L'ultimo amante della regina Giovanna

di
genere
zoofilia

Conoscevo bene la fama della regina Giovanna, diffusa in tutto il Reame e in tutta Europa, la fama di una donna fatale e insaziabile che seduceva gli uomini per condurli alla rovina. Ascesa al trono in giovane età, aveva seppellito uno dopo l'altro quattro mariti e si dubitava che fossero tutti morti di morte naturale. Il primo, di sicuro, l'aveva fatto uccidere lei; si chiamava Andrea, un suo cugino, enormemente grasso e flaccido e doveva essere davvero disgustoso se a lui negava quello che a tutti, nobili e plebei, giovani e anziani, concedeva, sempre. Non grassa né magra, dal viso soave, giovane e bella, sul suo conto fiorivano leggende spesso oltre l'inverosimile. Si raccontava di quell'ambasciatore straniero a cui aveva chiesto di mostrarle come credenziali le sue parti intime e, dopo averle scrutate e trovate di suo gradimento, le aveva godute sul posto, davanti a mezza imbarazzatissima corte.
Si raccontava che andasse in giro per le stalle e le scuderie a provare la possanza dei palafrenieri. Si raccontava che come quella regina dell'antichità volesse rendere lecito l'illecito e morale l'immorale. Si raccontava della triste fine dei suoi amanti ufficiali, fatti uccidere uno dopo l'altro quando le venivano a noia, o addirittura della fine immediata dei suoi amanti occasionali, fatti uccidere subito dopo l'amplesso come dicono che faccia la mantide religiosa con il maschio. Gli sventurati, si diceva, usciti dalla regale alcova, precipitavano in fosse piene di spade e lame aguzze che straziavano i loro corpi, impedendo che potessero vantarsi di essere entrati così in intimità con la regina, propagandone la fama di nuova Messalina. Oppure si additavano in giro per il Reame le sinistre torri dove si diceva languissero prigionieri i pochi superstiti che avevano fecondato così nobile terreno senza goderne i frutti.
Dedita solo ai suoi piaceri, la regina lasciava che gli affari dello stato venissero gestiti da pochi malfattori che, sicuri di non cadere vittime delle sue bramosie per vecchiaia o per bruttezza, depredavano le finanze e scuoiavano i sudditi. I confini erano abbandonati alle scorrerie di bande di furfanti e i pochi parenti superstiti della sovrana ordivano congiure che fallivano solo per la loro insipienza. Oramai per definire una donna dalle insaziabili voglie non si trovava migliore definizione della frase:"E' come la regina Giovanna".
Il mio padrone si chiamava Pandolfo ed era uno dei tanti piccoli nobili che affollavano la corte. Un giorno mi cavalcava lungo la via principale della capitale quando il corteo regale gli passò davanti costringendolo a scendere e a levarsi il cappello, genuflettendosi davanti alla carrozza dorata che ospitava la regina e che anche pare avesse spesso ospitato congressi carnali di ogni specie. La tendina che celava la vista dell'interno agli occhi dei passanti si levò e lo sguardo regale si posò su di noi. La carrozza passò oltre ma dopo poco venimmo raggiunti da un ufficiale della guardia che ordinò a Pandolfo di presentarsi al reale cospetto di sua maestà la sera stessa, a palazzo. Il mio padrone tremò e non dubitò nemmeno un istante che la sua vita fosse in pericolo. Evidentemente la regina lo aveva notato passandogli davanti e si era incapricciata di lui: quale triste sorte lo attendeva? Dato in pasto ai coccodrilli che secondo un'altra leggenda vivevano nelle acque sotto il palazzo o rinchiuso per sempre in una segreta? Non gli passò neanche per la testa di essere troppo brutto per piacere a qualsiasi donna, fosse pure una che raccoglieva anche i frutti bacati. Strabico, calvo, mezzo gobbo, Pandolfo poteva forse destare i desideri di qualche fanciulla cieca o di qualche vecchia senza speranza. Ed eccolo invece incamminarsi verso il palazzo, senza pensare minimamente a una fuga che avrebbe significato l'esilio e la persecuzione di tutta la sua famiglia. Introdotto in una serie infinita di cunicoli, passaggi, stanze comunicanti e inserite l'una nell'altra, giunse infine in una fredda camera dove, assisa su uno sgabello ben diverso da un trono, la regina salmodiava le orazioni serali e non v'era in questa sua devozione incoerenza o ipocrisia, convinta, nel ricordo del celeste Verbo, che se a chi molto ha amato molto sarà perdonato, lei sarebbe stata la peccatrice più perdonata. Pandolfo le tremava dinanzi e a poco valsero le quiete parole che lei gli rivolse e le domande sulla sua famiglia, sulle sue condizioni e sulle sue ambizioni. Gli chiese se era sposato e alla risposta negativa gli promise che lo avrebbe ammogliato con la più bella delle sue dame.
"In cambio", disse, " vi chiedo solo un dono: quel bellissimo pezzato che cavalcavate oggi". A Pandolfo non sembrò vero di cavarsela così a buon mercato e promise che l'indomani stesso mi avrebbe condotto alle scuderie reali. Ottenuta la promessa che le premeva la regina lo congedò in fretta e si ritrò nei suoi appartamenti. Era stanca, la giovinezza la stava abbandonando, la bellezza anche, e i piaceri che ancora coglieva non l'appagavano più come una volta. Nessun vizio e nessun gioco mancavano nella sua collezione personale. Pochi giorni prima aveva voluto ripetere e magari migliorare un'impresa che aveva compiuto all'inizio del suo regno quando ben tredici paggi si erano succeduti nel suo talamo lungo un'interminabile notte che aveva lasciato tutti sfiniti tranne lei. Stavolta però, dopo cinque o sei stentati orgasmi dei suoi compagni si era stancata e aveva mandato via tutti. I maschi non placavano più la sua bramosia, anche perché, lo capiva, la sua bellezza sfiorita non li eccitava come un tempo.
Il giorno dopo venni condotto nelle scuderie reali. Mi riservarono una stalla pulitissima e ricolma di fieno e potei finalmente magiare a sazietà, cosa che dal mio vecchio padrone, assai spilorcio, mi accadeva raramante. Vennero stallieri a lavarmi, lustrarmi e a cospargermi di unguenti ed essenze, vennero fantesche e servette che mi guardavano sfacciatamente sotto e ridevano sguaiate.
Verso sera altri servi portarono cuscini di piuma e una coperta di porpora, ricamata in oro e candelabri che mandavano una luce che rischiarava a giorno la stalla. Era notte ormai e il silenzio fu interrotto da passi leggeri che si avvicinavano finché la regina in persona non apparve sulla soglia. Venne verso di me e mi abbracciò stretto e coprendomi di baci mi riempiva di paroline dolci e delicate, sussurrandomi che si era innamorata di me dal primo momento che mi aveva visto. Si spogliò completamente e mi trattò come se davvero fossi uno dei suoi abituali amanti. Quando allungò le mani per raccogliere il vero oggetto del suo desiderio le brillarono gli occhi per la gioia e la libidine. Aveva trovato il suo amante ideale, il più dotato di tutti, uno nei cui occhi non avrebbe letto lo sfiorire della propria bellezza. E in effetti pensavo che finché fossi stato trattato così bene e nutrito con tanta abbondanza non c'era motivo di negarle quello che tanto desiderava. Del resto i miei timori di farle del male con il mio arnese si rivelarono infondati: non solo lo accolse tutto nella regale cavità, riaccostandosi rabbiosamente quando mi tiravo indietro, ma per un attimo sembrò che non riuscissi ad accontentarla. Un urlo di piacere rivelò la sua profonda soddisfazione e, spossata, si abbandonò sotto di me.
Così divenni il favorito della regina; di giorno curiosi e sfaccendati venivano a guardarmi tra lazzi e battute sconce, di notte ricevevo le visite dell'insaziabile sovrana e mi chiedevo con preoccupazione cosa sarebbe accaduto quando si fosse stancata degli amplessi equini e avesse desiderato qualcosa di ancora più eccitante sull'esempio di quella nobildonna dei tempi antichi che si accoppiò con un toro. Non lo seppi mai perché, dopo alcune settimane, una sera tardi vennero alcuni uomini con torce e in gran segreto. Non li avevo mai visti e subito compresi che stava per succedere qualcosa di grave. Ricordo bene le loro parole.
"Presto, abbiamo poco tempo".
"Lo sappiamo, la vecchie baldracca verrà fra poco".
"Tenetelo fermo, stringetegli la cavezza".
Recalcitravo, convinto che per sfregio alla regina volessero castrarmi e sulle prime, armeggiando uno di loro fra le mie zampe, parve che la mia paura fosse fondata. Poi però mi resi conto che l'uomo mi stava cospargendo il membro di una strana essenza, qualcosa di urticante che mi provocò un senso di bruciore e di fastidio.
"Gliene hai messo a sufficienza?"
"Non preoccuparti, basta per tre".
"Era l'unico mezzo, non mangia o beve nulla senza che qualcuno assaggi per lei".
"Il duca ci dovrà ricompensare bene per questo servizio".
"Quando sarà lui il re ci riempirà d'oro".
Se ne andarono, lasciandomi costernato e ancora sofferente per il bruciore che pativo. Trascorse poco tempo e venne la mia illustre amante. Sembrava più eccitata del solito, forse qualche copiosa libagione era la causa di quell'euforia che mi apparve fuori luogo dato che un'intuizione mi attraversava il capo.
"Amore mio, ti voglio tutto, vorrei una bocca abbastanza grande per accoglierti".
Mi ritrassi, iniziai a nitrire cercando di avvisarla del pericolo incombente ma questi miei tentativi anziché scoraggiarla sembravano fomentare le sue voglie. Scoppiò in una fragorosa risata.
"Stasera non hai voglia, eh? Vedremo chi è più duro tra noi".
Non ci fu nulla da fare. Si infilò sotto di me, mi prese la cosa che le aveva donato tanto piacere nelle ultime settimane e se la leccò tutta.
Stavolta l'urlo che le uscì fu tremendo e certo non di godimento. La lingua le si era fatta nera e un senso di soffocamento le attanagliava la gola. Le sue grida di aiuto rimasero inascoltate, forse scambiate per orgasmi infiniti. La vidi contorcersi, una scia di bava scura uscirle dalla bocca e poi morire.
Così il Reame ebbe un nuovo sovrano e io fui il piatto prelibato del banchetto con cui si festeggiò l'inizio del regno.
scritto il
2018-03-10
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