A che serve l'estate - Questa sera mi voglio divertire

di
genere
etero

“Questa sera mi voglio divertire”. La guardo senza particolare malizia. Non mi viene nemmeno da chiedere che tipo di divertimento abbia in mente. Ora come ora in realtà non me ne frega nulla. Mi sono bastate quelle cinque parole: questa-sera-mi-voglio-divertire. E il modo in cui le ha pronunciate. Mi sento di colpo più leggera.

Cominciavo a preoccuparmi un po’. Da quando siamo qui in Croazia Serena è sempre stata strana. Anzi, metteteci pure quel giorno di viaggio che abbiamo fatto per arrivare qui. Un treno e due traghetti. E’ dalla Stazione Termini, dal nostro appuntamento, che era strana, ma un po’ me l’aspettavo.

Sapevo che aveva passato la giornata precedente con Lapo. Poi ciao-ciao. Lei con me, a fare le bariste su una spiaggia, lui con Bambi, la sua fidanzata danese. Sapevo che il solo pensiero di questa separazione le sarebbe stato intollerabile, lei di Lapo è innamorata. Lei di Bambi (che in realtà si chiamerebbe Kirsten ed è una ragazza deliziosa) è gelosa. Umore nero e morale sotto le suole delle sue sneakers. In treno non ne abbiamo parlato, non ce n’era bisogno. E anzi, quel poco che ci siamo dette è servito più che altro per dirle che non era la sola ad avere bisogno di essere compatita.

Mentivo, è ovvio. Non è che le cose mi vadano così male. Ma non volevo fare la parte di quella cui le cose girano per il verso giusto e si porta appresso l’amica sfigata. Così le ho ripetuto per forse la decima, ventesima volta di che tipo di tranvata abbia preso con Jean, quel tipo di cui mi ero invaghita e che mi ha praticamente scansata per andare con un’altra. Le ripeto, forse con un po’ troppa enfasi, che per me non si trattava della scopata di una sera, che Jean mi piaceva proprio. E che vabbè, almeno sono riuscita a concentrarmi sullo studio e ho dato due esami. Ma questo, con Serena, non l’ho sottolineato. Perché ha passato un luglio tormentato e ha dato solo un esame. E non le è andato nemmeno particolarmente bene.

Le ho nascosto un bel po’ di cose, in questi ultimi tempi. Non le ho raccontato di avere scopato con Stefania, né di Ludovica. Né che mi sono fatta quella troietta di Antonella nel bagno di una discoteca di Ancona. Le ho raccontato solo di essere stata inculata dal gestore di uno stabilimento. E naturalmente ho fatto la vittima, la sedotta incapace di resistere alla tentazione del cazzo di un uomo più grande di lei. Ma se avete letto i capitoli precedenti sapete che non è andata esattamente così.

E inoltre non le ho nemmeno detto che l’altra sera, dopo avere festeggiato all’Argentario con i miei il mio compleanno che in realtà compleanno non era (quello semmai lo festeggerò proprio con Serena in Croazia, ad agosto), sono uscita con mia sorella Martina e due ragazzi di Roma. E’ stato un po’ il suo regalo a sorpresa. Due ragazzi belli e anche molto simpatici, dell’età di Martina. Cioè cinque anni più di me. Educati, garbati, ma che sapevano il fatto loro. E’ uscito fuori che hanno la casa ad Ansedonia, non molto distante da quella che papà e mamma prendono per le vacanze. Ma non me la sono sentita di andarci. Quando abbiamo fatto ritorno da un bar sul porto, tutti abbastanza brilli per la verità, ho lasciato che Martina ci si chiudesse con Vanni, in quella casa. Sapevo come sarebbero finite le cose e, nonostante ormai io sappia tutto di lei e lei di me, non avevo voglia di fare sesso a pochi metri da mia sorella, nella stanza accanto. O magari nella stessa stanza. Ritegno, che ne so, che vi devo dire… Così sono andata con l’altro, Adriano, a cercare un po’ di solitudine sulla spiaggia. Non molto difficile da trovare, visto che era più o meno l’una di notte.

All’atto pratico, un vero porco, Adriano. Non gli è bastato un pompino (un vero capolavoro, tra l’altro, uno dei migliori che abbia fatto in vita mia, ha goduto come un pazzo), voleva anche mettermelo dietro. Sono riuscita a dissuaderlo, però poi mi ha scopata due volte, praticamente in ogni posizione che vi venga in mente, sopra un tavolo da picnic inzaccherato dalla salsedine.

E anzi la seconda volta, quando mi ha chiesto se mi andava ancora, sono io che l’ho praticamente supplicato con un sorriso indecente, che gli ho miagolato davanti tutta la mia voglia. Non ce ne sarebbe stato bisogno, mi sa. Era assatanato come pochi, davvero. Strillavo come una pazza e ad un certo punto se pure mi avesse sodomizzata non me ne sarebbe potuto fregare di meno, non capivo letteralmente più un cazzo. E quando è venuto per la terza volta non potevo immaginare che me ne avrebbe schizzata così tanta sulla coscia. E che cavolo, ma che sei, una fabbrica di sperma?

Pero devo ammettere una cosa: nessun rimpianto, proprio di nessun tipo. No regrets. Anzi, quel residuo di stress che mi attanagliava è stato come spazzato via. Non scopavo proprio da quando ero stata con quel tipo dello stabilimento. Comune denominatore, il mare a pochi metri. Ma con Adriano è stata una cosa completamente diversa: divertente, appassionata, non prevista fino a un paio di ore prima. Una cosa assolutamente uaaaoooo… L’ho preso come un regalo di Martina e l’avrei anche ringraziata. Invece, quando mi ha confessato di essersi concessa “in tutto e per tutto”, così ha detto, le ho dato ridendo della mignotta. Ma del resto lei da questo punto di vista è molto più aperta a questo genere di esperienze. Senza che facciate tanto gli stronzi su quell’ “aperta”, non era un doppio senso, il mio.

Con Adriano comunque ho continuato a smessaggiarmi tutto il giorno seguente, sin da quando ero sul treno e tornavo a Roma con nonna. All’inizio il suo “se lo sapevo andavo con tua sorella, è molto più troia”, mi aveva fatto incazzare. Anche perché ricordavo benissimo come impazziva e cosa diceva mentre ce l’avevo in bocca (“ti piace, eh? sono brava?”. “Brava? Tu sei patrimonio dell’umanità!”). Ma lui ha subito chiarito che scherzava. Abbiamo continuato a scriverci porcate anche dopo che sono arrivata a casa. E anche mentre facevo la valigia per il giorno dopo. Mi eccitavano le sue zozzerie, anche abbastanza raffinate per la verità, e gliel’ho pure detto, “ho casa libera, perché non vieni?”. Sarebbe stata la prima volta che mi portavo qualcuno a casa e, in fin dei conti, non mi sarebbe dispiaciuto per nulla se si fosse fatto quelle due ore scarse di macchina per venirmi a trovare. Il ragazzo – ve lo ripeto – non è per niente male e io ne sarei stata davvero lusingata. E poi, che ne so, mi sarebbe piaciuto rivederlo, mi sarebbe piaciuto fargli capire che, insomma, se avesse voluto, avrei potuto essere anche qualcosa di più di una puttanella che gliel’ha data una botta e via sulla spiaggia. Non dico che mi fossi innamorata, mi conoscete. Però… Invece niente, non poteva, fanculo. “Magari ci sentiamo quando torni”. Sì Adriano, magari ci sentiamo quando torno. Boh, non lo so, ci devo pensare. Però mi piaci.

Ho ripiegato su una sessione di sexting molto ma molto spinto con Fabrizio, che la sera laggiù, a Doha, non sa letteralmente cosa cazzo fare. Però non mi delude mai. Va a finire che me lo sposo, Fabrizio, mi sono detta ridacchiando mentre cercavo di addormentarmi con il cuscino bagnato tra le gambe.

Sul traghetto per Spalato io e Serena abbiamo conosciuto tre ragazzi. O meglio, due ragazze e un ragazzo che viaggiavano insieme. Una combinazione particolarmente strana di stili e di caratteri. Il ragazzo sembrava tutto sommato un tipo normale, anche leggermente depresso, se vogliamo. Una delle due ragazze sembrava invece uscita da un serial tv sulle gang giovanili: capelli cortissimi, canotta bianca con un chiodo sopra contro l’umidità della notte, piercing a tutto spiano. Parlava con un pesante accento spagnolo ed era bellissima con i suoi capelli scuri cortissimi e gli occhi come quelli di un husky. Ma quella che mi incuriosiva di più era l’altra ragazza, che sembrava più piccola di loro e che indossava un cardigan celeste pastello e una camicetta bianca. E aveva anche fatto la coda ai suoi capelli castano-chiari e sottili. Se non avesse indossato i jeans per affrontare la traversata l’avrei vista bene con una gonna blu plissettata e un filo di perle al collo. Non ha quasi spiccicato parola, indecifrabile. Avevano aperto dei sacchi a pelo nel passaggio da una parte all’altra del ponte, una posizione strategica se si fuma parecchio. Cosa che il ragazzo e la spagnola in effetti facevano. Con lei sono anche uscita a farmi una canna dopo cena, quando a sfidare il fresco della notte sul mare non c’era rimasto nessuno. Ci siamo sistemate con loro, rinunciando ai nostri posti in poltrona. Quando Serena è crollata addormentata tra le mie braccia, la spagnola mi ha domandato se fosse la mia fidanzata. Le ho risposto di no, chiedendole perché lo avesse pensato. Mi ha detto che sembravamo una coppia che aveva appena fatto pace dopo avere litigato. Chissà perché. Io invece non le ho chiesto niente sulla ragazza che, nel frattempo, dormiva con la testa sulle sue cosce e le gambe allungate su quelle del ragazzo. Ma la tentazione di sapere che razza di rapporto intercorresse tra loro tre era forte.

Arrivate a Spalato, io e Serena abbiamo atteso il traghetto per l’isola di Hvar. A quel punto eravamo già abbastanza provate e io, personalmente, anche abbastanza contrariata. Bisogna finirla con questa storia che a me e solo a me chiedano il passaporto. Ho quasi venti anni, cazzo, anche se sembro una ragazzina. Quando siamo sbarcate, abbiamo provato a fare l’autostop ma non ci si è cagato nessuno. Dalla nave uscivano solo macchine stracariche di famiglie che non vedevano l’ora di cominciare la vacanza. Ci eravamo rassegnate ad prendere il bus, e per fortuna che un’anima pia ci ha informate che il bus per Milna, il paesino cui eravamo dirette, non esisteva proprio. E qui, se prima ero contrariata, mi sono incazzata davvero. Non sapevo nemmeno io con chi. Di certo, però, non era immaginabile farsi quindici chilometri a piedi con i trolley e gli zainetti. Ci ha salvate un tipo con un furgone che portava la frutta, che ci ha caricate sul cassone insieme a meloni, cocomeri e pesche. Faceva tutto molto avventura-di-viaggio. Peccato che ogni buca sulla strada rischiasse di sbalzarci fuori, quando siamo scese avevamo le schiene a pezzi. Dal paesino però abbiamo davvero dovuto camminare fino alla spiaggia, che naturalmente col cavolo che era quella che avevamo davanti agli occhi. Un chilometro e mezzo buono ce lo siamo fatte, tra salite e discese e sotto un sole cocente. Quando siamo arrivate non eravamo nemmeno certe che fosse quello il bar dove avremmo dovuto lavorare. In realtà eravamo così stanche che quasi non capivamo più un cazzo. L’unica cosa positiva era che il posto, in sé, è davvero fantastico. Una baietta nemmeno tanto scomoda, piazzata davanti a un’acqua cristallina, cui si arrivava camminando dentro una fresca pineta. Per il resto, un disastro. Eravamo a pezzi, sudate, anche un po’ sporche dopo la notte in traghetto. Sarebbe stato giusto presentarsi al padrone del bar dicendogli “se cercavi due belle fighe per attirare i clienti, beh, non siamo noi”.

La prima persona che ho visto dentro il chiosco, e che mi dava l’idea di non essere una bagnante ma una che lì ci lavorava, è stata una donnona. Davvero enorme. Spalle, petto, braccia, gambe, culo: tutto enorme. Le ho detto, in inglese, che cercavamo il signor Mario. Mi è stato subito evidente che di inglese non capiva una parola. “Mario” però deve averlo capito. Ha urlato qualcosa di incomprensibile e dopo pochi secondi è arrivato un tipo. Un fusto. Di colore ma non scurissimo. Alto, due spalle così, bicipiti prelevati da un manuale di fitness, capelli corti sopra la testa e completamente rasati ai lati. Orecchino. Obiettivamente, un figo spaziale sul quale in un altro momento avrei fatto pensieri ben poco virtuosi. O per il quale almeno, sempre in un altro momento, mi sarei rallegrata di averlo come datore di lavoro. Mi ero sbagliata, però. Il signor Mario non era lui. Lui era Carlos. Ci ha salutate e immediatamente, questo sì che mi ha colpita, ho visto la gentilezza disegnata sul suo viso. Parlava inglese. Non benissimo, ma abbastanza da farsi capire. E anche un po’ di italiano misto a spagnolo. Ha spiegato al donnone chi fossimo e Jagoda, questo il suo nome, è letteralmente esplosa in una risata. Un boato di cordialità, direi. Peccato che invece di stringermi la mano mi abbia dato una pacca sulla spalla talmente forte che, se Carlos non mi avesse afferrata, sarei sicuramente finita spiaccicata sul suo petto. In tutto ciò, Serena era rimasta due passi indietro, come intimidita. Le ho lanciato uno sguardo del tipo “cazzo, mi ci hai portata tu qui e adesso fai la ritrosa?”.

Carlos ci ha condotte dentro e ci ha spiegato che Jagoda si occupa soprattutto della cucina, perché qui fanno anche il pranzo, insieme a un’altra ragazza, Ivana, con l’accento sulla i. Ho sbirciato dentro e ho visto una tipa seduta su uno sgabelletto. Deve essere altissima, ho pensato, perché le ginocchia quasi le arrivavano al mento. Completamente vestita di nero e con un viso stre-pi-to-so incorniciato da lunghi capelli lisci. E, soprattutto, giovanissima. Mi sono detta che non avrà più di tredici-quattordici anni. L’ho salutata, non si è nemmeno voltata. Ha continuato a guardare fisso di fronte a sé. Vabbè…

La vera sorpresa è stata però Mario. Cioè, non saprei spiegarlo, ma proprio non me l’aspettavo di trovare un uomo di una certa età con i capelli bianchi sulle spalle e la barba altrettanto bianca, vestito con una canottiera da bagnino e sopra una sedia a rotelle. Tanto meno mi aspettavo che parlasse italiano. Ci ha salutate, ci ha spiegato un po’ come sarebbe stato il lavoro ma che comunque avrebbe pensato Carlos a dirci tutto per filo e per segno, ci ha detto di andare a riposarci perché saremmo state sicuramente stanche. E poi ha detto sempre a Carlos di portarci a casa e di spiegarci la strada per venire a piedi la mattina dopo.

In macchina, nei cinque minuti scarsi di viaggio fino alla parte opposta del paesino, Carlos ci ha raccontato di essere cubano, ma che comunque sono già sei anni che vive in Croazia. Mi sono trattenuta, lo riconosco, dal chiedergli come cazzo avesse fatto un cubano ad andare a sbattere lì. Poi, senza che glielo domandassi, ci ha detto che Mario ha perso l’uso delle gambe in guerra (in guerra? e già, sì, venticinque-trenta anni fa qui c’è stata una guerra…). Per aggiungere subito dopo: “E’ un uomo molto buono… molto buono”. Ho pensato “devi esserlo anche tu, Carlos”, ma non gliel’ho detto. E proprio in quel momento, di colpo, mi sono resa conto di una cosa. Voglio dire, Carlos è senza tema di smentite uno strafigo che lèvati, ma non mi attira nemmeno un po’. L’ho pensato notando i suoi denti un po’ grossi, che mette in evidenza quando sorride. Ma credo che alla base di tutto ci sia proprio la sua bontà. E me ne sono vergognata. Mi sono vergognata del fatto che uno, per attirarmi, debba essere un po’ figlio di puttana. O almeno non così clamorosamente pacifico come lui. In tutto questo, Serena ha continuato a fare scena muta per tutto il tempo.

La casa era completamente diversa da come me l’aspettavo. Non so, pensavo a una casetta piccolina, con il giardino davanti e il tetto di tegole. Invece ci siamo trovate davanti a un blocco di cemento grigio, a due piani. Con il portone e le finestre con gli scuri al loro posto, almeno a guardare tutto dall’esterno, ma assolutamente non rifinita. Come se qualcuno si fosse dimenticato di intonacare e dipingere i muri esterni. O come se fossero finiti i soldi per farlo. Siamo salite fino al nostro appartamento, al primo piano. Sulle scale abbiamo incontrato un ragazzo e una ragazza che scendevano. Li ho visti a malapena. Lui, non so se scuro di suo o abbronzato, con i lunghi capelli rasta. Lei bionda e con la carnagione chiarissima, scottata dal sole. Ho risposto al saluto laconico del ragazzo. La sua accompagnatrice, invece, non ha detto nulla, come Serena.

Appena entrate, ci siamo rese conto di cosa si intende quando si parla di “appartamento spoglio”. Un salone abbastanza ampio con un letto matrimoniale, un divano che forse nascondeva un altro letto, un armadio cigolante. Una cucina piccola con dentro un frigorifero altrettanto piccolo, tre fornelli alimentati da una bombola, una credenza, un tavolo e due sedie. Stop. Nessun altro mobile, niente sui muri, niente. Nemmeno le tende alle finestre. Nel bagno appena un mobiletto e la doccia a vista, con il pavimento concavo per far defluire l’acqua.

“Beh, a organizzarci ci pensiamo dopo”, ho detto a Serena che si guardava intorno. Abbiamo tirato fuori shampoo e bagnoschiuma dai trolley e ci siamo spogliate. Abbiamo fatto la doccia e abbiamo scopato. O meglio, abbiamo cominciato a scopare direttamente sotto la doccia.

Un po’ perché era tanto tempo che non lo facevamo. Da Pasqua. Un po’ perché lei mi è quasi saltata addosso. A me, lo confesso, l’idea non si era affacciata nemmeno nell’anticamera del cervello. Lei però è stata molto insistente. Ma non come lo è quando si mette una cosa in testa e non c’è verso di fargliela passare. Anzi, direi quasi al contrario. Era quasi supplichevole, bisognosa. Siamo precipitate nude sul materasso nudo, con le lenzuola ripiegate su un angolo. Non l’avevo mai vista così languida e arrendevole. Avrei potuto farle e farle fare di tutto, ma invece l’ho scopata con dolcezza, senza fretta aspettando che mi fremesse addosso il piacere dell’orgasmo che le avevo procurato penetrandola poco e sgrillettandola molto. Baciandola e succhiandole i capezzoli. Avrei potuto portarle la testa tra le mie gambe e dirle ridacchiando, come tante volte in passato, “adesso fai godere me, puttana”. Ma non l’ho fatto. Sono stata zitta e l’ho stretta, l’ho baciata quasi con cura, lentamente. Finché non ci siamo addormentate l’una nelle braccia dell’altra. Nemmeno il caldo soffocante della stanza ci ha impedito di dormire fino a pomeriggio inoltrato.

Siamo uscite per dare un’occhiata al paesino e per mangiare un’insalata. Cioè, lei ha mangiato un’insalata accompagnata da una coca. Io avevo una fame da bufalo e mi sono fatta, oltre all’insalata, anche due hamburger un po’ strani che fanno qui, con una montagna di pane davvero buono e una birra. Poi siamo andate a fare un giro. Il paesino non è davvero nulla di che, quattro case affacciate sul mare e un paio di localini. Un minimarket davvero mini ma aperto fino a tardi. Siamo tornate nel nostro appartamento puntando la sveglia del telefono alle sette meno un quarto. E subito dopo l’ho scopata ancora. Ma stavolta l’ho leccata e penetrata, le ho fatto strillare “Annalisa!”. Poco dopo, mentre attendevamo abbracciate di addormentarci, dalla nostra finestra aperta sono entrati i gemiti e gli strilli di un’altra ragazza.

– Saranno i due che abbiamo incontrato oggi per le scale – mi ha sorriso Serena – certo che si sentono, eh?

– Magari prima avranno sentito te… – le ho sussurrato prima di baciarla.

E poi il lavoro. I primi quattro giorni sono filati via in un lampo, ma al tempo stesso sono stati abbastanza faticosi. Nemmeno ci abbiamo pensato a darci il turno al bar, io e Serena, come avevamo programmato. Un po’ perché c’era da imparare tutto, un po’ per la voglia di non lasciarci sole. Una volta abbiamo mangiato nello stesso posto della prima sera, altre due volte abbiamo fatto la spesa al minimarket e abbiamo mangiucchiato a casa. Eravamo sempre stanche e cotte dal sole e dal vento. A letto siamo andate sempre molto presto, facendo l’amore. Tenerezze, più che scopate vere e proprie. Lei è sempre stata molto remissiva. Tranne ieri sera, quando non so cosa le sia preso e mi è praticamente saltata addosso con un’espressione dipinta sul viso che… beh sembrava quella di un maschio. Ha anche provato a incularmi con il suo giocattolo preferito, il manico della sua spazzola. Senza cura, né complicità. Meccanica. Violenta. Mi sono messa a piagnucolare dicendole “no, basta, non voglio” e si è fermata. Mi aveva davvero fatto male.

– Cosa cazzo hai? Che t’è preso??? – le ho domandato con le lacrime agli occhi.

Era come sotto shock, mi ha guardata. Siamo state così, immobili e silenziose per non so quanto tempo. Poi è scoppiata a piangere. Ma quando dico “scoppiata” non rendo l’idea. Non riuscivo a consolarla, nemmeno quando si è buttata tra le mie braccia. L’ho stretta e l’ho sentita singhiozzare per un quarto d’ora buono. Guardate che un quarto d’ora è tanto, quando hai la tua amica che ti piange tra le braccia. Siete nude, avete fatto sesso, e lei si dispera. E le carezze e i baci e la vostra lingua che asciugano le sue lacrime non servono a un cazzo. E lei non riesce nemmeno a dire in modo decente “sono tanto infelice” ma voi capite lo stesso, perché lo vedete, l’avete capito, e anzi lo sapete bene perché è tanto infelice. Ma non potete fare niente ugualmente.

Però che cazzo ne so, magari ci si stanca di piangere. Magari siete davvero in grado di farla stare bene. Magari è lei che ha voglia di mettersi alle spalle tutto. Magari è lo sciacquone del bagno che continua a correre e che fa casino, e che ti dà un argomento di conversazione, che ti dice che prima o poi una delle due dovrà decidersi a vedere dentro quella stracazzo di cassetta per capire se si può fare qualcosa. Magari sono i due del piano di sopra che scopano con le finestre aperte, e gli strilli della ragazza entrano dentro le vostre, di finestre aperte, e voi cominciate a ridere silenziosamente ma senza sapervi frenare, finché non vi addormentate insieme alle quattro di notte.

Per questo adesso la guardo quasi con sollievo. No, anzi, niente quasi, è proprio sollievo quando mi dice “stasera mi voglio divertire” mentre siamo sulla spiaggia alle due del pomeriggio e stiamo portando in cucina i piatti vuoti di una tavolata di stranieri.

– Qual è la tua idea di divertimento? – le chiedo.

– Voglio bere, voglio proprio sfondarmi – risponde – sai cosa è un pub crawl?

– Certo – le rispondo.

– Qui ne fanno uno in barca…

– Guarda che domani ci dobbiamo svegliare alle sette… e già stanotte non abbiamo dormito tanto.

– Facciamo che da domani cominciamo i turni, ok? Ti va di fare la mattina?


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scritto il
2020-03-18
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