Melanie
di
mudcrawler
genere
dominazione
Conosco Melanie in un locale, beviamo qualcosa insieme. Ci siamo scritti un paio di giorni prima su un sito, mi ha incuriosito la sua aria da maestrina, capelli ricci corti, occhialini, look un po’ nerd e un po’ hippie, mi son buttato.
Capisco ben presto che il mio umorismo è un po’ troppo per lei, soprattutto quando faccio una battuta sul come ci siamo trovati, sembra se ne vergogni un po’ e non le piace scherzarci. Va bene, faccio il bravo.
Si parla del più e del meno fino a quando, dopo un paio di white russian, si arriva ad argomenti più focosi; lei non si scopre troppo all’inizio, allusioni, parole tra i denti, a un certo punto colgo tra le righe di una volta in cui è stata con più di un uomo. Nulla contro ma dal personaggio che ho davanti non me l’aspettavo proprio. Con agile volo verbale giro intorno alla cosa cercando, per pura e morbosa curiosità, di capire di più. Non erano due, erano tre, uso tutta la forza che ho per tenere a bada ogni possibile reazione. Ok, adesso voglio capire come scatenare la bestia. Da quanto evinco non dipende dall’aspetto fisico né da qualche pratica in particolare, non dipende dall’età e nemmeno dalla situazione economica (sai mai, primo non avrei avuto alcuna possibilità, secondo mi sarebbero cadute le palle e me ne sarei andato).
Usciamo dal locale e lei fa per salutare e andarsene. Io tento la sorte forzando lievemente la mano, “Ma come, è presto, è venerdì…”, mi arrampico un po’ sugli specchi. Lei sorride squittendo leggermente, arrossisce e sottovoce dice “Va bene”. Inizia a formarmisi in testa un’idea, disordinata e vaga, la metto da parte per un attimo. Mi dice che però è venuta coi mezzi, le rispondo che non c’è problema e andiamo verso la mia macchina. Mentre camminiamo in circonvallazione parliamo di Milano, di viaggi e città viste, messi insieme abbiamo girato tutta l’Europa e qualcosa in più; non ho l’impressione che voglia scappare ma neanche che voglia passare il resto della sua vita qui, faccio davvero fatica a capire chi ho davanti e questo mi tiene continuamente attento.
Accendo la macchina e in un attimo di terrore penso a quale orrore cosmico potesse uscire dalle casse facendola scappare; per fortuna stavo ascoltando Tom Waits all’andata per cui il suo vocione e il suo piano accompagnano la nostra traversata cittadina notturna, nulla di più adatto.
Quando scendiamo dalla macchina Melanie ha un attimo di esitazione, si ferma e mi guarda. Io non so bene cosa fare, la guardo e le chiedo semplicemente “Saliamo?”, lei non risponde; le torno vicino e le dico che possiamo anche solo parlare, ascoltare musica e bere qualcosa, nessuno ci obbliga a fare nulla, non sembra convinta. In uno slancio improbabile e anche un po’ incontrollato me ne esco con “Mi piaci molto, mi farebbe piacere passare ancora del tempo con te”, lei sorride e andiamo verso casa. L’idea prende sempre più forma, inizio a chiedermi fino a che punto si spinga.
Entriamo e la faccio sedere sul divano mentre prendo qualcosa da bere. Mi serve un disco particolare da mettere, qualcosa di sexy ma non troppo esplicito, accomodante ma con un qualcosa fuori posto. Ringrazio per l’esistenza dei Depeche Mode, “Some great reward” è la risposta che cercavo. Lei apprezza e io esulto dentro di me.
Riprendiamo a parlare, si torna presto in territori hard e dopo qualche minuto mi azzardo ad allungare la mano sulla sua gamba; Melanie si irrigidisce e mi guarda con uno sguardo tra il triste e il supplichevole, io continuo a non capire. Mi dice che forse è meglio che torni a casa, io non voglio dargliela vinta e insisto, lei mi guarda e mi chiede “E cosa vorresti farmi?”. Sento il mio cervello fare crack. La sua espressione è cambiata, leggo una sfida nei suoi occhi e nel mezzo sorriso accennato; inizio a rispondere scherzoso e soft, mi accorgo che la sto perdendo e allora mi indurisco (verbalmente, s’intende), lei si agita sul posto, fa per alzarsi e io la prendo per un polso, si gira e mi infila la lingua in bocca. Mi riprendo dalla sorpresa e ricambio, creando un mulinello linguistico di cui Gene Simmons sarebbe fiero. Mi infilo sotto la sua camicetta, lei si stacca di colpo e cerca di nuovo di alzarsi, questa volta con successo. Mi alzo anch’io e le chiedo esplicitamente cosa non vada bene, risponde a mezze parole, non capisco quasi nulla, a questo punto ripenso all’idea di prima e chiedo conferma: “È un gioco? Ti piace che forzi la mano? Mi va bene giocare ma devi dirmelo se no ho paura di fare cazzate.”. Melanie resta in silenzio, di nuovo quello sguardo di vergogna e tristezza, giocherella con un anello e lascia che un ‘sì’ le esca tra i denti, percepibile solo per il sibilo della s. L’idea ora ha una forma: le piace sentirsi voluta con forza, le piace giocare ad essere costretta. Va bene, giochiamo.
La prendo per i fianchi e la porto di nuovo con decisione sul divano. Sto per rimettere la bocca sulla sua quando mi dice “Desaparecido”; desaparecido a chi, ci sarai tu. Non colgo, lei capisce: “Per finire il gioco”. Ha una safeword pronta, conosce bene il gioco.
“Te la ricordi?”
È il primo dei Litfiba e la tua gonna colorata mi ha fatto pensare a “Tziganata” quando eravamo ancora al locale, certo che me la ricordo. Riassumo tutto in un “Sì.” e le tappo la bocca, intanto con la mia bocca. Nel frattempo con la mano ritorno sotto la camicetta e le afferro con decisione un seno, provocando un mugugno sommesso che mi fa capire il suo apprezzamento. Mi sposto allora con le dita e inizio a stringere piano il capezzolo ma è quando aumento la stretta che i suoi versi si fanno decisamente più forti. Allora mi stacco dalla sua bocca, le apro la camicetta cercando di non far saltare i bottoni (sotto sotto sono un gentleman, che ci volete fare), tiro su il reggiseno e mi avvento direttamente coi denti su un davanzale niente male. Nel frattempo una mano è risalita sotto la sua gonna con l’intenzione di massaggiarla sopra le mutandine, arrivo a destinazione e per un attimo mi chiedo che razza di mutande abbia su, sembrano fatte di pelo. Poi mi sento un completo deficiente e inizio a ravanare direttamente nella sua tana fradicia, scatenandole una serie di contorsioni che cerco di controllare con l’altro braccio. Dopo un paio di minuti sento uno schizzo sul braccio, capisco che la cosa le sta piacendo molto, continuo ancora per un po’ poi mi tolgo e la spingo contro lo schienale del divano. Le alzo la gonna e sfilo le mutande, lasciandole i sandali ai piedi, le prendo le caviglie e gliele tiro fin quasi alla testa, costringendola in una posizione oscena a mia completa disposizione, quindi metto la faccia dove poco prima c’erano le dita e divoro tutto senza alcuna pietà, ogni centimetro di pelle, ogni goccia, ogni buco, per un attimo perdo il controllo della situazione e mi abbuffo come se fossi davanti al più prelibato banchetto.
In un attimo di lucidità ripenso a quello che ci siamo detti poco prima, lei è donatrice di sangue ed io ho appena fatto visite di ogni tipo per cui siamo sani, non so se lei sia protetta. A scanso di equivoci, quando qualche minuto dopo stacco la faccia da quel posto meraviglioso non considero nemmeno l’ipotesi di passare dalla porta principale e busso direttamente sul retro. Se è stata con tre uomini insieme avrà almeno provato, mal che vada sentirò la temuta parola e cambierò rotta. Invece di parole non ce ne sono proprio, Melanie fa per arretrare ma è ancora bloccata nella posizione di prima, mi mette le mani sulla pancia, capisco che non devo esagerare e quindi lascio che la punta entri da sola, poi mi fermo e la fisso negli occhi con un mezzo ghigno, il tipo di espressione che in quel momento ti fa sentire incredibilmente figo poi quando provi a rifarla ti senti solo un coglione. Beh in questo momento funziona, lei sorride e le sue mani passano sulle mie chiappe, a quel punto entro tutto, deciso ma senza fretta. Spalanca la bocca a prendere più aria che può, per un attimo temo che faccia un urlo mostruoso, poi però resta in apnea mentre io inizio a muovermi dentro di lei. Ogni tanto rilascia l’aria facendo dei versetti simili allo squittio che ho sentito nella sua risata, questa cosa mi fa salire il sangue fino alle orecchie e in poco tempo ci sto dando come un dannato. Le metto tre dita in bocca e lei ci gioca, non mi sembra vero di avere davanti la maestrina con cui parlavo al locale; tolgo le dita dalla sua bocca e le metto nel buco che non sto già occupando, 5 secondi dopo vengo di nuovo innaffiato.
Non è stato facile capire quale fosse la chiave per accendere Melanie, ammetto che è servito anche un po’ di coraggio per girarla quella chiave. Di sicuro ne è valsa la pena, il resto della serata è continuato sulla stessa linea, con qualche pausa per riprendersi e un finale esplosivo quanto scomodo in doccia. Una volta giunta l’ora di riportarla a casa però le è lentamente tornato quel velo di tristezza negli occhi e adesso le chiedo perché. Mi spiega che da sempre le piace fare questo gioco ma che la cosa la mette a disagio e se ne vergogna. Capisco, con qualche parola cerco di dirle che non ha nulla di cui vergognarsi, realizzo che non la conosco abbastanza per poter parlare, non ho idea dei come e dei perché, so poco e nulla della sua vita, mi sento arrogante a voler parlare e viro saggiamente sul silenzio, aggiungendo solo “Mi spiace che ti senta così”. La lascio a un incrocio, probabilmente non vuole che veda dove abita, so che non la rivedrò più perché ora conosco il suo terribile e vergognoso segreto: è un essere umano come tutti gli altri.
Capisco ben presto che il mio umorismo è un po’ troppo per lei, soprattutto quando faccio una battuta sul come ci siamo trovati, sembra se ne vergogni un po’ e non le piace scherzarci. Va bene, faccio il bravo.
Si parla del più e del meno fino a quando, dopo un paio di white russian, si arriva ad argomenti più focosi; lei non si scopre troppo all’inizio, allusioni, parole tra i denti, a un certo punto colgo tra le righe di una volta in cui è stata con più di un uomo. Nulla contro ma dal personaggio che ho davanti non me l’aspettavo proprio. Con agile volo verbale giro intorno alla cosa cercando, per pura e morbosa curiosità, di capire di più. Non erano due, erano tre, uso tutta la forza che ho per tenere a bada ogni possibile reazione. Ok, adesso voglio capire come scatenare la bestia. Da quanto evinco non dipende dall’aspetto fisico né da qualche pratica in particolare, non dipende dall’età e nemmeno dalla situazione economica (sai mai, primo non avrei avuto alcuna possibilità, secondo mi sarebbero cadute le palle e me ne sarei andato).
Usciamo dal locale e lei fa per salutare e andarsene. Io tento la sorte forzando lievemente la mano, “Ma come, è presto, è venerdì…”, mi arrampico un po’ sugli specchi. Lei sorride squittendo leggermente, arrossisce e sottovoce dice “Va bene”. Inizia a formarmisi in testa un’idea, disordinata e vaga, la metto da parte per un attimo. Mi dice che però è venuta coi mezzi, le rispondo che non c’è problema e andiamo verso la mia macchina. Mentre camminiamo in circonvallazione parliamo di Milano, di viaggi e città viste, messi insieme abbiamo girato tutta l’Europa e qualcosa in più; non ho l’impressione che voglia scappare ma neanche che voglia passare il resto della sua vita qui, faccio davvero fatica a capire chi ho davanti e questo mi tiene continuamente attento.
Accendo la macchina e in un attimo di terrore penso a quale orrore cosmico potesse uscire dalle casse facendola scappare; per fortuna stavo ascoltando Tom Waits all’andata per cui il suo vocione e il suo piano accompagnano la nostra traversata cittadina notturna, nulla di più adatto.
Quando scendiamo dalla macchina Melanie ha un attimo di esitazione, si ferma e mi guarda. Io non so bene cosa fare, la guardo e le chiedo semplicemente “Saliamo?”, lei non risponde; le torno vicino e le dico che possiamo anche solo parlare, ascoltare musica e bere qualcosa, nessuno ci obbliga a fare nulla, non sembra convinta. In uno slancio improbabile e anche un po’ incontrollato me ne esco con “Mi piaci molto, mi farebbe piacere passare ancora del tempo con te”, lei sorride e andiamo verso casa. L’idea prende sempre più forma, inizio a chiedermi fino a che punto si spinga.
Entriamo e la faccio sedere sul divano mentre prendo qualcosa da bere. Mi serve un disco particolare da mettere, qualcosa di sexy ma non troppo esplicito, accomodante ma con un qualcosa fuori posto. Ringrazio per l’esistenza dei Depeche Mode, “Some great reward” è la risposta che cercavo. Lei apprezza e io esulto dentro di me.
Riprendiamo a parlare, si torna presto in territori hard e dopo qualche minuto mi azzardo ad allungare la mano sulla sua gamba; Melanie si irrigidisce e mi guarda con uno sguardo tra il triste e il supplichevole, io continuo a non capire. Mi dice che forse è meglio che torni a casa, io non voglio dargliela vinta e insisto, lei mi guarda e mi chiede “E cosa vorresti farmi?”. Sento il mio cervello fare crack. La sua espressione è cambiata, leggo una sfida nei suoi occhi e nel mezzo sorriso accennato; inizio a rispondere scherzoso e soft, mi accorgo che la sto perdendo e allora mi indurisco (verbalmente, s’intende), lei si agita sul posto, fa per alzarsi e io la prendo per un polso, si gira e mi infila la lingua in bocca. Mi riprendo dalla sorpresa e ricambio, creando un mulinello linguistico di cui Gene Simmons sarebbe fiero. Mi infilo sotto la sua camicetta, lei si stacca di colpo e cerca di nuovo di alzarsi, questa volta con successo. Mi alzo anch’io e le chiedo esplicitamente cosa non vada bene, risponde a mezze parole, non capisco quasi nulla, a questo punto ripenso all’idea di prima e chiedo conferma: “È un gioco? Ti piace che forzi la mano? Mi va bene giocare ma devi dirmelo se no ho paura di fare cazzate.”. Melanie resta in silenzio, di nuovo quello sguardo di vergogna e tristezza, giocherella con un anello e lascia che un ‘sì’ le esca tra i denti, percepibile solo per il sibilo della s. L’idea ora ha una forma: le piace sentirsi voluta con forza, le piace giocare ad essere costretta. Va bene, giochiamo.
La prendo per i fianchi e la porto di nuovo con decisione sul divano. Sto per rimettere la bocca sulla sua quando mi dice “Desaparecido”; desaparecido a chi, ci sarai tu. Non colgo, lei capisce: “Per finire il gioco”. Ha una safeword pronta, conosce bene il gioco.
“Te la ricordi?”
È il primo dei Litfiba e la tua gonna colorata mi ha fatto pensare a “Tziganata” quando eravamo ancora al locale, certo che me la ricordo. Riassumo tutto in un “Sì.” e le tappo la bocca, intanto con la mia bocca. Nel frattempo con la mano ritorno sotto la camicetta e le afferro con decisione un seno, provocando un mugugno sommesso che mi fa capire il suo apprezzamento. Mi sposto allora con le dita e inizio a stringere piano il capezzolo ma è quando aumento la stretta che i suoi versi si fanno decisamente più forti. Allora mi stacco dalla sua bocca, le apro la camicetta cercando di non far saltare i bottoni (sotto sotto sono un gentleman, che ci volete fare), tiro su il reggiseno e mi avvento direttamente coi denti su un davanzale niente male. Nel frattempo una mano è risalita sotto la sua gonna con l’intenzione di massaggiarla sopra le mutandine, arrivo a destinazione e per un attimo mi chiedo che razza di mutande abbia su, sembrano fatte di pelo. Poi mi sento un completo deficiente e inizio a ravanare direttamente nella sua tana fradicia, scatenandole una serie di contorsioni che cerco di controllare con l’altro braccio. Dopo un paio di minuti sento uno schizzo sul braccio, capisco che la cosa le sta piacendo molto, continuo ancora per un po’ poi mi tolgo e la spingo contro lo schienale del divano. Le alzo la gonna e sfilo le mutande, lasciandole i sandali ai piedi, le prendo le caviglie e gliele tiro fin quasi alla testa, costringendola in una posizione oscena a mia completa disposizione, quindi metto la faccia dove poco prima c’erano le dita e divoro tutto senza alcuna pietà, ogni centimetro di pelle, ogni goccia, ogni buco, per un attimo perdo il controllo della situazione e mi abbuffo come se fossi davanti al più prelibato banchetto.
In un attimo di lucidità ripenso a quello che ci siamo detti poco prima, lei è donatrice di sangue ed io ho appena fatto visite di ogni tipo per cui siamo sani, non so se lei sia protetta. A scanso di equivoci, quando qualche minuto dopo stacco la faccia da quel posto meraviglioso non considero nemmeno l’ipotesi di passare dalla porta principale e busso direttamente sul retro. Se è stata con tre uomini insieme avrà almeno provato, mal che vada sentirò la temuta parola e cambierò rotta. Invece di parole non ce ne sono proprio, Melanie fa per arretrare ma è ancora bloccata nella posizione di prima, mi mette le mani sulla pancia, capisco che non devo esagerare e quindi lascio che la punta entri da sola, poi mi fermo e la fisso negli occhi con un mezzo ghigno, il tipo di espressione che in quel momento ti fa sentire incredibilmente figo poi quando provi a rifarla ti senti solo un coglione. Beh in questo momento funziona, lei sorride e le sue mani passano sulle mie chiappe, a quel punto entro tutto, deciso ma senza fretta. Spalanca la bocca a prendere più aria che può, per un attimo temo che faccia un urlo mostruoso, poi però resta in apnea mentre io inizio a muovermi dentro di lei. Ogni tanto rilascia l’aria facendo dei versetti simili allo squittio che ho sentito nella sua risata, questa cosa mi fa salire il sangue fino alle orecchie e in poco tempo ci sto dando come un dannato. Le metto tre dita in bocca e lei ci gioca, non mi sembra vero di avere davanti la maestrina con cui parlavo al locale; tolgo le dita dalla sua bocca e le metto nel buco che non sto già occupando, 5 secondi dopo vengo di nuovo innaffiato.
Non è stato facile capire quale fosse la chiave per accendere Melanie, ammetto che è servito anche un po’ di coraggio per girarla quella chiave. Di sicuro ne è valsa la pena, il resto della serata è continuato sulla stessa linea, con qualche pausa per riprendersi e un finale esplosivo quanto scomodo in doccia. Una volta giunta l’ora di riportarla a casa però le è lentamente tornato quel velo di tristezza negli occhi e adesso le chiedo perché. Mi spiega che da sempre le piace fare questo gioco ma che la cosa la mette a disagio e se ne vergogna. Capisco, con qualche parola cerco di dirle che non ha nulla di cui vergognarsi, realizzo che non la conosco abbastanza per poter parlare, non ho idea dei come e dei perché, so poco e nulla della sua vita, mi sento arrogante a voler parlare e viro saggiamente sul silenzio, aggiungendo solo “Mi spiace che ti senta così”. La lascio a un incrocio, probabilmente non vuole che veda dove abita, so che non la rivedrò più perché ora conosco il suo terribile e vergognoso segreto: è un essere umano come tutti gli altri.
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