avrei dato pur di poterla stringere forte tra le braccia come faceva Marco, e sapere che quello era un lusso che non potevo concedermi mi faceva star male come non mai.
Marco mi lanciò uno sguardo eloquente, conscio che quella storia non sarebbe mai venuta fuori dalle mie labbra in presenza di Chiara, a dir poco gelosa, ma entrambi non aspettavamo altro che giungessero le 11:00 perché l’oggetto della nostra diatriba si presentasse in facoltà per la lezione di ‘inorganica. Marco, con la scusa di venirla a prendere, si era procurato una copia dell’orario delle lezioni della fidanzata e, sebbene frequentasse Informatica, era super informato sugli orari di ricevimento e delle lezioni della Sarli. Difatti non perdeva mai l’occasione di fare una capatina in facoltà per vederla arrivare. Un giorno, mentre eravamo da soli, mi aveva confessato che vedere una prof, con un fisico del genere, in un ambiente accademico in cui a farla da padroni erano vecchi topi da biblioteca col riporto sulla testa glabra e le maniche dei blazer sporche di gesso, era un bel passo avanti per lui; una bella ventata d’aria fresca in un luogo asfittico come le nostre facoltà.
La prof si presentò puntuale e impeccabile come sempre, percorrendo il lungo corridoio dell’università con una leggiadria e una grazia che scatenava ogni volta l’invidia e la curiosità di quelle mummie impomatate dei suoi colleghi. Una volta in classe si concesse qualche minuto per riordinare il marasma di fogli volanti che, puntualmente, si portava appresso per far lezione, piegandosi disinvolta sulla lunga e pesante cattedra in noce per stare più comoda. I miei occhi si fiondarono subito sulla striminzita scollatura della camicetta di seta, ma quella sua mise castigata ed elegante lasciava trasparire davvero poco del florido seno o di quel bel culetto a mandolino sapientemente fasciato da una gonna a tubino nera, rimandando tutto il resto all’immaginazione. I suoi occhi corvini si presero ancora qualche minuto scrutare l’aula, attendendo con pazienza che la maggior parte di noi facesse silenzio.
- Certo che oggi è più bona del solito – si lasciò sfuggire alle mie spalle Fabio, uno studente del secondo anno che non aveva ancora passato l’esame e che occupava il banco dietro il mio. Chiara lo fulminò con un’occhiataccia.
- Tiè, tiè – bisbigliò sornione un ragazzo alla sua destra di cui mi sfuggiva il nome – guarda che occhi, pare ‘na pantera mezzo a giungla!
Chiara fulminò anche lui, poi si voltò a guardarmi e a sorridermi imbarazzata. Era adorabile.
- Chissà se porta ‘e mutande – riprese il ragazzo accanto a Fabio. Per un attimo temetti che Chiara l’avesse sentito, ma la vidi passarsi distrattamente la mano tra i lunghi capelli castani, accomodandoli dietro l’orecchio mentre morsicava una matita. Era davvero un angelo…
La Sarli cominciò a saettare col mouse sulla lavagna luminosa, dispiegando dispositive su diapositive ad un ritmo così serrato che a stento riuscivo a starle dietro con gli appunti.
- Aspé mi so persa – mi disse Chiara avvicinandosi per controllare i miei appunti e regalandomi un altro effluvio del suo profumo. Quella sua guancia, quel suo collo, così vicini, così esposti, mi mandarono ai pazzi.
- Signor Ferri è dei nostri?
- Certo professoressa – risposi con tono pacato. Chiara mi gettò uno sguardo pieno d’apprensione.
- Di che cosa stavamo parlando? – mi chiese la prof con tono aspro fissandomi con quei suoi occhi da pantera.
- Della distorsione tetragonale nei complessi di coordinazione ottaedrici dovuta all’effetto Jahn-Teller. Come possiamo vedere dalla diapositiva avremo un allungamento sull’asse z e un corrispettiva compressione dei quattro legami sul piano equatoriale…
- Va bene, va bene. Basta così – mi interruppe la Sarli spazientita – come stavo dicendo…
La prof riprese la sua spiegazione sulla geometria dei complessi di coordinazione metallo-organici, argomento con cui, a detta degli studenti degli altri anni, ne faceva fuori in molti all’esame. Ve l’ho detto, lo studio per me non era mai stato un problema. Chiara mi lanciò uno sguardo strabiliato a cui risposi facendo l’occhiolino; ahhhh se solo mi guardasse con gli stessi occhi con cui io guardavo lei.
-Adesso basta! – sentenziò la Sarli seccata – Se sento ancora volare una mosca giuro che vado avanti col programma e questa parte ve la dovrete studiare da soli! Sia ben chiaro, tutto questo è materia d’esame perciò vi conviene stare bene attenti piuttosto che presentarvi quel giorno e fare scena muta! Ci siamo intesi?
Il chiacchiericcio, endemico nella mia facoltà, terminò all’istante. Lo spauracchio dell’esame mozzò la lingua a tutti… o quasi.
-Hai capito la panterona… - bisbigliò ancora una volta il ragazzo alle mie spalle – oggi va affilata!
- Forse la cosa, caro Giorgi, non le è Arianna. Vedremo cosa avrà da dire al riguardo il giorno dell’esame. Buona giornata!
- Ma, prof…
- Ho detto buona giornata!
- Ma guarda te ‘sta troia! – masticò a denti stretti il ragazzo alle mie spalle raccattando la tracolla sul banco.
- Le suggerisco di non peggiorare la sua situazione, Giorgi. Vada piuttosto; prima che decida di rivolgermi al magnifico rettore per farla espellere per condotta inappropriata.
- Altro che mutande, questa è senza cuore! - disse rivolgendosi a Fabio.
Vidi la Sarli arrossire, non so dire se di vergogna, di rabbia o di un misto di entrambe le cose, ma lo sguardo che rivolse a tanta irriverenza è indimenticabile.
- Credo che qualcuno qui sarà costretto a cambiare percorso di studi, se non addirittura Università. – riprese la donna rincarando la dose e indicando, imperterrita, al ragazzo l’uscita.
-Cavolo, oggi sta proprio incazzata nera, sussurrò una voce femminile alle mie spalle
- Qualcuno ha da aggiungere qualcosa? – gli occhi della Sarli sprigionavano fulmini e saette. La tensione poteva essere tagliata col coltello, mentre un silenzio assordante imperversò per l’intera aula universitaria.
- Volevo ben dire… - rimbrottò nel silenzio assoluto la prima di pareggiarsi con calma gli orli della giacca.
- Come stavamo dicendo…
La prof riprese la sua lezione sui complessi di coordinazione con un tono sordo e pacato da cui, comunque, traspariva il suo cipiglio fumantino. Il resto della lezione passò senza ulteriori intoppi, lasciando sia me, che la mia avvenente compagna di banco, letteralmente senza fiato.
- Cavolo che bona! – commentò Marco vedendola allontanarsi dopo la lezione. – Hai visto come le scendeva bene la gonna? Secondo me non le portava – aggiunse allusivo.
Lo scapaccione che gli mollò Chiara subito dopo essere apparsa alle sue spalle credo che lo abbiano sentito fin in fondo al corridoio.
- E bravo – commentò incazzata – Allora è per questo che ci tieni a venirmi a prendere! Complimenti! – e, girati i tacchi, se ne andò.
Giuro di non averla vista arrivare, lo giuro. La credevo ancora in classe, altrimenti avrei cercato di avvisare Marco del pericolo imminente. Lui la inseguì subito dopo, massaggiandosi ancora la guancia dolorante per la sberla a mano aperta. Rimasto solo, non mi rimase che rassegnarmi a farmela a piedi; l’ultimo autobus era già passato da tempo e, visto che non potevo più contare in uno strappo da parte del mio migliore amico, percorrere in solitaria il lungo tragitto per casa era la mia unica alternativa. Ero fermo sul marciapiedi ad aspettare che un semaforo diventasse verde, quando vidi un’auto accostarsi a pochi passi da me.
- Solo?
La voce dentro l’abitacolo era l’ultima di cui avrei mai potuto immaginare: Chiara, la bellissima fidanzata del mio migliore amico, si era accostata per parlare con me.
- Ehm… sì – le risposi sorridendo imbarazzato.
-Lo vuoi uno strappo fino a casa?
Dentro di me lo sapevo che quella sarebbe stata una pessima idea, ma era dai tempi del liceo che aspettavo l’occasione di stare un po’ da solo con lei, senza Marco e il suo fascino da atleta tra i piedi; così accettai. Lo so cosa starete pensando: sei un amico di merda. Non posso darvi torto.
L’auto di Chiara, una vecchia seicento degli anni ’90, profumava della stessa fragranza al patchouli che avevo sentito prima in facoltà. I tappetini, così come i sedili erano lisi ma puliti, e dimostravano di non esser stati mai cambiati. Anche i sedili sembravano aver visto giornate migliori, mentre la moquette sul tettuccio mostrava quell’ingiallimento tipico di chi è solito fumare in auto.
- Questa è l’auto di mia madre – mi spiegò mentre spostava la pesante borsa a tracolla sul sedile posteriore per farmi accomodare. Giuro che non lo feci con malizia, ma non potei trattenermi dal guardarle le belle gambe lisce sotto il vestitino a fiori, era come guardare quelle della Venere del Botticelli. Ripartimmo poco dopo. Chiara aveva una guida “sbarazzina”, se così si può definire e non andava molto per il sottile per quanto riguarda l’uso di turpiloqui alla guida. Il suo era tutto un: “e che ca…!”, “Ma porc…!”, “ma ti vuoi levare da davanti al ca…!”. Sembrava di star seduti accanto ad uno scaricatore di porto. Eppure riusciva ad essere graziosa anche così. Quel suo aspetto fresco e vivace strideva non poco col suo modo di guidare, ma io la guardavo lo stesso con quegli occhi da pesce lesso di cui, adesso, mi vergogno persino a scrivere.
- Non te l’ho mai chiesto ma: tu e Marco vi conoscete da tanto? – Chiara curvò all’improvviso verso destra
- Una vita – le risposi laconico mentre m’aggrappavo con tutto me stesso alla maniglia del passeggero per non finirle addosso.
- Davvero? – mi chiese mentre raddrizzava l’auto in direzione della tangenziale.
- Ti sei già dimenticata? Io e Marco siamo compagni di banco dalla prima elementare! Marco non te l’ha mai detto?
-Non parliamo molto di te – mi rispose lei alzando le spalle. La cosa, in un certo qual modo, mi ferì, almeno al momento, poi pensai fosse normale che loro due pensassero a ben altro mentre erano insieme; a dirla tutta anch’io avrei avuto ben altro a cui pensare se fossi stato il suo ragazzo, così lasciai perdere.
-Cosa sai dirmi di Flora? – Mi chiese poi rivolgendomi uno sguardo sprezzante. Flora era un'altra ragazza che frequentava la nostra stessa facoltà: un tipetto anonimo, dai lunghi capelli rossicci e le lentiggini. Seguiva con noi le lezioni di Chimica analitica I, ma non avevo mai avuto modo di parlarci. Dissi a Chiara le stesse cose che ho riferito a voi, ricevendo in cambio uno sguardo arrabbiato.
-Non ci hai mai parlato?
- Non che io sappia – ripresi faceto – di solito uno certe cose se le ricorda. Non credi?
-Direi proprio di sì – mi rispose lei a denti stretti e con lo sguardo che sprizzava saette.
-Ho detto o fatto qualcosa che non va? – le chiesi preoccupato.
-No, tu no! – ribadì rivolgendomi ancora una volta uno sguardo sprezzante. Era bella anche quando si arrabbiava. Non avevo ancora capito che cosa l’avesse fatta incavolare così tanto, questo genere di cose non sono il mio forte, ma la sequenza serrata di domande che mi rivolse dopo rasentava uno di quegli interrogatori da film poliziesco; ci mancava solo che mi sparasse la consueta lampada da scrivania dritta in mezzo agli occhi. Il suo tono di voce si era fatto sempre più alto e aggressivo, e la cosa si ripercuoteva, per quanto stentassi a crederlo io stesso, anche sul suo modo di guidare.
- Chiara, ti vuoi calmare? – le chiesi accarezzandole una mano sul volante.
- Mi spieghi perché? – mi disse lei trattenendo a stento una lacrima
- Perché cosa?
-Perché lo copri sempre? - L’allusione fu così chiara che anche un’ emerito idiota come me riuscì a coglierla.
- È il mio migliore amico – le risposi sibillino.
- È uno stronzo! – rimbrottò lei con le lacrime agli occhi. Timidamente sfiorai, ancora una volta, la sua mano destra, ma lo sguardo furente che mi rivolse in quel preciso momento mi fece desistere all’istante.
- È il mio unico amico – precisai serio
- Resta comunque uno stronzo – ribadì Chiara accostando all’improvviso su una banchina di sosta della tangenziale. – e tu sei più stronzo di lui perché lo copri!
Detto questo si allungò su di me per aprirmi la portiera, il suo collo fresco e profumato mi sfiorò le labbra. Ancora non ci credo che mi abbia lasciato lì così, nel bel mezzo del nulla. Ma la sua Seicento sgasò via poco dopo, lasciandomi da solo come un fesso nel bel mezzo del nulla. Il cielo andava adombrandosi all’orizzonte con straordinaria velocità, come se anche il meteo ce l’avesse con me per com’erano andate le cose con Chiara.
Indeciso su cosa fare, visto che la fermata dell’autobus più vicina era comunque a parecchi chilometri di distanza, presi il cellulare per chiamare Claudio, il mio coinquilino. Contattare i miei sarebbe stato del tutto inutile dato che ci avrebbero comunque impiegato ore per raggiungermi; gli inconvenienti di uno studente fuori sede. Avevo scelto quell’università spinto dalle scelte di Marco e Chiara, a discapito di sedi più grandi e prestigiose quali Bologna, Milano o Roma, e mi avevano dato entrambi il ben servito. Quando eravamo ancora al liceo con Marco si parlava di prendere casa insieme, di diventare coinquilini oltre che compagni di banco; ma alla fine aveva scelto di andare a vivere con Chiara. Scelta più che comprensibile visto che avrei fatto lo stesso se solo ne avessi avuto la possibilità, ma che mi aveva costretto a cercare casa da solo in quella che non era certo la mia città; sebbene distasse solo poche ore da casa mia. Ero lì che rimuginavo sul da farsi quando un’altra auto si accostò nella piazzola.
-Rimasto a piedi?
Anche questa voce non mi era nuova: La Sarli, ancora sapientemente fasciata da quell’elegante tailleur nero, fece capolino da dentro l’abitacolo della sua elegante Mercedes argentata. Non appena i nostri sguardi si incrociarono, mi rivolse un sorriso difficile da decifrare.
-Ehm… sì, prof, mi imbarazza molto ammetterlo ma mi hanno lasciato a piedi!
-Lo vuoi un passaggio? – mi chiese trattenendo un risolino divertito
- Dice davvero? – chiesi con ossequio
- Ti sembra che sia il tipo che ti lascia nel bel mezzo del nulla? Hai voglia di scherzare? – il suo tono era un misto di sussiego e ironia di difficile interpretazione.
-Oh no prof, non mi permetterei mai – ripresi con tono ancor più deferente
- Dai che ti sto prendendo un po’ in giro – disse lei allungandosi per aprirmi la portiera – Salta su!
Il suo sorriso era gentile, pieno di comprensione, anche se in quel momento avrei voluto sprofondare per l’imbarazzo.
- Sta per venire giù il diluvio universale! – commentò mentre prendevo posto accanto a lei. L’abitacolo profumava di macchina nuova e di un leggerissimo sentore di Chanel n°5. Una pioggerella fina fina cominciò a picchiettare sul vetro del parabrezza, mentre la Sarli ingranava la marcia per dirigersi in mezzo al traffico dell’ora di punta. L’autoradio mandava un vecchio pezzo di Julie London: “Cry me a river” (che avevo subito riconosciuto visto che conoscevo a memoria la colonna sonora di “V per Vendetta”), mentre io mi lambiccavo il cervello per trovare uno straccio di argomento con cui fare conversazione.
-Chissà che cosa le avrai detto per farla arrabbiare così tanto… - mi incalzò allusiva la prof senza scollare gli occhi dalla strada.
- A mia discolpa posso dire di essere stato messo in mezzo – dissi voltandomi a guardarla.
- Proprio un bel tipetto quella morettina – commentò – se ha deciso di abbandonarti nel bel mezzo della tangenziale e con un acquazzone in arrivo.
- Diciamo che non è stata la migliore delle sue decisioni – lasciai cadere lì mentre mi voltavo a guardare le strisce di pioggia modellate dalla velocità.
-L’altra è stata scegliere quel bellimbusto al posto tuo
-Come? – le chiesi esterrefatto, voltandomi a guardarla con gli occhi sbarrati – si vede così tanto?
La Sarli continuava a concentrarsi sulla guida, dando poca importanza alla porzione di cosce tornite che la gonna aveva lasciato scoperto. Quel suo sorriso sghembo la diceva lunga su cosa pensasse al momento.
- Ti ricordo che anch’io guardo voi quando faccio lezione.
Le sue dita affusolate sfioravano il volante come farebbe una pianista coi tasti di un pianoforte, da ogni suo gesto, infatti, traspariva un’eleganza inusitata, atavica; a cui era impossibile sottrarsi. La sua auto si divincolava con disinvoltura tra la miriade di auto in coda verso l’ingresso della statale, emulando la grazia e la leggiadria della donna alla guida.
- Come ti è sembrata la lezione oggi? – mi chiese cambiando discorso senza scollare neppure per un attimo gli occhi dalla strada. Era stano sentirla darmi del “tu” quando per mesi era stata così irreprensibile nell’uso del “lei”.
- Non saprei che dirle – risposi poco convinto – interessante come sempre.
- Ti chiedo scusa se mi sono saltati i nervi. Non dev’essere stato uno spettacolo edificante quello di poco fa…
La Sarli che mi chiedeva scusa? Per un attimo ho davvero temuto che si trattasse di un sogno.
- Quel coglione si meritava anche di peggio – risposi io in maniera franca – fosse stato per me, un paio di ceffoni non glieli avrebbe tolti nessuno.
- Ti pregherei di moderare il linguaggio – mi redarguì la prof voltandosi a guardarmi negli occhi. – però hai ragione: quel coglione due schiaffi se li meritava proprio. Chissà come avrebbe reagito la tua morettina… - Mi punzecchiò sorniona. Le sorrisi, e lei fece lo stesso, ma il suo era un sorriso strano… da cui traspariva una sorta di stanchezza di cui non sapevo darmi ragione.
Ero sul punto di chiederle se qualcosa non andasse quando la vidi sgranare gli occhi e portare tutta la sua attenzione sulla strada.
-Ma porc…
L’imprecazione della Sarli restò lì sospesa a mezz’aria per tutto il tempo, pochi attimi in realtà, in cui l’auto passò su quella pozzanghera maledetta. L’anteriore destra affondò troppo in basso perché l’auto non deviasse bruscamente verso il guardrail, con la Sarli chiamata a dar prova di tutta la sua destrezza alla guida per mantenere il controllo del mezzo. Un paio di brusche manovre per raddrizzare il tiro ed eravamo finalmente fuori pericolo; anche se il sibilo e il borbottio seguenti a quel piccolo incidente erano segni chiari ed evidenti che avevamo finito per forare.
- Tutto bene Prof? – le chiesi non appena accostammo
- Anna, chiamami Anna. Stavamo quasi per morire, credo che certi convenevoli potremmo anche metterli da parte. Non sei d’accordo?
Sono sicuro che la cosa andasse oltre il comportamento deontologico previsto dal regolamento universitario e dai normali rapporti studente-insegnate, ma decisi di fregarmene altamente.
-Tutto bene Anna?
-Ti sembra che stia bene? – riprese lei cominciando a tremare.
- Calma, stai calma. – le dissi poggiandole una mano sulla spalla - Sei stata brava.
- Una brava pilota avrebbe evitato di finire su quella pozzanghera a tutta velocità – rimbrottò lei sbattendo le mani sul volante – è una delle prime nozioni di guida che si imparano.
- Gli incidenti capitano – le dissi cominciando ad accarezzarle la spalla – l’importante è essere pronti a reagire. E tu oggi hai dato prova di saperlo fare.
Quella situazione a ruoli invertiti aveva un che di surreale. Anna mi rivolse uno sguardo rammaricato.
-Usciamo a vedere che cosa è successo – le suggerii prima di abbozzare un sorriso pieno di comprensione.
La Sarli scese subito dalla macchina, raggiungendomi dall’altro lato dell’automobile per constatare l’entità del danno; dimentica della pioggia incessante che aveva cominciato a inzupparle i vestiti.
- Dovremmo cambiare la gomma – mi gridò per sovrastare il rumore delle auto in corsa sulla tangenziale mentre con la mano cercava di allontanare la pioggia dagli occhi.
- Per prima cosa il triangolo - le suggerii mentre cercavo un paio di gilet catarifrangenti – e soprattutto indossare questi; o ci prenderanno per birilli!
La Sarli mi emulò ubbidiente, dandomi una mano anche a tirar fuori dal bagagliaio: ruotino di scorta, cric e chiave per i bulloni.
-Cosa c’è? Non vengono via? – mi chiese poco dopo vedendomi in difficoltà
- Lascia provare me – disse poi di fronte al mio no con la testa.
- Accidenti a mio marito e alla sua fissa per gli avvitatori elettrici – imprecò dopo aver tentato inutilmente anche lei di allentare con la chiave in dotazione uno dei bulloni di supporto. – Non si smuove neanche con le cannonate!
-Ehm… no, direi di no – le risposi imbarazzato.
- Proviamo insieme. – suggerì lei, così preoccupata da non accorgersi che, nell’impeto del momento, la sua povera camicetta di seta si era bagnata al punto da lasciar intravedere l’elegante bordo di pizzo del reggiseno a balconcino. L’elegante tessuto, infatti, per colpa della pioggia si era fatto pressoché trasparente, aderendo a quel corpo da modella come una seconda pelle.
Lo so che cosa starete pensando: uno in una situazione del gene non bada certo a queste cose!
Che dire… a me l’occhio cadde lo stesso. La Sarli mi era accanto, e i miei occhi vagarono su quel bel decolleté esposto troppo a lungo perché non se ne accorgesse, anche se al momento sembrò non farci caso.
-Su, dammi una mano! – mi disse quindi aggrappandosi alla chiave e tentando di far leva con tutto il suo corpo. Il bullone si smosse all’improvviso, la chiave mulinò su se stessa facendoci perdere l’equilibrio , e fu così che finimmo per terra, l’uno tra le braccia dell’altra, mentre la pioggia rendeva i nostri vestiti già zuppi un indistinguibile melma di stoffa bagnata. Mi sembrò d’essere in una di quelle assurde scene da film romantici americani, con l’alito gentile della Sarli a solleticarmi la punta del naso. Le sue labbra erano pericolosamente vicine alle mie, i miei occhi immersi nelle sue pupille profonde quanto un oceano in tempesta; sentivo il caldo contatto delle sue cosce con le mie gambe, e le fitte gocce di pioggia che tamburellavano insistentemente su entrambi. Quel goffo e improvviso contatto con la mia avvenente professoressa mi provocò una scarica elettrica di cui non sapevo darmi ragione. Tentai di rialzarmi il più in fretta possibile, per evitare a entrambi di fare i conti con una situazione che, per quel che mi riguarda, diventava via via più imbarazzante; ma fu porgendole la mano per rialzarsi che mi resi conto di quanto sconvolta, fradicia e inzaccherata di pioggia, fosse la Sarli. La prof prese la mia mano volentieri, spingendo con le gambe sull’asfalto per rialzarsi e donandomi un altro sconvolgente spettacolo a cui non ero minimamente preparato. Risalita oltre qualsiasi orlo consentito, la sobria e castigata gonna a tubino della mia docente lasciò intravedere per un tempo indefinito l’elegante pizzo delle sue mutandine bianche, troppo trasparenti per non notare la sottile striscia di peli al di sotto. Il mio sguardo venne subito catturato dall’immagine di quel suo monte di venere, scuro e ben curato; e respirare si fece all’improvviso difficile e faticoso.
- Credi di riuscire a darmi una mano – mi disse lei seccata – o sei troppo occupato a spiarmi tra le gambe?
- Mi… mi scusi – balbettai avvampando dalla vergogna mentre mi adoperavo perché si rimettesse in piedi – Non volevo mancarle di rispetto.
- Lascia perdere – mi disse la prof rivolgendomi uno sguardo severo, pieno di biasimo; uno di quelli che avrebbe fatto crollare anche il più arrogante degli sbruffoni. Sfilata la chiave, riprese subito a far leva su un altro bullone, come se nulla fosse, invitandomi implicitamente a fare lo stesso.
Non con pochi sforzi riuscimmo ad aver ragione di ciascuno dei bulloni, sostituendo la ruota e rimettendoci immediatamente in marcia sotto quella pioggia torrenziale che non accennava minimamente a diminuire.
- Mi scusi ancora Prof - le dissi una volta in auto - davvero, non intendevo mancarle di rispetto! –
Ma lei non mi rispose, si limitava a fissare la strada per evitare altri incidenti.
- Non fa niente – la sentii sussurrare dopo un lungo sospiro - Anch’io avrei dovuto fare più attenzione
La Sarli non staccò gli occhi dal lucido asfalto della tangenziale neppure per un minuto; che fosse ancora scossa per l’incidente appena sfiorato? L’imbarazzante silenzio che seguì in quegli ultimi minuti mi diede l’impressione che le cose stessero proprio così.
- Diciamo che è il giusto castigo per aver deciso di indossare questo Armani nonostante le previsioni, stamattina, fossero chiare; cristalline. Per non parlare della camicetta… – continuò amareggiata - è da buttare.
- Non si può fare proprio niente? – le chiesi estremamente rincuorato dalla risposta appena ricevuta.
- Dovrei portarla immediatamente in tintoria – suggerì lei riflessiva – questa seta è così delicata che si rovinerebbe se solo provassi a…
- Ci vada subito – incalzai – In fondo se si è sporcata in questo modo è anche colpa mia.
- Ma la tintoria è dall’altra parte della città… – replicò lei indecisa
-Un motivo in più per non esitare un solo istante
- Ma non posso andare in tintoria e sfilarmi tailleur e camicetta come se nulla fosse… – replicò ancora una volta la Sarli cominciando, stavolta, a mordersi le labbra.
Quella situazione l’aveva messa più a nudo di quanto non si rendesse conto, lasciando trasparire un’umanità che si sposava divinamente con la sua eleganza innata; molto più di quanto fosse disposta ad ammettere, se posso dirla tutta. Le donava.
- E quello? – suggerii dopo qualche minuto notando un vecchio soprabito sgualcito sul sedile posteriore.
- Oh – riprese lei alzando le spalle sovrappensiero - quello è solo un vecchio trench di mio marito.
La prof si voltò a guardarmi con un’espressione più che eloquente.
- Non starai davvero pensando che…
- È un’ipotesi da non sottovalutare – le suggerii complice. Lei soppesò per qualche minuto la mia proposta, mordendosi per tutto il tempo il labbro in preda all’indecisione.
-Uff… e va bene! – sbottò dopo rassegnandosi alla cosa – dopotutto non mostrerei nulla che tu non abbia già visto poco fa sotto la pioggia!
E accostata ancora una volta l’auto in una piccola piazzola di sosta, si fiondò sul sedile posteriore passando direttamente nel varco tra quelli anteriori.
- Parti – mi ordinò perentoria mentre già si sfilava la giacca del tailleur – e occhi sulla strada!
Ubbidii ossequioso, ragionando tra me e me su quanto, col passar del tempo, quella situazione si stesse facendo sempre più assurda e complicata. Sistemai, senza badarci, lo specchietto retrovisore, ricevendo per tutta risposta un sonoro rimprovero da parte della mia avvenente professoressa.
-Mister, ti ho detto occhi sulla strada; non c’è nulla da vedere!
-Ma io in realtà…
- Sbagliare è umano, ma perseverare è diabolico – sentenziò lei mentre, infilatasi il lungo soprabito grigio, armeggiava con maniche e gancetti per sfilarsi camicetta e reggiseno. Nel vedere quei capi, adagiati con tanta non-chalance sul sedile anteriore, il mio arnese cominciò sul serio a indurirsi, fino a diventare barzotto. Con movimenti lenti e studiati la Sarli continuò a sfilarsi gli indumenti bagnati, proseguendo con la lunga gonna nera a tubino del tailleur, una coppia di calze velate e il pezzo più importante di tutti: le sue mutandine bianche. Sotto quell’ingombrante soprabito scuro, in pratica, la mia prof era nuda.
- Quella è la nostra uscita – mi indicò inchinandosi brusca verso di me dal sedile posteriore. Nel farlo i lembi del soprabito si mossero all’improvviso, ma non ebbi modo di poter sbirciare un bel niente vista la celerità con cui sistemò la cinta in vita. Quel soprabito era molto più grande di lei, su questo non c’era alcun dubbio, e così spesso che era pressoché impossibile che qualcuno si accorgesse della mise succinta al disotto; ma era comunque uno strazio sapere la Sarli nuda accanto a me e non potervi dare neppure una sbirciatina.
Chissà di che forma erano le sue tette. Le aureole erano grandi o piccole? I capezzoli scuri o rosei? Devo ammettere che in quel momento non riuscivo a pensare a nient’altro che a quel paio di mutandine bianche di pizzo, che la prof aveva candidamente adagiato sul sedile accanto al mio, proprio in cima al cumulo dei suoi vestiti bagnati.
- Da questa parte – mi ordinò la Sarli strappandomi ai miei pensieri e calamitando la mia attenzione sul suo dito smaltato. – la tintoria è dietro quell’angolo lì – indicò – puoi anche accostare qui, visto che c’è posto.
Ubbidii
- Devi promettermi una cosa però – mi disse prima di scendere dall’auto per recarsi in tintoria – questa storia resta tra noi.
- Ça va sans dire – le risposi io improvvisando il miglior De Sica di cui fossi capace. La prof si fermò a fissarmi seria attraverso lo specchietto retrovisore, ed io non potei fare a meno di arrossire.
- Certo che rimane tra noi. – aggiunsi quindi abbassando gli occhi - Non mi permetterei mai…
- Sei proprio un bravo ragazzo – mi disse lei prendendosi un momento per accarezzarmi una spalla e, raggomitolata quella pila di indumenti bagnati, si diresse di gran carriera in tintoria.
Era difficile immaginare che quel cumulo di vestiti bagnati, sgualciti e appallottolati, fino a poche ore prima erano stati l’invidia dell’intera facoltà, ma la cosa mi strappò un sorriso: ero l’unico a sapere per certo che la prof indossasse o meno le mutandine.
Dannazione!
-Che è successo? – le chiesi vedendola fiondarsi di corsa nell’abitacolo per sfuggire alla pioggia incessante
-Non mi va di parlarne – mi rispose sibillina.
La sentii masticare tra sé e sé un vaffanculo a denti stretti, ad un tono troppo basso per darsene pensiero. La pioggia aveva già ripreso a creare bizzarri rigagnoli sul vetro del parabrezza e cupi nuvoloni neri continuavano ad addensarsi all’orizzonte. Anna continuava a sbirciare fuori dal finestrino e qualcosa mi faceva intendere che tutto questo avesse poco a che fare con la storia della tintoria.
- Ti prego, parti. – mi chiese poco dopo senza distogliere lo sguardo dai lucenti rigagnoli d’acqua sul vetro del finestrino.
- Sicura di non vuol guidare lei? – le chiesi interdetto.
-Le mie Jimmy Choo sono da buttare – mi disse lei voltandosi a guardarmi negli occhi – e poi ti ho detto di darmi del tu.
- Va bene… - ripresi io avviando l’auto – dove si va?
- Ti dispiace se passiamo un attimo da casa – mi chiese lei con tono dolce – sto congelando.
-Sì, c..certo – le risposi impacciato – vuole che accendo l’aria calda?
- Ti prego Ale diamoci del tu. – replicò lei con tono stanco – Fa troppo freddo per continuare con tutta questa assurda formalità! Non trovi anche tu?
Le sorrisi. E su di noi calò ancora una volta quel silenzio che per tutto il viaggio, come un ospite indesiderato, non aveva mai smesso di accompagnarci.
Non funziona – sortì la prof con un’alzata di spalle – e mio marito non fa altro che rimproverarmi di farla controllare. Ma come faccio con l’università? In fatto di mezzi pubblici questa maledetta città rasenta la Dite dell’inferno dantesco…
La osservai incuriosito: la Sarli dimostrava una cultura che andava ben oltre il suo ristretto campo di ricerca, e la cosa mi lasciò piacevolmente colpito.
In cielo cominciò ad impazzare una battaglia di lampi così intensa che avrebbe fatto rabbrividire Zeus in persona, trasformando quel pallido Aprile in un grigio Ottobre senza caldarroste.
- Ecco. Ci mancava solo questo – disse la prof notando la volante appostata in una piazzola di sosta della tangenziale. Credo che l’ufficiale di pattuglia abbia fatto scattare la paletta non appena ha visto la nostra auto imboccare l’ingresso 10A. Come da prassi ci intimò di accostare, avvicinandosi al mio finestrino per un ordinario controllo dei documenti. La pioggia ne rigava il viso mal coperto dal berretto d’ordinanza, sgocciolando sulla scura divisa fradicia e pesante.
- Buonasera Agente
-Buonasera. Favorisca patente e libretto.
La Sarli si adoperò per recuperare quest’ultimo da un cassetto posto sotto il sedile del passeggero, lasciandomi libero di ripescare la patente dalla tasca del giubbotto. Il suo atteggiamento lasciava trasparire un certo nervosismo, cosa che desto subito l’attenzione del poliziotto.
- Signora è sicura di sentirsi bene? – chiese quindi il gendarme sparaflesciando nell’abitacolo l’abbacinante fascio della sua torcia elettrica.
- Va tutto bene – gli rispose la Sarli abbozzando un sorriso stentato e sforzandosi con tutta se stessa di darsi un tono
- Dove siete diretti? – chiese l’uomo con tono ancor più diffidente
- Alex, mio nipote, è stato così gentile da essersi offerto volontario per riportarmi a casa con la mia auto – mentì la prof ostentando non calanche. Mi chiesi perché mai lo avesse fatto visto che per me non c’era nulla di così strano o fuori luogo in quella situazione da dover ricorrere ad una menzogna.
- Signora, sarebbe così gentile da fornire anche i suoi di documenti? – chiese senza fare tanti giri di parole il poliziotto che, intanto, continuava a scansionare entrambi col suo sguardo indagatore.
- Non vedo cosa abbia fatto di male per…
- Signora, lei non ha fatto nulla, per ora… – si affrettò a precisare l’uomo con fare sbruffone – ma noi siamo la Polizia di Stato ed è nostro preciso dovere controllare i documenti di chi è a bordo quando lo riteniamo opportuno.
La prof fece per replicare ma venne subito interrotta dall’agente.
-A lei la scelta Signora: può mostrarci i documenti così che noi procediamo con il controllo e poi siete liberi di andare, oppure ci seguite in caserma e poi dovrete dare spiegazione del vostro comportamento ostile durante un banalissimo controllo di polizia.
Vidi la Sarli cambiar colore peggio di quei vecchi televisori a tubo catodico e subito adoperarsi per recuperare la carta d’identità dalla borsa.
-E…ecco a lei Agente – disse la prof allungandosi su di me per consegnare il documento di plastica colorata. L’aroma inebriante del suo Chanel n°5 raggiunse subito le mie narici, facendo nascere in me la voglia di affondare le labbra sul suo bel collo da nereide.
- Ecco, così va meglio – si limitò a commentare il poliziotto prima di allontanarsi verso il suo collega per procedere al controllo vero e proprio.
- Non dire una parola – mi intimò subito la Sarli quando fummo soli
-Prof, ma…
- Fai silenzio – mi intimò sottovoce - giuro che ti spiegherò tutto, ma adesso taci!
Il suo sguardo era inflessibile, il suo tono perentorio e la cosa le donava un’aria da dominatrice che difficilmente sarei riuscito a dimenticare.
-Mi scusi professoressa Sarli – si affrettò a pronunciare l’agente una volta di ritorno – non l’avevo riconosciuta. – e scattato quasi sull’attenti aggiunse: – Mi saluti tanto suo marito; il vicequestore.
La prof rispose con una smorfia indefinita, limitandosi stoicamente a farsi restituire i documenti.
L’agente mi fece subito cenno di andar via, confidando con tutto se stesso che i rigagnoli di pioggia agli angoli del suo berretto nascondessero per bene le sottili gocce di sudore freddo che ne imperlavano la fronte.
-Posso sapere perché hai deciso di mentire alla polizia? – le chiesi una volta partiti. La Sarli continuava a guardarsi intorno con fare circospetto.
- Che intendi dire?
-Non pensi che sarebbe risultato alquanto difficile spiegare, dopo un attento controllo da parte della polizia, come mai io e te ci siamo definiti “zia” e “nipote” nonostante non ci leghi nessuna parentela?
- Non ci avevo pensato.
- Come sarebbe a dire che “non ci avevi pensato”? Che male c’è ad ammettere che io sono solo un tuo studente dell’Università?
- Ero nel panico, va bene? – mi rispose lei contrariata - Sinceramente in quel momento mi è sembrata la cosa più sensata da dire vista la situazione. – La prof indicò con un gesto eloquente il suo vecchio soprabito.
- Dí un po': al suo posto avresti creduto mai che indosso “solo” questo vecchio soprabito perché la pioggia ha bagnato i miei vestiti?
La Sarli pronunciò quella parola: “solo” con una strana inflessione della voce, come se ammettere la natura stessa del suo striminzito vestiario fosse di gran lunga più imbarazzante del fatto in sé.
- È per questo motivo che poco fa eri così nervosa?
- Per cos’altro sennò? Lo hai sentito anche tu: mio marito è il vicequestore è ho temuto che, se solo avessero deciso di perquisirmi, sarebbe stato davvero impossibile spiegargli il motivo per cui sono mezza nuda in compagnia di uno studente del mio corso.
- Non hai pensato che così facendo hai attirato ancor di più l’attenzione del poliziotto su di te?
-Scusa se mi sono fatta prendere dal panico. – ribatté sarcastica – è la prima volta che mi ritrovo in una situazione del genere. La prossima volta starò più attenta.
- La prossima volta? – le chiesi a metà tra l’interdetto e il sornione
- Era per dire – si affrettò a precisare lei – vabbè che hai capito… - continuò poi, ma i suoi occhi oscillavano ondivaghi nei miei, mentre sulle sue labbra si palesò un sorriso colmo d’imbarazzo.
- Io sono quasi arrivata – mi disse indicando l’ennesima uscita della tangenziale.
Casa sua era ubicata poco dopo, dietro l’elegante portone di legno di un grosso palazzo signorile sulla destra.
- Allora le nostre strade si dividono qui – sentenziai mentre accostavo, tingendo la mia performance con un finto cipiglio alla Clint Eastwood.
-Non essere sciocco. – ribatté lei - Non vorrai mica fartela a piedi da qui sino a casa tua?!
- la metro passa a pochi isolati da qui… - continuai io allusivo
- Sciocchezze! Allora a cosa sarà valso passare tanti guai?
- Anna…
- Sì, mi chiamo così. Finalmente ti sei deciso a chiamarmi per nome. Adesso facciamo così: tu sali con me, aspetti che indosso qualcosa di caldo oltre a questo vecchio soprabito e lasci che ti accompagni a casa. O sarà stato tutto inutile.
- Ma Anna…
La Sarli mi rivolse uno sguardo strano, indecifrabile; a metà tra il rimprovero e l’apprensione. Non ebbi il cuore di dirle di no, anche se ammetto che quel pomeriggio si era fatto già così assurdo e irreale che cinque minuti in più non avrebbero di certo pregiudicato la situazione.
L’appartamento della prof era allocato al quinto piano, scala C, e vi si poteva accedere attraverso uno di quei vecchi ascensori in legno con la cabina che scricchiola al minimo sobbalzo. Le scale, in marmo, e dall’aspetto decisamente anteguerra, costituivano un’alternativa di cui Anna fece piacevolmente a meno. Partivano da un ampio androne, scarsamente illuminato, e si inerpicavano verso l’alto costeggiando un’invidiabile boiserie dai toni freddi e raffinati. L’androne, che tra le altre cose presentava il vetusto gabbiotto in noce di una portineria ormai dismessa, si tingeva dei colori vivaci e sgargianti di un’imponente vetrata, che dava accesso all’atrio interno, diametralmente opposta al pesante portone d’ingresso. Quel gioco di luci e vetri colorati creava accostamenti arlecchini su pavimento e boiserie, ma solo se in quel momento in cielo non impazzava la terza guerra mondiale. Mi fermai ad osservare la sottile balaustra in ferro brunito che andava arroccandosi intorno al torrino dell’ascensore; sebbene fosse stata fusa con la grata della gabbia, manteneva ancora quell’inconfondibile slancio dello stile a cui era ispirata: l’Art Nouveau.
La cabina del vecchio ascensore
La prof ebbe cura di farmi accomodare in salotto, un ambiente eclettico in cui stili diversi erano stati armonizzati con grandissima cura. A sontuosi tappeti persiani, pezzi d’inestimabile valore che ricoprivano un costosissimo parquet di rovere, erano stati accostati pezzi di mobilia dallo stile spiccatamente coloniale. Sembrava insomma di esser stati catapultati in uno di quei salotti inglesi di inizio novecento, dove una piccola piramide egizia di arenaria trovava posto accanto a un Buddha birmano in giava e stampe giapponesi raffiguranti geishe e samurai; un ambiente decisamente inconsueto per un tipo come me che dalla sua poteva vantare solo un vecchio materasso sdrucito, adagiato su una rete sbrindellata e cigolante, posto in una misera stanzetta pidocchiosa che tra l’altro era costretto a condividere con un altro morto di fame come lui. Credo che Alessio, il mio coinquilino, avrebbe sgranato gli occhi quanto me di fronte a tutto quel sapiente spreco degli spazi. La mia attenzione si concentrò quindi su alcuni tomi dell’imponente libreria, un’infinita collezione di volumi che i proprietari avevano fatto rilegare con la copertina in pelle e i caratteri incavati in foglia d’oro. La cosa che mi ricordava molto le interminabili raccolte enciclopediche presenti tra gli scaffali della biblioteca universitaria, ma l’accostamento era decisamente più stravagante. Libri di “Biochimica applicata”, infatti, facevano bella mostra di sé accanto a pomposi volumi di “diritto privato”, condividendo con questi ultimi misure e colori di copertina.
La Sarli mise su un evergreen: Moanin’ di Art Blakey e i messengers, lasciando che il sound suadente e rilassato di quel vecchio Jazz riempisse l’aria del suo appartamento, anche se, dato l’assortimento, mi sarei aspettato che un giovane Sherlock Holmes sbucasse da chissà dove per esercitarsi col violino, ma ancora una volta quel suo accostamento di stili mi lasciò piacevolmente sorpreso. La prof si congedò poco dopo, lasciando che la scia del suo Chanel n°5 si insinuasse lungo le pareti del corridoio, diradandosi tra le pesanti cornici dei quadri, per poi giungere, con maggiore intensità, alla porta della sua camera da letto.
Non so dare una spiegazione del perché m’avventurai su quel lucido pavimento di parquet, né tantomeno cosa mi spinse ad accostarmi alla porta della sua camera, lasciata socchiusa, ma lo spettacolo che vidi era di gran lunga più interessante di tutti i libri presenti in salotto.
Anna si era disfatta del pesante soprabito del marito, pigramente adagiato sul bracciolo di una poltrona poco distante, e s’adoperava, dietro un esile paravento in seta giapponese, per avvolgersi tra la morbida e soffice spugna di un accappatoio. Dalla mia posizione potevo facilmente intravederne l’inconfondibile silhouette attraverso la stoffa sottile del paravento e devo dire che mai spettacolo di ombre cinesi fu più eccitante dello strip involontario della mia insegnante. La luce ambrata dell’abat-jour alle sue spalle ne proiettava l’inconfondibile profilo del seno, nudo, di cui si intravedevano persino i capezzoli turgidi. Le lunghe gambe, snelle, si distaccavano con grazia dall’esile vita, mentre il braccio da silfide, allungato verso un’anta dell’armadio, tirava fuori il soffice accappatoio di morbida schiuma bianca. I suoi movimenti erano lenti, studiati; pieni d’una naturalezza innata, e per nulla volgare, da cui traspariva un’eleganza senza eguali. Che fosse consapevole o meno dello spettacolo che mi stava regalando in quel momento non avrei saputo dirlo con certezza, ma ciò che avvenne dopo fugò da me ogni dubbio. Lo ammetto, i miei occhi stentarono per parecchio tempo a sottrarsi da cotanta grazia, ma feci appena in tempo a tornarmene in corridoio che la voce della Sarli mi raggiunse alle spalle.
-Spero che questa piccola deviazione non ti dia fastidio - mi disse infatti mentre passava una mano tra i lunghi capelli ondulati – Ti va una tazza di tè caldo? ho paura che senza non riuscirei mai a riscaldarmi per bene. E poi c’è tutto il tempo di metterlo su mentre vado a farmi una bella doccia. Ti dispiace?
Vederla così, con addosso solo quello striminzito accappatoio di spugna bianco che lasciava nude le belle gambe tornite, e con i lunghi capelli sciolti, arruffati, mi mandò il sangue al cervello. Con passo cadenzato ondeggiò pigramente verso la cucina, a ritmo di jazz e con il nodo alla cintura saldamente assicurato. Mise su un bollitore rosso, smaltato, dall’aspetto decisamente costoso, regalandomi la percezione della parte bassa del suo culetto, malamente nascosta dal bordo dell’accappatoio. Con la scusa di lasciarmi lì a controllare che nulla andasse a fuoco, si congedò ancora una volta da me per andare in bagno; volando via come un angelo dai lunghi capelli castani.
-Ah sì, questa doccia ci voleva proprio – mi disse sortendo dopo circa un’ora. La cosa era andata troppo per le lunghe perché quel tè fosse ancora caldo, ma alla Sarli sembrò non importare troppo. Avvolta da un raffinato kimono di seta lucida, mentre una nube di vapore caldo e denso si diradava dietro di lei, mi raggiunse in cucina con I capelli perfettamente asciugati, sebbene ancora selvaggi, che cascavano leggeri sulle spalle, creando graziosi arabeschi lungo la schiena. Sorseggiò il tè senza fretta, lasciando che Il suo caldo aroma ne distese i nervi. I miei occhi vagarono lungo il bordo di quel kimono, un indumento ancor più striminzito, per quanto abbia potuto apprezzare, del precedente accappatoio; ma sbirciare qualcos’altro, oltre alle belle gambe tornite mi fu pressoché impossibile. La Prof osservava ogni mia mossa dietro il lucido orlo della sua tazza, fissandomi intensamente con quei suoi bei occhi da odalisca. Sembrava rilassata, divertita e, in un certo qual modo, lusingata. Non so per quanto tempo rimanemmo a guardarci negli occhi mentre Anna, con inusitata lentezza, terminava di assaporare il suo tè, ma deve esser stato parecchio. Bakley aveva da tempo lasciato il posto ad altri colleghi, finché non giunse Dusty Springfield e la sua “Look of love”.
- Spero che il tè sia stato di tuo gradimento – mi suggerì allusiva mentre si allontanava verso la camera da letto. All’inizio non seppi come interpretare quella sua ultima frase, ma il fatto che lasciò la porta socchiusa, fu per me un invito più che eloquente. La sua silhouette attese dietro l’ormai familiare paravento giapponese che io m’accostassi all’uscio, facendo scivolare, con voluttà, il delicato kimono lungo le spalle e poi sino a terra, restando nuda. Con far suadente allungò una dopo l’altra le belle gambe su di un piccolo sgabello da toelette, avvolgendo entrambe con invisibili autoreggenti di nylon. L’inconfondibile forma dei suoi seni si stagliava netta sulla sottile stoffa del paravento, mentre una mano impudica sfiorava le lunghe cosce fino a raggiungere il basso ventre. Sentii Anna trattenere a stento un sospiro, la sua mano s’attardava in mezzo alle gambe, ma presto raggiunse l’altra per infilare un paio di slip dal bordo irregolare. Stessa cosa dicasi per il reggiseno, la Sarli lo indossò lentamente, dandomi tempo e modo di assaporare quella specie di inverso di un normale strip-tease. Per ultimo un elegante vestitino a tubino e un paio di decolleté prese sempre dalla cabina armadio, il cui colore mi sarebbe stato rivelato solo una volta fuori dal paravento. Decisi di lasciarla libera di truccarsi in santa pace, allontanandomi silenziosamente verso la libreria del salotto. Ero lì che sfogliavo distrattamente un tomo di Meccanica quantistica quando la prof. sortì in salotto, impeccabile come sempre, col suo bel tubino nero e un paio di decolleté rosse che si abbinavano perfettamente al colore del suo rossetto.
- Credo sia ora che tu ritorni a casa – mi disse mentre controllava allo specchio la tenuta di uno chignon – credo di averti trattenuto anche fin troppo.
Anna si fermò a guardarmi, abbozzando un sorriso furbetto che lasciava presagire un seguito a quel nostro fortuito episodio. Ma di questo vi parlerò la prossima volta.
3
1
voti
voti
valutazione
5.8
5.8
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Il Favore - capitolo 2 - la casa sul lagoracconto sucessivo
L'equivoco - capitolo 2 - Chiara
Commenti dei lettori al racconto erotico