Mal d'Africa ( Alla maniera di Tibet ) Pt.2

di
genere
pulp

La mattina dopo ero ancora così. Messaggiai all'amico la mia intenzione di rimanere in albergo a cazzeggio e che non si preoccupasse, ma in realtà mi stavo già vestendo, con l'intenzione di tornare da solo al Rhodes Memorial, dove inizia il sentiero che sale al monte.

Avevo camicia nera a maniche corte, pantaloni di lino color tabacco, sandali a frate, si, ci faccio anche le salite in montagna coi sandali. Quando ci si muove da soli è importante rimanere nei percorsi sorvegliati, ma volevo anche camminare, così mi feci lasciare da un taxi davanti al complesso sportivo di Rondebosch, un bel parco dotato di un ponticello pedonale per attraversare il torrente Liesbeek.
Oltre il ponte, la ferrovia mi sbarrava il cammino, mi trovai a seguire il suo corso per una strada deserta, tutti complessi scolastici con recinti a rete, da cui spuntavano cespugli con fiorellini azzurri. Solo alla stazione di Rosebank fu possibile attraversare, per proseguire lungo il campus universitario, che è discretamente sorvegliato e si arrampica sulle prime pendici del Tavoliere, fin davanti alla mia meta.

Una cosa buona del campus è che ha molte strade pedonali, dove si può evitare il traffico, perché in Sudafrica non usa rallentare. Ci sono posti, come le compagnie diamantifere, dove la vigilanza apre il fuoco, se vede qualcuno rallentare. Ci sono posti dove rallentare significa finire circondati e come minimo rapinati. Si fa presto a perdere l’abitudine.

Così mi trovavo nel posto giusto per sottrarmi a quel senso d’urgenza che mi aveva preso al risveglio. Il cammino degli amanti, Japonica Walk, il sottopassaggio che porta ai campi da rugby, tutti sentieri lastricati in cotto tra prati all’inglese, con statue in bronzo abbandonate qui e la casualmente, e begli edifici ai margini.

Oltre il campo da rugby costeggiavo il nucleo interno dell’università, fatto di edifici in pietra coperti di rampicanti, distribuiti su terrazze collegate da bianche scalinate.
Sull’altro lato, annesso al complesso sportivo, il bar degli studenti è una specie di casamatta in cemento grezzo, una scultura lisergica. In quella stagione era uno dei pochi luoghi ancora animati, mi sentii chiamare dall’entrata, una delle amiche dell’amico mi aveva riconosciuto.
Ernestina, una bella negra, colta, ansiosa di conoscere il mondo e discutere con viaggiatori venuti da lontano.
Normalmente mi sarei fermato subito, le avrei chiesto se avesse già fatto colazione, mi sarei seduto con lei e le avrei raccontato l’Italia solo per poterla vedere sognante. Forse avrei buttato li anche due versi di Petrarca, una frase di Goldoni, la lingua italiana le fa bagnare, è infallibile.
Non quel giorno però.
Per quanto scappassi, l’inquietudine era più veloce di me e mi trascinava ancora avanti, salutai appena, non la invitai neppure a seguirmi per la lunga curva oltre il campo, da cui si stacca il sentiero per il Memorial.

Arrivai da solo alla caffetteria nascosta dietro il monumento. Sta in uno spiazzo alberato, circondato da un muretto squadrato, si entra per un cancelletto di legno. Il caffè è una costruzione in mattoni, ma fatto a trullo in stile africano. La maggior parte della gente però preferisce i tavoli all'aperto, protetti da tende bianche a padiglione, di quelle che catturano l'aria calda e la rimandano a chi sta seduto sotto.
Tutti bianchi, turisti, cameriere indiano.

Lei era li.

Stavo facendo un passo, e rimasi di sasso col piede ancora alzato, nel vederla, che quasi cascavo indietro.
Era li, seduta a un tavolo senza compagnia, ma con due tazze, come se mi aspettasse. Portava un cappello da sole con fiocco nero, del tutto fuori moda, e un cardigan estivo acquamarina, trasparente, nient’altro che un bikini sotto, neanche fossimo in spiaggia.
Mi guardava.
Era abbastanza secca da potersi permettere quella tenuta, ma mi attizzava, fino a pochi anni fa non avrei immaginato di infiammarmi per una cinquantenne, eppure avrei voluto solo metterle le mani sotto quell’abitino e limonarla duramente davanti a tutti. Poi quei capelli abbandonati sulle spalle, di un nero che non poteva essere tinto.

A quel punto non potevo fare brutta figura, era necessario avvicinarsi e salutare, lei però si limitò in silenzio a spingere verso di me una saliera. Era strano quel gesto, ha un suo significato, ma è una usanza dell'Asia centrale, del tutto fuori luogo.
Ancora in piedi presi un pizzico di sale e lo misi in bocca.

" Ora che hai mangiato il mio sale sei mio ospite, nulla di male ti potrà accadere. " - disse lei - " Silimma hemìn ! "

" Silim marabben ! E con questo il mio vocabolario sumero è quasi esaurito. E' la tua lingua ? "

" E' la lingua che meglio riflette il nostro modo di ragionare, diciamo. "

Mi ero seduto. Oltre ad aspettarmi sembrava conoscesse i miei gusti, c'era Roiboos nella mia tazza, mentre lei aveva caffè alla maniera araba. In mezzo una scodella piena di Beskuit, sembravano Cantucci fatti in maniera grezza.

" Vostro ? "

" Lo sai già. Djinn, Xhind, scegli tu la definizione che preferisci. Ieri avete forzato il confine tra i mondi, e io incuriosita sono venuta.. e ti ho riconosciuto.
Non puoi ricordarlo, ma siamo stati amici, molto tempo fa. “

“ Infatti non ricordo. Come ti chiami ? “

“ Ahah. Col piffero che ti rivelo il mio vero nome. Visto che sono Djinn, puoi chiamarmi Gianna, no ? Mungu Djannam ! “ – e li la sua voce si addolcì all’improvviso – “ Zu ? “

“ Ngae ? Ngae.. Herman, dubsarmen. Ma perché devi chiedermi il nome, visto che sembri sapere tutto ? “

“ I concetti astratti sono difficili per me, e comunque ti conoscevo con un altro nome, Cemilyum, era un’altra vita.
Credi al fatto di poter avere più vite alle tue spalle ? “

Non sapevo che rispondere. La mia attenzione era sulle sue mani, ancora più che sulle parole, la guardavo pocciare un pezzo di beskuit nel suo caffè, dita agili, nodi che tradivano l’età, unghie lunghe e dure. Sembravano gli artigli di un falco, più che mani umane. Già, tra le tante leggende sui Djinn, una dice che hanno zampe di uccello e che da questo particolare si possono riconoscere, per quanto si travestano.
Vedendomi tacere pose sul tavolo una carta da gioco, dalla parte coperta. Da dove era uscita ? Non saprei dire.

“ Non mi credi. Eppure non è la prima volta che incontri qualcuno dell’altra parte, in questa vita. Ricordi l'Angelo ? “

Avrei voluto girare la carta per curiosità, ma ci teneva sopra un dito. Quanto a Gabi, Gabrielle, non si può dimenticare.
A parte la tinta, quella vestaglietta che Gianna indossava, era identica alla camicia da notte aperta che portava sempre lei, perché potessi arrivare ai suoi seni quando volevo.

“ Ne sai di cose. C’è una che mi piace ricordare come un Angelo, ma è così, tanto per usare una bella immagine. In realtà è di Francoforte. “

Seni minuscoli, se ne vergognava e per questo preferiva avermi dietro. I capezzoli però erano lunghi, fatti apposta per essere morsi.
La Djinn aveva inclinato la testa e sorrideva paziente.

“ Così diceva. Loro si nutrono di dolore, sai ? Sono la simbiosi perfetta con voi mortali, voi producete, loro rimuovono. “

Le strisce rosse sul suo sedere, all’inizio rimanevano un attimo solo, poi diventavano sempre più persistenti, i segni delle dita, i suoi polsi legati con la cinta dell’accappatoio..

“ Se non li trattenesse Allah, non vi lascerebbero un attimo di respiro, non ne hanno mai abbastanza.. “

Mi aveva svegliato a notte fonda solo per dirmi che mi aveva sognato. Aveva voluto farlo ancora, subito. Poi ci eravamo addormentati ancora.

“ ..Tutto nella convinzione di fare solo il vostro bene.. ma per loro è come una droga, non ragionano più.. “

Mi aveva detto che era stato come partorirmi, per darmi la vita di nuovo, non esagerava, si era appena presa tutta la mano dentro..
Con quel ricordo, presi la mano di Gianna, quella sulla carta, e la portai sotto il colletto della mia camicia, le unghie sulla spalla, lei le affondò subito nella carne, bruciore, umido, la trattenevo, non volevo che lasciasse la presa.

“ .. A lasciarli fare, finirebbe ancora come al tempo di Enoch. Sono terribili gli Angeli. “
L’avevo a cavalcioni, si strusciava sulla pancia, poi era venuta come una fontana…
Era stato così difficile, dopo, tornare ad accontentarsi delle italiane terra-terra.

Gianna si era avvicinata, aveva posato le labbra sul graffio, la gente agli altri tavoli fingeva di non vedere, ma si fiutava l’imbarazzo nell’aria. Io ignorandoli le carezzavo i capelli sulla nuca. Fece un passo indietro e tornò a sedersi, finì il suo caffè prima di continuare.

“ Quell'Angelo insomma, quando non era occupata a farsi sculacciare e sodomizzare, ti ha mostrato una carta, vero ? “

“ Quasi. E’ partita dal mio nome e data di nascita, è risalita a un numero col triangolo pitagorico, poi si, lo ha collegato a una carta. “

Gianna voltò quella sul tavolo, ma ormai sapevo già cosa avrei visto.
Nove di Spade, un cuore sanguinante trafitto da nove pugnali, come un puntaspilli.

“ E' quella che mi ha detto lei, proprio. Diceva che rappresenta la scelta di scontare molto karma in una volta sola per forzare un passaggio, farsi carico di una brutta vita, in cambio di altro dopo. Bisognerebbe che il dopo esistesse. “

“ E ti riconosci in questo ? “

“ E’ una decisione tutto o niente, effettivamente sarebbe la mia maniera di procedere. E’ vero, ho avuto una vita da chiavica, o sono solo, o con qualcuno che mi fa rimpiangere la solitudine.
Ma ha senso ? Un altro me stesso fa dei danni ai tempi di Tamerlano, e devo pagarli io al suo posto ? “

“ Prima di tutto, se non è vero, come fai a sapere che era al tempo di Timur ? … “

“ Ma ho detto una cosa a caso ! Comunque, dimmi tu allora, cosa avrei fatto in una vita passata, per essere punito in questa maniera adesso ? “

Gianna sospirò, e guardò verso il sentiero che sale al monte, senza rispondere.

“ Alzati. Facciamo un giro. “
scritto il
2018-12-13
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