26 giugno 2134
di
AmoreePsiche
genere
etero
Questo racconto è solo l'incipit e vuole essere una sorta di gioco tra lettori/scrittori che invito a farlo proprio continuandolo a loro piacimento.
La navetta correva veloce attraverso la landa desolata, in lontananza i resti di una città che la civiltà riteneva ormai inutile. Le persone vivevano per lo più in grandi satelliti artificiali che gravitavano intorno alla terra relegando il pianeta a fonte di approvvigionamento per le materie prime, o ospitale paradiso per i pochi ricchissimi che potevano permettersi il processo biotecnologico di allungamento della vita, infine luogo di reclusione per coloro che dovevano scontare una qualche pena.
Come eravamo arrivati a questa vita è presto detto. Col nuovo millennio l’essere umano aveva dichiarato apertamente la sua arroganza che aveva portato alla frammentazione della società, inoltre la spaccatura tra i tanti poveri e i pochi ricchi era divenuta ormai insopportabile sfociando in quotidiane guerriglie dai tanti morti e sempre poveri. La tecnologia aveva fatto passi da gigante e la vita era ormai gestita da intelligenza artificiale, altro errore che la stupidità dell’uomo aveva voluto nell’illusione di alleggerirsi del peso della responsabilità personale.
E ora ero qui, ammirata di questa terra che avevo conosciuto solo in tenera età, prima di essere trasferita con la famiglia in quell’immenso villaggio fluttuante nel nulla. Come vi ero capitata? Semplice, grazie alla mia innata innocenza e ingenuità, nonché all’incapacità di accettare attenzioni da parte di altri uomini. Così, dopo una settimana di valutazione del mio comportamento da parte del computer inquisitore sono stata sottoposta alla scansione del mio cervello per decidere quale fosse la pena più adatta al mio caso. Pena che, dicono loro, è sempre riabilitativa mai punitiva.
Così a trentasette anni mi trovavo su questa navetta, con mio marito a fianco diretta verso una destinazione sconosciuta per una punizione sconosciuta. Alberto, questo il nome di mio marito, non aveva nessuna colpa e non doveva scontare alcuna pena ma così aveva sentenziato il “giudice supremo”. Quanto tempo avremmo dovuto passare in questo luogo sconosciuto non lo sappiamo, è tutto a discrezione del cervello valutatore, l’unico dettaglio è che a mio marito hanno permesso di portare qualsiasi cosa gli fosse servita per un lungo soggiorno mentre a me non hanno permesso di portare nulla, solo gli abiti che indosso ora…
La navetta correva veloce attraverso la landa desolata, in lontananza i resti di una città che la civiltà riteneva ormai inutile. Le persone vivevano per lo più in grandi satelliti artificiali che gravitavano intorno alla terra relegando il pianeta a fonte di approvvigionamento per le materie prime, o ospitale paradiso per i pochi ricchissimi che potevano permettersi il processo biotecnologico di allungamento della vita, infine luogo di reclusione per coloro che dovevano scontare una qualche pena.
Come eravamo arrivati a questa vita è presto detto. Col nuovo millennio l’essere umano aveva dichiarato apertamente la sua arroganza che aveva portato alla frammentazione della società, inoltre la spaccatura tra i tanti poveri e i pochi ricchi era divenuta ormai insopportabile sfociando in quotidiane guerriglie dai tanti morti e sempre poveri. La tecnologia aveva fatto passi da gigante e la vita era ormai gestita da intelligenza artificiale, altro errore che la stupidità dell’uomo aveva voluto nell’illusione di alleggerirsi del peso della responsabilità personale.
E ora ero qui, ammirata di questa terra che avevo conosciuto solo in tenera età, prima di essere trasferita con la famiglia in quell’immenso villaggio fluttuante nel nulla. Come vi ero capitata? Semplice, grazie alla mia innata innocenza e ingenuità, nonché all’incapacità di accettare attenzioni da parte di altri uomini. Così, dopo una settimana di valutazione del mio comportamento da parte del computer inquisitore sono stata sottoposta alla scansione del mio cervello per decidere quale fosse la pena più adatta al mio caso. Pena che, dicono loro, è sempre riabilitativa mai punitiva.
Così a trentasette anni mi trovavo su questa navetta, con mio marito a fianco diretta verso una destinazione sconosciuta per una punizione sconosciuta. Alberto, questo il nome di mio marito, non aveva nessuna colpa e non doveva scontare alcuna pena ma così aveva sentenziato il “giudice supremo”. Quanto tempo avremmo dovuto passare in questo luogo sconosciuto non lo sappiamo, è tutto a discrezione del cervello valutatore, l’unico dettaglio è che a mio marito hanno permesso di portare qualsiasi cosa gli fosse servita per un lungo soggiorno mentre a me non hanno permesso di portare nulla, solo gli abiti che indosso ora…
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