A che serve l’estate - Un appuntamento per settembre
di
Browserfast
genere
etero
Sto bevendo un cappuccino freddo. Anzi, meglio: sto assaggiando sulla punta di un cucchiaino quella panna buonissima che fanno qui, artigianale, né troppo dolce né troppo gonfia d’aria. Intrisa del cappuccino e tempestata dai cristalli della granita di caffè che ci mettono dentro. Sebbene si tratti di un evidente attentato alla mia persona, sostanzialmente la premessa di un femminicidio, vado incontro al mio destino, mando giù tutto. Chiudo gli occhi per il piacere insostenibile, la mia faccia si distende in un sorriso. “E’ da un bel po’ che non ti vedo sorridere così”.
Questo bel signore un po’ brizzolato che me lo dice, elegante anche nella sua Lacoste bianca e nei suoi bermuda un po’ ricercati, è il mio papà. Il Professore. O il Dottor Luigi. Ma non come si dice a Roma, “venghi dottò”. Piuttosto come lo chiama il nostro garagista o Momo, il kebabbaro sotto casa, occasionalmente spacciatore di hashish, che ogni volta mi dice bella-signorina-Annalisa-salutami-dottor-Luigi da quando avevo tredici anni. Perché mio padre dottore, e professore, lo è per davvero. Primario di ortopedia.
Io, davanti a lui, sono bellissima. Con un vestitino con le spalline sottili, blu elettrico per far risaltare i miei capelli biondi raccolti a coda, la mia pelle ancora un po’ ambrata e i mei occhi azzurri. Mi sono anche messa un po’ di rimmel, io che non mi trucco quasi mai. L’ho fatto per lui.
Cioè, no, un attimo. Se pensate che questo sia uno di quei racconti in cui padre e figlia finiscono prima o poi per fare le zozzerie, potete pure passare ad altro. Anzi, fate così: spegnete direttamente il vostro device, qualunque esso sia, e andate a farvi un giretto di una quarantina di chilometri, che è meglio. E’ vero, questo per me è un momento daddy-focused, sono stata io a dirgli “papà aspettami che esco con te” facendolo attendere una ventina di minuti praticamente con un piede sulla soglia di casa. Però lui è il mio papà, il dottor-professor-Luigi, punto. Marito felice e padre felice, orgoglioso di me e di mia sorella Martina. L’unico cruccio che gli abbiamo dato, in fondo, è quello di non aver voluto seguire, nessuna delle due, la sua vocazione. Martina, che per spirito di autonomia ha scelto giurisprudenza e si è laureata con il massimo dei voti ed è già socia di uno studio legale. Io perché, quando avevo otto anni, andai un giorno nella clinica in cui esercitava all’epoca. Dovevamo scendere al bar e lui, per risparmiare tempo, invece dell’ascensore chiamò al piano il porta-lettighe. Le porte si aprirono e vidi che era occupato. Sopra una barella, molto sofferente, c’era un tizio a malapena celato da una coperta e tutto sangue sparso all’altezza della spalla. Mi fu sufficiente un secondo per guardarlo e una altra trentina durante i quali il mio stomaco salì su su e mi fece anche i complimenti: “Sai che hai delle tonsille davvero belle?”. Poi svenni. E da quel momento in poi non volli saperne più nulla di medicina e dintorni. Forse è per quello che sono diventata una bomba in matematica.
Ma a parte questo, dicevo, papà non ha proprio nessun altro motivo per lamentarsi di me e Martina. Vabbè, saremo due mignotte una peggio dell’altra. Ma lui non lo sa e questo è l’importante. Sì, credo che abbia ragione. E’ un po’ di tempo che non mi vede sorridere così. Ma oggi, per tanti motivi, mi sento felice e leggera come non mi capitava da qualche settimana. Perché sono state settimane un po’ tese, per usare un eufemismo.
La prima cosa che ho fatto, una volta tornate dal Conero io e Stefania, è stata escogitare il modo di rivedere Jean. Ci ero proprio andata in fissa con lui. L’ho chiamato, ricordandogli la sua promessa, e lui mi ha detto “passa qui”. Poiché non mi andava di andare da sola nel bar in cui lavora, tra l’altro ero senza macchina, ho fatto una cosa da vera stronza. Me lo dico da sola, non c’è bisogno che voi commentiate una volta che avrete letto come è andata. Mi ci sono fatta portare da Carlo, il ragazzo con cui ci ero stata la prima volta, la volta che ho conosciuto Jean. Sì, ok, Carlo ci prova un po’ troppo, ancora non l’ha capita che io proprio non ne voglio sapere. Però gli ho telefonato e gliel’ho chiesto: “Ritorniamo lì? Magari da soli stavolta…”. Una mossa da stronza fatta e finita, ripeto. Che bisogno c’era di prenderlo per il culo, di coinvolgerlo? Nessuno che non fosse quello dettato dalla mia volontà davvero maligna di riprodurre più o meno la scena con cui avevo attratto Jean. Farmi vedere mentre mi lasciavo baciare da Carlo e nello stesso tempo guardare lui con gli occhi della voglia. Magari anche spalancargli le gambe davanti perché vedesse le mie mutandine. Missione compiuta, eccezion fatta per le mutandine.
Quando ho fatto finta di andare al bagno, Jean era dietro il bancone. Mi sono avvicinata ancheggiando, lui mi ha chiesto con un sorrisino ironico “stavolta hai portato anche il tuo ragazzo, eh?”. Gli ho risposto con un sorrisino molto ma molto meno ironico “ci metto cinque secondi a mollarlo lì”. Cosa c’era da fingere ancora? Quali altre schermaglie servivano? Lo sapevamo tutti e due dalla volta precedente che ci saremmo rivisti e quale sarebbe stato il motivo. Jean mi ha detto “stasera no”. Ma come, ancora? Me l’hai detto tu di venire… “Perché?”, ho chiesto. “Perché stasera sono molto incasinato”. Gli ho lanciato un “che palle che sei Jean” parecchio deluso, ma comunque speranzoso, e al bagno ci sono andata per davvero. Quando sono tornata indietro ho capito perché fosse così incasinato. Stava parlando con una tipa più o meno della sua età, faccia da cazzo ma davvero un bel corpo. Peraltro coperto sotto i limiti della decenza da un vestitino nero davvero striminzito e con un più che discreto paio di tette, quasi del tutto in esposizione. Non era tanto il fatto che parlasse con quella troia, era come ci parlava, erano gli sguardi che si lanciavano. Non ci potevo credere ma, quando Jean si è voltato verso di me con quel suo ghigno da carogna, beh sì, ci ho creduto. E quando anche la troia si è voltata sorridendo verso di me mi è venuto quasi da piangere. Per l’umiliazione, più che altro. Non penso che il suo fosse un sorriso di scherno, ma io l’ho presa così: “Dove cazzo pensavi di andare, ragazzina? Questo me lo mangio io”. Ecco cosa mi diceva quel sorriso.
Sono tornata da Carlo e gli ho detto che volevo tornare a casa. Mi avrà sicuramente preso per bisbetica ma si è adeguato. Del resto, una sua idea per la serata ce l’aveva. Quando però si è fermato al solito parcheggio (oddio, solito, ci siamo stati solo una volta) l’ho bloccato, inibito, sterilizzato: “No Carlo, basta, non sono quel tipo di ragazza e non voglio fare sesso tanto per farlo”.
Sì, lo so, se fossimo a teatro si sentirebbero le risate in sala, ma è andata così. Ed è andata anche peggio quando, prima di salutarlo, gli ho chiarito che non avevo nessuna intenzione di avere una storia con lui e che la smettesse di cercarmi. Poi sono salita in casa e mi sono finalmente messa a piangere. Per chiarire: a me Jean piaceva davvero. Non dico che ne fossi innamorata perché sarebbe una sciocchezza, ma nella mia testolina bacata mi ero fatta un film che non comprendeva solamente qualche scopata. Non so bene cosa comprendesse, è vero, ma di sicuro il mio interesse per lui non era focalizzato solamente sul suo cazzo.
Per sfogare la delusione, l’umiliazione, la tristezza – che non sono certo durate solo un giorno – mi sono buttata a capofitto nello studio. Proprio in virtù del film che mi ero fatta su Jean, avevo commesso l’errore di mollare la preparazione di un esame e di rimandarlo all’autunno. Del resto, con la media che ho, me lo potevo permettere. Ecco, invece no. Per punirmi ho deciso che quel cazzo di esame lo avrei dato a luglio, insieme a quello che stavo già preparando. Sono andata un filino sotto stress, lo capirete anche voi.
Altra fonte di stress, come se non bastasse, Serena. Che vede avvicinarsi con terrore il giorno in cui Lapo la mollerà per raggiungere Bambi, la sua fidanzata “ufficiale”, e partirsene con lei per le vacanze. Formentera più un tour del sud della Spagna e una puntata in Marocco, se ho capito bene. Vabbè, lui è davvero impaccato di soldi e se lo può permettere. Non so come facesse Serena a studiare, ma per giorni e giorni mi è sembrato che non pensasse altro a dove andare noi due, a cosa fare ad agosto. Due, anche tre, idee e proposte al giorno. Pure abbastanza assurde tipo viaggio in Transiberiana o ritrovarsi, alla cieca, all’aeroporto di Bangkok con un gruppo di sconosciuti per un viaggio-avventura in Thailandia. C’è davvero chi fa ste cose, evidentemente. Due-tre idee al giorno, lo vorrei sottolineare, significavano anche due-tre telefonate al giorno. Lunghe, sfibranti. Una specie di terapia anti-nevrosi per lei, una enorme rottura di coglioni per la sottoscritta.
Alla fine ho ceduto a una proposta, anche questa abbastanza assurda. Una di quelle che, quando ovviamente è troppo tardi, ti fanno chiedere a te stessa “ma perché le ho detto sì? ma chi cazzo me l’ha fatto fare?”. Lei me l’ha fatto fare, è chiaro.
– Mi ha detto Ornella che lo scorso anno è stata in Croazia a fare la cameriera. Quest’anno lei non ci torna, ma ha detto che se vogliamo provare ci mette una buona parola.
– Ma sei scema? Che cazzo di vacanza è fare la cameriera? E poi chi cazzo è Ornella?
– L’hai conosciuta una sera… vabbè. No, no aspetta. Si tratta di fare la cameriera in un bar su una spiaggia. Si lavora più o meno mezza giornata e poi si sta al mare. Praticamente gratis, anzi ti pagano pure! Cioè, non tanto, ovvio, però ti danno l’alloggio e almeno un pasto al giorno, secondo me è una ficata!
– Talmente una ficata che st’Ornella ci torna di corsa…
– Ma nooo… è che si è fatta il ragazzo e vanno.. boh, in Grecia mi pare. Comunque dai, se ancora cercano gente ci si può provare. E la cercano di sicuro, perché mi ha detto che contavano su di lei…
– A parte il fatto che io so fare a malapena il caffè con la moka a casa… ma in Croazia non ci sono cameriere o camerieri? Stanno ad aspettare noi?
– Cercano ragazze… mmmh… per migliorare l’estetica del posto, dice. Sostanzialmente, cercano belle fiche…
– Ahahahahah viva la sincerità. No Sere, senti, io a fare la mignotta su una spiaggia in Croazia non ci vengo…
– Ma no, no, che cazzo hai capito? E’ tutto tranquillissimo, tutto! Si tratta solo di stare lì a lavorare cinque-sei ore al giorno, tutto qui. Senza rotture di palle né altro, garantito. Gliel’ho chiesto a Ornella. Lei è stata benissimo e senza problemi. Poi volendo ci si diverte pure, quando stacchi. Ci sono un sacco di posti…
Che cazzo vi devo dire? Le ho detto di sì, di provare a vedere se c’era posto. Più per sfinimento che per altro, direi. Voglio dire, non è che mi abbia convinto la Croazia o il mare più che un altro posto. Se quel giorno, alla millesima telefonata, mi avesse proposto di salire a cinquemila metri in Perù a piedi per dormire in promiscuità dentro alberghi puzzolenti… che ne so, magari avrei detto di sì pure a quello. Purché Serena la finisse di darmi il pilotto. La cameriera su una spiaggia in Croazia, cazzo. E pensare che ha detto di no alla mia idea di farmi un giro per le città del nord Europa. Tipo, boh, Berlino, Copenaghen. O Parigi, Amsterdam… Amsterdam. Ad Amsterdam c’è Debbie, avevo pure pensato. Chissà se…
Quel “chissà se…” si è tradotto qualche giorno dopo, ma per pura coincidenza, in un’altra telefonata. Dall’altra parte stavolta non c’era Serena, però. “Sletje! Come stai?”. “Cavolo Debbie, bene, tu?”. Questa, onestamente, non me l’aspettavo. Sì, con lei ci smessaggiamo, ci mandiamo foto e commentiamo i post su Instagram. Ma al telefono… da quando è che non la sentivo? Da Capodanno? No, c’è stata almeno un’altra volta, solo che non ricordo bene quando. Mi sa che era una sera che stavo messa abbastanza male con l’alcol. Sta di fatto che, una volta chiusa la telefonata, sono corsa in bagno a masturbarmi. Non solo perché Debbie è il corrispettivo femminile di Giancarlo (non c’è nessuno come loro due che mi riduca in uno stato di soggezione assoluta, non solo sessuale). Ma proprio per il contenuto della conversazione. Che, in breve, è stato questo: sarò a Roma per qualche giorno i primi di settembre, ci sei? Se invece non ci sei, perché non sali su ad Amsterdam, dopo?
La mia risposta era stata, in realtà, un’altra domanda: “Non posso fare tutte e due le cose?”. Ma non dovete immaginarvela come una richiesta spigliata, giocosa. Dovete immaginarvela come la richiesta, se potesse parlare, di una cagnolina cucciola che, a testa e coda abbassate, teme che le stia per arrivare un “no, non puoi” per punizione. Per avere combinato chissà cosa. E invece le sue parole sono state “ma certo, puoi fare tutto quello che vuoi”. E penso proprio che sia stata quella la prima volta che ho sorriso dopo un bel po’ di giorni.
Solo che tutto questo, naturalmente, mio padre non lo sa. E se adesso mi dice che è la prima volta che mi vede sorridere da un sacco di tempo è perché è vero. E se il sorriso che gli ho appena fatto, grazie a questa delizia di cappuccino freddo, si ritrae un po’ è perché un po’ in tensione ci sono ancora, visto che devo chiedergli una cosa.
– E’ stato un periodaccio, papo, non pensavo di farcela a dare tutti e due gli esami…
– Topolina, tu certe volte chiedi troppo a te stessa. Che bisogno avevi?
– Lo sai come sono fatta, no? Tutti hanno la loro nevrosi… Seeeenti… posso chiederti una cosa?
– Oggi puoi chiedere tutto quello che vuoi.
– Non è che quando torno dalla Croazia posso… ecco sì, posso andare qualche giorno ad Amsterdam?
– Ad Amsterdam?
– C’è una mia… c’è una mia amica che mi ha invitata, è una che ho conosciuto lo scorso anno a Londra, alla scuola…
– Ma certo amore, perché no?
– A te e a mamma non secca? Starei a Roma solo per qualche giorno, dopo essere tornata dal mare…
– Ma stai scherzando? Certo che puoi…
Certo che puoi… Se papà sapesse che questo inverno Debbie mi ha convinta a guardare la televisione insieme a loro con un ovetto vibrante infilato nella fica forse non me lo direbbe “certo che puoi”. Però se lo merita proprio che questa splendida figliola gli butti le braccia al collo e gli dia un bacio sulla guancia, gli dica “grazie papà, ti voglio bene”. E non sono falsa, eh? Ma nemmeno per niente. Io il mio papà lo amo davvero. Anche se in questo momento mi vergogno come una ladra a stare così, davanti a lui, con le guance rosse e le mutandine bagnate.
Non sta bene, non è decente, d’accordo, ma che ci posso fare? Io non pensavo nemmeno di fargliela qui, questa domanda, in questo bar-pasticceria di Porto Ercole. Noi per la verità stiamo ad Ansedonia, ma è qui che mio padre è voluto venire a prenotare la torta. Perché, vedete, io stasera festeggio venti anni. Cioè, non è che li compio proprio oggi, li compio tra tre settimane, quasi. Ma stasera li festeggio perché… beh, perché dopodomani sera parto. E i miei ci tenevano tanto. Me l’ha detto anche Martina. Non ho mai festeggiato un compleanno senza di loro. Cioè mamma, papà, nonna. Martina qualche volta sì e qualche volta no.
A che ora mi parte il traghetto lunedì? Eh? Ah, no, scusa papo, ero sovrappensiero. Boh, verso le otto di sera, mi pare. Perché? Sì, ce l’ho il biglietto per Ancona… Certo però, cazzo, quando si dicono le coincidenze. Dico “Ancona” e mi suona il WhatsApp della chat “Il club delle bionde”. Ovvero io, Stefania e Ludovica. Una nostra amica che abbiamo conosciuto proprio lì, vicino ad Ancona. Cavolo, meno male che sta chat alla fine non l’abbiamo chiamata “il club delle troie”, come volevamo fare. Perché… ehm, ecco, c’è mio padre che mi guarda il telefono e mi chiede chi sono queste altre bionde che fanno parte del club. Beh, una la conosce, è Stefania. Secondo me gli piace pure, anche se non lo ammetterebbe mai. E daje, non fate i soliti pensieri del cazzo. E’ semplicemente impossibile che Stefania non piaccia, fidatevi. L’altra… no, papà, non la conosci. E’ una ragazza che abbiamo conosciuto al mare, è di Milano. Cioè no, è di lì ma vive a Milano. Si chiama Ludovica.
Il messaggio però è di Stefania. Che, per fortuna, si limita a mandare la faccina con i cuoricini al posto degli occhi. Lo fa per rispondere a un messaggio di Ludovica. Una specie di selfie al tavolino di uno stabilimento balneare – almeno così penso, visto che è in costume da bagno – davanti a due aperitivi e, at-ten-zio-ne, con un ragazzo che le dà un bacio su una guancia. Sotto il messaggio “ciao belle, come state?”. Io ho risposto subito, e ho voluto sapere chi fosse il manzo. Che a me non dice molto, è vero, ma io e Ludovica mi sa che abbiamo gusti diversi. Mi ha risposto a stretto giro con una emoticon dei lavori in corso. Stefania ha inviato invece un “daje Ludoooo” che mio padre non può capire, ma io sì. Se ci fosse mia madre, ci scommetto, mi chiederebbe quand’è che lo metto pure io il cartello dei lavori in corso. Mio padre invece è molto più riservato. Anche se, mah… secondo me ci terrebbe a sapere qualcosa anche lui.
In ogni caso sono stata molto contenta che Ludo si sia rifatta viva, perché è da quando ci siamo lasciate, cioè più di venti giorni fa, che non ci sentivamo. Anzi, a dirla tutta, tornando dall’Adriatico io e Stefania ci siamo anche chieste se non avessimo esagerato, con lei. Concludendo che sì, probabilmente avevamo esagerato. Perché vedete, non so come spiegarvelo… beh, ok, non c’è un altro modo per dirlo… perché io e Stefania, con Ludovica, siamo state insieme. Proprio così. Cioè, non è che abbiamo proprio scopato, eh? Io le chiamerei più che altro effusioni. Però cazzo, credo che per lei sia stata la conclusione del week end più pazzo della sua vita. Ma anche per noi, per me e Stefania, non c’è stato male, eh?
Ora, però, non siate stronzi. Non pensate a me e a Stefania come due lesbiche arrapate che saltano addosso alla povera Ludovica. Ma no, manco per niente. E’ stata anzi, vi dicevo, una cosa… beh, una cosa molto uaaaooo. Davvero. Leggera, giocosa anche. Ecco, la parola “gioco” è quella che descrive meglio la situazione. Capace di superare imbarazzi, vergogna e tristezze. Piena di affetto e di voglia di stare bene, di divertirci. Se volete, anche di suggellare una nuova amicizia.
Dopo avere lasciato Stefania ed Alex in stanza, quella mattina, ero andata in spiaggia, avevo aperto un lettino e mi ci ero buttata sopra, riparandomi dal freddo con il telo mare. Saranno state, boh, le otto e qualcosa. Mi aveva svegliata il telefono, Ludovica. “Dove sei?”, ha chiesto. Mi sono detta, beh, cazzo, almeno si ricorda che mi hanno piantata sul lungomare, lei e Stefy, per andare con i loro manzi. Non è che fossi particolarmente risentita, non più almeno, ma il punto l’avrei tenuto per un po’. Lo avrei anche fatto, se non avessi sentito nella sua voce un’increspatura di tristezza sicuramente più sincera della mia incazzatura. Mi ha chiesto di andare da lei, le ho detto sì, salvo il fatto che non avevo proprio nessuna idea di dove fosse casa sua. Dieci minuti dopo me la vedo arrivare all’entrata dello stabilimento, sono salita in macchina e l’ho guardata. Era indecifrabile dietro i suoi occhiali scuri. Come me, del resto. Le ho detto “che bello questo vestito”. Bianco panna, con dei disegni color caffelatte. Lungo e ampio, come li indossa lei quando vuole nascondere la sua forma ad anfora. Sottile, leggerissimo, tanto che mi ci è voluto proprio poco per capire che sotto non indossava niente. Non nella parte superiore del corpo, almeno. “Nulla, è una cosa che uso per il mare, o a casa”.
Il lettone della nonna era rifatto, la stanza in ordine, la finestra spalancata. Eppure, non so perché, ero certa che lei e Willy avessero scopato qui. “Ci stendiamo un attimo? Sono distrutta”, mi ha detto lasciandosi andare sul materasso e affondando la testa nel cuscino. “A chi lo dici…”, ho risposto. “Willy?”, ho chiesto dopo un po’. Non sono stronza, né una pettegola curiosa. Lo sapevo che c’era qualcosa che non andava e volevo darle modo di raccontarmelo. Perché, semplicemente, si vedeva lontano un miglio che lei aveva voglia di raccontarmelo. E beh, che vi devo dire, si sa come possono andare queste cose, no? Willy le aveva fatto capire, in buona sostanza, che Ludo era stata la sua scopata per un paio di sere ma che per lui c’erano altri posti dove andare, altre serate in cui suonare, altra gente da far ballare. Oltre che altre ragazze da strapazzare, naturalmente. Non che fosse stato particolarmente stronzo, no, anzi. Ma le cose stavano così. Tuttavia, che le cose stessero così, a Ludovica non piaceva, non piaceva affatto. Magari non se ne era innamorata, probabilmente era troppo presto, ma un po’ illusa sì, forse più di un po’. Mentre me lo raccontava le ho preso la testa e me la sono portata sul petto, la sua voce era sull’orlo del pianto. Avrei anche avuto voglia di dirle “piangi, non c’è niente di male”. Anche perché era l’unica cosa che mi veniva da dirle, non so mai cosa fare in questi momenti. Ma poi non l’ho fatto, non so perché. L’ho solo abbracciata tanto.
E mentre la stringevo pensavo che era impossibile che Ludovica possa non piacere, cosa di cui lei invece è convinta. Era così carina e morbida tra le mie braccia. Ma non è stato lì che è scattato qualcosa, fareste un errore a pensarlo. Anzi, per la verità non ero nemmeno lontanamente su quella lunghezza d’onda. Le cose sono cominciate a cambiare quando è entrata in scena Stefania.
Perché a un certo punto il mio telefono ha suonato e dall’altra parte c’era lei che mi chiedeva dove cazzo fossi e perché non ero in spiaggia. Le ho detto dove stavo e di raggiungerci. Le ho passato Ludovica perché le desse l’indirizzo da cercare su Google maps. Ecco, proprio in quel momento, quando ho visto la forma del capezzolo spuntare sotto la tela leggera, l’ho desiderata per la prima volta. Ma chiaramente non le ho detto nulla. O per meglio dire, le ho detto solo:
– Ti è dispiaciuto, stanotte, quando ti ho baciata su una tetta?
Ok, era già persa dietro alle carezze di Willy, lì su quella spiaggia. Ma a me era sembrato proprio che quel bacio non l’avesse lasciata indifferente. E nemmeno la succhiata che avevo dato al suo capezzolo. E nemmeno le mie parole: “Che bella tetta”. Ma non ero poi così certa. Ne sono stata certa quando, lì su quel lettone, ho visto il lampo nei suoi occhi e il rossore sul viso. Anche se la risposta alla mia domanda è stata un’altra domanda. Ma che si sarebbe messa sulla difensiva l’ho dato quasi per scontato.
– Perché l’hai fatto? – mi ha chiesto.
– Non lo so, perché mi andava di farlo, immagino… se non ti è piaciuto ti chiedo scusa.
Non mi ha risposto e, per un attimo, ho avuto la netta impressione che si vergognasse a confessarmi che no, non gli era dispiaciuto per nulla. Ma non potrei metterci la mano sul fuoco. Mi sono anche un po’ allarmata, perché ho temuto che avesse voglia di sprofondare di nuovo nel suo autocompatimento. E invece non è andata nemmeno così. Ha domandato “e a te è dispiaciuto guardarmi stanotte mentre stavo con Willy?”. Gli ho risposto di no, di getto, prima che mi chiedesse se, per esempio, la cosa non mi avesse creato nemmeno un po’ di imbarazzo. Ho negato ancora e ho anche aggiunto “eri bellissima Ludo, ho pensato esattamente questo, che eri bellissima”. “Davvero?”. “Davvero”. “Non sai nemmeno cosa provavo a sapere che mi guardavi… io… io non so dire se… non so dire cosa mi sia piaciuto di più”. Le ho sorriso, le ho detto che una mezza idea su cosa le fosse piaciuto di più ce l’avevo, poi ho risposto ancora una volta “no” quando ha voluto sapere se mi fossi eccitata. “No, sulla spiaggia no”, ho risposto. Ed era la verità. Ma c’era un’altra verità, incontrovertibile. La verità del suo capezzolo diventato molto ma molto evidente sotto il tessuto leggero del vestito mentre parlavamo. Lo stesso capezzolo che avevo succhiato poche ore prima. E’ stato, come posso spiegarvelo?, come se mi chiamasse, mi facesse un sorriso e l’occhiolino, come se mi chiedesse “ehi, non è stato per niente male, lo rifacciamo?”.
L’ho fatto di impulso, non ci ho nemmeno pensato. Mi sono abbassata e l’ho morso, quel capezzolo. Attraverso il vestito. Ludovica ha fatto un debole “ahi”, come debole era stato il mio morso. Ho risollevato la testa e ci siamo scambiate un lungo sguardo, in silenzio. E probabilmente non sarebbe successo più nulla, se non avesse fatto irruzione, proprio in quel momento, Stefania.
Lo squillo del citofono ci ha fatte sobbalzare. Ma, mentre Ludo andava a rispondere, ho sentito la voce di Stefania che da sotto parlava al telefono. Eravamo solo al secondo piano. “Nooo amore… ma mi dispiaaace…”. E’ entrata nella stanza accompagnata dalla nostra amica, parlava ancora al telefono. Dall’altra parte, era chiaro, c’era Simone, il suo fidanzato. “Amore, ho tanta tanta voglia di vederti… dai, domani arriva presto, voglio farti tante coccole, stai su amore, dai, è stato bello lo stesso….”. Spesso mi chiedo se Stefania se ne renda conto. Per me no. Era stata sbattuta per tutta la notte da un altro e adesso dichiarava il suo amore al fidanzato. Ed era, credetemi, del tutto sincera. Splendente, tra l’altro, nel suo copricostume semi trasparente. Ha messo il telefono in borsa e ci ha informate che “hanno perso la finale, cazzo, quanto mi dispiace… quasi quasi mi pento di non essere andata con loro… avrebbe bisogno di me, ora…”. Poi, cambiando completamente intonazione, ci ha chiesto “che stavate facendo?”, mentre Ludovica si lasciava cadere sul letto.
“Le stavo succhiando una tetta”, ho detto. Più che altro avevo voglia di sorprenderla, di darle una specie di choc che la riportasse alla realtà. Di ricordarle che, insomma, non poteva entrare là dentro recitando la parte della fidanzatina integerrima come se nulla fosse successo. Il ghigno che ha fatto mi ha confermato che aveva capito l’antifona.
Proprio quel ghigno, che ha così tanto potere su di me, è stato la scintilla. L’idea, il colpo di genio. L’arrivo di Stefania avrebbe potuto mandare in frantumi quella specie di momento magico tra me e Ludovica. E invece è stato l’inizio di tutto.
– Io adesso ti bacio – ho sussurrato sulle labbra di Ludo, salendo sopra di lei – e Stefania ci guarda.
Mentre Ludovica si svuotava i polmoni nel sospiro di chi si arrende, le ho infilato la lingua in bocca. E devo dire che farlo in tre, fra ragazze, uaaaaooooo… è stata la cosa più coinvolgente che mi sia capitata da un po’ di tempo a questa parte. Eccitante, dolce, scanzonata, arrapante. E dopo un po’, quando Ludovica si è lasciata andare, anche un po’ perversa. Ma senza scivolate nel porno.
Divertente, semmai. Mai fatte tante risate sopra un letto. Soprattutto quando Stefania ha iniziato ad accarezzare il sederone di Ludovica e lei, credo un po’ preoccupata, per stopparla non ha trovato di meglio che dirle “ehi, piano, che lì c’è stato traffico!”. Ha detto proprio così, “c’è stato traffico”. Ho ridacchiato affondandole il viso nell’avvallamento delle mammelle, ma sentivo Stefania sghignazzare. Poi si è udito un “uh!” e un tonfo sordo. Era proprio cascata dal letto! Qualche secondo dopo l’abbiamo vista riemergere dal pavimento tenendosi un fianco e continuando a piegarsi in due dal ridere. Non potete immaginare i baci, su quel fianco. I baci sulla pancia, sul ventre. Non potete immaginare come Stefania, dopo un po’, ci abbia preso gusto. Baci e carezze, non siamo andate oltre. Ma è stato bellissimo.
Anche questo, naturalmente non posso raccontarlo a mio padre. Posso però raccontarlo a Martina, la sera stessa, al ritorno dal ristorante. O meglio quando io e lei siamo uscite di nuovo dopo che lei ha annunciato alla famiglia “noi ragazze andiamo a fare un giro”. Vabbè, noi ragazze. Io e lei…
Glielo racconto dopo che abbiamo commentato i regali che ho rimediato. Non posso proprio dire di essere andata male, a cominciare dal MacBook Pro nuovo nuovo e superpotente che mi ha lasciata con la bocca spalancata per un quarto d’ora. Ma anche lo zainetto Piquadro che mi ha regalato Martina (che ovviamente si era messa d’accordo con i miei) e i cinquecento euro che mi ha sganciato nonna non sono per niente male… Per non parlare del bikini alla brasiliana che mi ha regalato sempre Martina e che “ sta in uno scomparto dello zainetto, meglio se mamma e papà non lo vedono subito…”.
Quando le dico di Stefania e Ludovica commenta “sai che da Stefania proprio non me lo sarei aspettato?”. Le rispondo che invece erano cinque anni che me l’aspettavo. E che prima o poi doveva accadere. Mi ripete che non ha mai provato attrazione per una ragazza e io ribatto che secondo me si perde qualche cosa ma che, insomma, i gusti sono gusti. Però arriviamo a un punto della conversazione in cui sento che… non ne sono sicura, eh? è più che altro un’impressione, ma sento che deve dirmi qualcosa. Se ne sta lì con un sorriso furbetto…
– Tu non me la racconti giusta, sister…
– Ma com’è che hai deciso sta cosa della Croazia? – mi fa, senza rispondere.
– Serena mi ha presa per sfinimento… lo faccio per lei, soprattutto…
– Però a fare la cameriera ti ci vedo bene, può essere un’idea per il futuro – mi dice ridacchiando.
– Stronza… Tu piuttosto? Hai deciso?
– Io? Ma certo. Vado a Porquerolles con Massimo…
Avete presente come fa quello lì, coso… Cristiano Ronaldo, quando segna? Il salto, la piroetta e l’atterraggio con le braccia tese e un po’ larghe, i pugni chiusi? Il grido “siiiiì”? Ecco, in questo momento sono Cristiano Ronaldo. Magari senza quegli addominali che… vabbè, lasciamo perdere. Mi pianto davanti a Martina gridando “siiiì” e, immediatamente dopo, “ma come cazzo è successo?”.
– Te lo racconto in macchina…
– Dov’è che andiamo? – domando. Non avevo messo in conto un giro in macchina.
– Abbiamo un appuntamento…
– Con chi?
– Due ragazzi di Roma che ho incontrato stamattina in spiaggia. Bei tipi. Hanno la mia età, ma a te se sono un po’ più grandi non dispiace, vero?
CONTINUA
Questo bel signore un po’ brizzolato che me lo dice, elegante anche nella sua Lacoste bianca e nei suoi bermuda un po’ ricercati, è il mio papà. Il Professore. O il Dottor Luigi. Ma non come si dice a Roma, “venghi dottò”. Piuttosto come lo chiama il nostro garagista o Momo, il kebabbaro sotto casa, occasionalmente spacciatore di hashish, che ogni volta mi dice bella-signorina-Annalisa-salutami-dottor-Luigi da quando avevo tredici anni. Perché mio padre dottore, e professore, lo è per davvero. Primario di ortopedia.
Io, davanti a lui, sono bellissima. Con un vestitino con le spalline sottili, blu elettrico per far risaltare i miei capelli biondi raccolti a coda, la mia pelle ancora un po’ ambrata e i mei occhi azzurri. Mi sono anche messa un po’ di rimmel, io che non mi trucco quasi mai. L’ho fatto per lui.
Cioè, no, un attimo. Se pensate che questo sia uno di quei racconti in cui padre e figlia finiscono prima o poi per fare le zozzerie, potete pure passare ad altro. Anzi, fate così: spegnete direttamente il vostro device, qualunque esso sia, e andate a farvi un giretto di una quarantina di chilometri, che è meglio. E’ vero, questo per me è un momento daddy-focused, sono stata io a dirgli “papà aspettami che esco con te” facendolo attendere una ventina di minuti praticamente con un piede sulla soglia di casa. Però lui è il mio papà, il dottor-professor-Luigi, punto. Marito felice e padre felice, orgoglioso di me e di mia sorella Martina. L’unico cruccio che gli abbiamo dato, in fondo, è quello di non aver voluto seguire, nessuna delle due, la sua vocazione. Martina, che per spirito di autonomia ha scelto giurisprudenza e si è laureata con il massimo dei voti ed è già socia di uno studio legale. Io perché, quando avevo otto anni, andai un giorno nella clinica in cui esercitava all’epoca. Dovevamo scendere al bar e lui, per risparmiare tempo, invece dell’ascensore chiamò al piano il porta-lettighe. Le porte si aprirono e vidi che era occupato. Sopra una barella, molto sofferente, c’era un tizio a malapena celato da una coperta e tutto sangue sparso all’altezza della spalla. Mi fu sufficiente un secondo per guardarlo e una altra trentina durante i quali il mio stomaco salì su su e mi fece anche i complimenti: “Sai che hai delle tonsille davvero belle?”. Poi svenni. E da quel momento in poi non volli saperne più nulla di medicina e dintorni. Forse è per quello che sono diventata una bomba in matematica.
Ma a parte questo, dicevo, papà non ha proprio nessun altro motivo per lamentarsi di me e Martina. Vabbè, saremo due mignotte una peggio dell’altra. Ma lui non lo sa e questo è l’importante. Sì, credo che abbia ragione. E’ un po’ di tempo che non mi vede sorridere così. Ma oggi, per tanti motivi, mi sento felice e leggera come non mi capitava da qualche settimana. Perché sono state settimane un po’ tese, per usare un eufemismo.
La prima cosa che ho fatto, una volta tornate dal Conero io e Stefania, è stata escogitare il modo di rivedere Jean. Ci ero proprio andata in fissa con lui. L’ho chiamato, ricordandogli la sua promessa, e lui mi ha detto “passa qui”. Poiché non mi andava di andare da sola nel bar in cui lavora, tra l’altro ero senza macchina, ho fatto una cosa da vera stronza. Me lo dico da sola, non c’è bisogno che voi commentiate una volta che avrete letto come è andata. Mi ci sono fatta portare da Carlo, il ragazzo con cui ci ero stata la prima volta, la volta che ho conosciuto Jean. Sì, ok, Carlo ci prova un po’ troppo, ancora non l’ha capita che io proprio non ne voglio sapere. Però gli ho telefonato e gliel’ho chiesto: “Ritorniamo lì? Magari da soli stavolta…”. Una mossa da stronza fatta e finita, ripeto. Che bisogno c’era di prenderlo per il culo, di coinvolgerlo? Nessuno che non fosse quello dettato dalla mia volontà davvero maligna di riprodurre più o meno la scena con cui avevo attratto Jean. Farmi vedere mentre mi lasciavo baciare da Carlo e nello stesso tempo guardare lui con gli occhi della voglia. Magari anche spalancargli le gambe davanti perché vedesse le mie mutandine. Missione compiuta, eccezion fatta per le mutandine.
Quando ho fatto finta di andare al bagno, Jean era dietro il bancone. Mi sono avvicinata ancheggiando, lui mi ha chiesto con un sorrisino ironico “stavolta hai portato anche il tuo ragazzo, eh?”. Gli ho risposto con un sorrisino molto ma molto meno ironico “ci metto cinque secondi a mollarlo lì”. Cosa c’era da fingere ancora? Quali altre schermaglie servivano? Lo sapevamo tutti e due dalla volta precedente che ci saremmo rivisti e quale sarebbe stato il motivo. Jean mi ha detto “stasera no”. Ma come, ancora? Me l’hai detto tu di venire… “Perché?”, ho chiesto. “Perché stasera sono molto incasinato”. Gli ho lanciato un “che palle che sei Jean” parecchio deluso, ma comunque speranzoso, e al bagno ci sono andata per davvero. Quando sono tornata indietro ho capito perché fosse così incasinato. Stava parlando con una tipa più o meno della sua età, faccia da cazzo ma davvero un bel corpo. Peraltro coperto sotto i limiti della decenza da un vestitino nero davvero striminzito e con un più che discreto paio di tette, quasi del tutto in esposizione. Non era tanto il fatto che parlasse con quella troia, era come ci parlava, erano gli sguardi che si lanciavano. Non ci potevo credere ma, quando Jean si è voltato verso di me con quel suo ghigno da carogna, beh sì, ci ho creduto. E quando anche la troia si è voltata sorridendo verso di me mi è venuto quasi da piangere. Per l’umiliazione, più che altro. Non penso che il suo fosse un sorriso di scherno, ma io l’ho presa così: “Dove cazzo pensavi di andare, ragazzina? Questo me lo mangio io”. Ecco cosa mi diceva quel sorriso.
Sono tornata da Carlo e gli ho detto che volevo tornare a casa. Mi avrà sicuramente preso per bisbetica ma si è adeguato. Del resto, una sua idea per la serata ce l’aveva. Quando però si è fermato al solito parcheggio (oddio, solito, ci siamo stati solo una volta) l’ho bloccato, inibito, sterilizzato: “No Carlo, basta, non sono quel tipo di ragazza e non voglio fare sesso tanto per farlo”.
Sì, lo so, se fossimo a teatro si sentirebbero le risate in sala, ma è andata così. Ed è andata anche peggio quando, prima di salutarlo, gli ho chiarito che non avevo nessuna intenzione di avere una storia con lui e che la smettesse di cercarmi. Poi sono salita in casa e mi sono finalmente messa a piangere. Per chiarire: a me Jean piaceva davvero. Non dico che ne fossi innamorata perché sarebbe una sciocchezza, ma nella mia testolina bacata mi ero fatta un film che non comprendeva solamente qualche scopata. Non so bene cosa comprendesse, è vero, ma di sicuro il mio interesse per lui non era focalizzato solamente sul suo cazzo.
Per sfogare la delusione, l’umiliazione, la tristezza – che non sono certo durate solo un giorno – mi sono buttata a capofitto nello studio. Proprio in virtù del film che mi ero fatta su Jean, avevo commesso l’errore di mollare la preparazione di un esame e di rimandarlo all’autunno. Del resto, con la media che ho, me lo potevo permettere. Ecco, invece no. Per punirmi ho deciso che quel cazzo di esame lo avrei dato a luglio, insieme a quello che stavo già preparando. Sono andata un filino sotto stress, lo capirete anche voi.
Altra fonte di stress, come se non bastasse, Serena. Che vede avvicinarsi con terrore il giorno in cui Lapo la mollerà per raggiungere Bambi, la sua fidanzata “ufficiale”, e partirsene con lei per le vacanze. Formentera più un tour del sud della Spagna e una puntata in Marocco, se ho capito bene. Vabbè, lui è davvero impaccato di soldi e se lo può permettere. Non so come facesse Serena a studiare, ma per giorni e giorni mi è sembrato che non pensasse altro a dove andare noi due, a cosa fare ad agosto. Due, anche tre, idee e proposte al giorno. Pure abbastanza assurde tipo viaggio in Transiberiana o ritrovarsi, alla cieca, all’aeroporto di Bangkok con un gruppo di sconosciuti per un viaggio-avventura in Thailandia. C’è davvero chi fa ste cose, evidentemente. Due-tre idee al giorno, lo vorrei sottolineare, significavano anche due-tre telefonate al giorno. Lunghe, sfibranti. Una specie di terapia anti-nevrosi per lei, una enorme rottura di coglioni per la sottoscritta.
Alla fine ho ceduto a una proposta, anche questa abbastanza assurda. Una di quelle che, quando ovviamente è troppo tardi, ti fanno chiedere a te stessa “ma perché le ho detto sì? ma chi cazzo me l’ha fatto fare?”. Lei me l’ha fatto fare, è chiaro.
– Mi ha detto Ornella che lo scorso anno è stata in Croazia a fare la cameriera. Quest’anno lei non ci torna, ma ha detto che se vogliamo provare ci mette una buona parola.
– Ma sei scema? Che cazzo di vacanza è fare la cameriera? E poi chi cazzo è Ornella?
– L’hai conosciuta una sera… vabbè. No, no aspetta. Si tratta di fare la cameriera in un bar su una spiaggia. Si lavora più o meno mezza giornata e poi si sta al mare. Praticamente gratis, anzi ti pagano pure! Cioè, non tanto, ovvio, però ti danno l’alloggio e almeno un pasto al giorno, secondo me è una ficata!
– Talmente una ficata che st’Ornella ci torna di corsa…
– Ma nooo… è che si è fatta il ragazzo e vanno.. boh, in Grecia mi pare. Comunque dai, se ancora cercano gente ci si può provare. E la cercano di sicuro, perché mi ha detto che contavano su di lei…
– A parte il fatto che io so fare a malapena il caffè con la moka a casa… ma in Croazia non ci sono cameriere o camerieri? Stanno ad aspettare noi?
– Cercano ragazze… mmmh… per migliorare l’estetica del posto, dice. Sostanzialmente, cercano belle fiche…
– Ahahahahah viva la sincerità. No Sere, senti, io a fare la mignotta su una spiaggia in Croazia non ci vengo…
– Ma no, no, che cazzo hai capito? E’ tutto tranquillissimo, tutto! Si tratta solo di stare lì a lavorare cinque-sei ore al giorno, tutto qui. Senza rotture di palle né altro, garantito. Gliel’ho chiesto a Ornella. Lei è stata benissimo e senza problemi. Poi volendo ci si diverte pure, quando stacchi. Ci sono un sacco di posti…
Che cazzo vi devo dire? Le ho detto di sì, di provare a vedere se c’era posto. Più per sfinimento che per altro, direi. Voglio dire, non è che mi abbia convinto la Croazia o il mare più che un altro posto. Se quel giorno, alla millesima telefonata, mi avesse proposto di salire a cinquemila metri in Perù a piedi per dormire in promiscuità dentro alberghi puzzolenti… che ne so, magari avrei detto di sì pure a quello. Purché Serena la finisse di darmi il pilotto. La cameriera su una spiaggia in Croazia, cazzo. E pensare che ha detto di no alla mia idea di farmi un giro per le città del nord Europa. Tipo, boh, Berlino, Copenaghen. O Parigi, Amsterdam… Amsterdam. Ad Amsterdam c’è Debbie, avevo pure pensato. Chissà se…
Quel “chissà se…” si è tradotto qualche giorno dopo, ma per pura coincidenza, in un’altra telefonata. Dall’altra parte stavolta non c’era Serena, però. “Sletje! Come stai?”. “Cavolo Debbie, bene, tu?”. Questa, onestamente, non me l’aspettavo. Sì, con lei ci smessaggiamo, ci mandiamo foto e commentiamo i post su Instagram. Ma al telefono… da quando è che non la sentivo? Da Capodanno? No, c’è stata almeno un’altra volta, solo che non ricordo bene quando. Mi sa che era una sera che stavo messa abbastanza male con l’alcol. Sta di fatto che, una volta chiusa la telefonata, sono corsa in bagno a masturbarmi. Non solo perché Debbie è il corrispettivo femminile di Giancarlo (non c’è nessuno come loro due che mi riduca in uno stato di soggezione assoluta, non solo sessuale). Ma proprio per il contenuto della conversazione. Che, in breve, è stato questo: sarò a Roma per qualche giorno i primi di settembre, ci sei? Se invece non ci sei, perché non sali su ad Amsterdam, dopo?
La mia risposta era stata, in realtà, un’altra domanda: “Non posso fare tutte e due le cose?”. Ma non dovete immaginarvela come una richiesta spigliata, giocosa. Dovete immaginarvela come la richiesta, se potesse parlare, di una cagnolina cucciola che, a testa e coda abbassate, teme che le stia per arrivare un “no, non puoi” per punizione. Per avere combinato chissà cosa. E invece le sue parole sono state “ma certo, puoi fare tutto quello che vuoi”. E penso proprio che sia stata quella la prima volta che ho sorriso dopo un bel po’ di giorni.
Solo che tutto questo, naturalmente, mio padre non lo sa. E se adesso mi dice che è la prima volta che mi vede sorridere da un sacco di tempo è perché è vero. E se il sorriso che gli ho appena fatto, grazie a questa delizia di cappuccino freddo, si ritrae un po’ è perché un po’ in tensione ci sono ancora, visto che devo chiedergli una cosa.
– E’ stato un periodaccio, papo, non pensavo di farcela a dare tutti e due gli esami…
– Topolina, tu certe volte chiedi troppo a te stessa. Che bisogno avevi?
– Lo sai come sono fatta, no? Tutti hanno la loro nevrosi… Seeeenti… posso chiederti una cosa?
– Oggi puoi chiedere tutto quello che vuoi.
– Non è che quando torno dalla Croazia posso… ecco sì, posso andare qualche giorno ad Amsterdam?
– Ad Amsterdam?
– C’è una mia… c’è una mia amica che mi ha invitata, è una che ho conosciuto lo scorso anno a Londra, alla scuola…
– Ma certo amore, perché no?
– A te e a mamma non secca? Starei a Roma solo per qualche giorno, dopo essere tornata dal mare…
– Ma stai scherzando? Certo che puoi…
Certo che puoi… Se papà sapesse che questo inverno Debbie mi ha convinta a guardare la televisione insieme a loro con un ovetto vibrante infilato nella fica forse non me lo direbbe “certo che puoi”. Però se lo merita proprio che questa splendida figliola gli butti le braccia al collo e gli dia un bacio sulla guancia, gli dica “grazie papà, ti voglio bene”. E non sono falsa, eh? Ma nemmeno per niente. Io il mio papà lo amo davvero. Anche se in questo momento mi vergogno come una ladra a stare così, davanti a lui, con le guance rosse e le mutandine bagnate.
Non sta bene, non è decente, d’accordo, ma che ci posso fare? Io non pensavo nemmeno di fargliela qui, questa domanda, in questo bar-pasticceria di Porto Ercole. Noi per la verità stiamo ad Ansedonia, ma è qui che mio padre è voluto venire a prenotare la torta. Perché, vedete, io stasera festeggio venti anni. Cioè, non è che li compio proprio oggi, li compio tra tre settimane, quasi. Ma stasera li festeggio perché… beh, perché dopodomani sera parto. E i miei ci tenevano tanto. Me l’ha detto anche Martina. Non ho mai festeggiato un compleanno senza di loro. Cioè mamma, papà, nonna. Martina qualche volta sì e qualche volta no.
A che ora mi parte il traghetto lunedì? Eh? Ah, no, scusa papo, ero sovrappensiero. Boh, verso le otto di sera, mi pare. Perché? Sì, ce l’ho il biglietto per Ancona… Certo però, cazzo, quando si dicono le coincidenze. Dico “Ancona” e mi suona il WhatsApp della chat “Il club delle bionde”. Ovvero io, Stefania e Ludovica. Una nostra amica che abbiamo conosciuto proprio lì, vicino ad Ancona. Cavolo, meno male che sta chat alla fine non l’abbiamo chiamata “il club delle troie”, come volevamo fare. Perché… ehm, ecco, c’è mio padre che mi guarda il telefono e mi chiede chi sono queste altre bionde che fanno parte del club. Beh, una la conosce, è Stefania. Secondo me gli piace pure, anche se non lo ammetterebbe mai. E daje, non fate i soliti pensieri del cazzo. E’ semplicemente impossibile che Stefania non piaccia, fidatevi. L’altra… no, papà, non la conosci. E’ una ragazza che abbiamo conosciuto al mare, è di Milano. Cioè no, è di lì ma vive a Milano. Si chiama Ludovica.
Il messaggio però è di Stefania. Che, per fortuna, si limita a mandare la faccina con i cuoricini al posto degli occhi. Lo fa per rispondere a un messaggio di Ludovica. Una specie di selfie al tavolino di uno stabilimento balneare – almeno così penso, visto che è in costume da bagno – davanti a due aperitivi e, at-ten-zio-ne, con un ragazzo che le dà un bacio su una guancia. Sotto il messaggio “ciao belle, come state?”. Io ho risposto subito, e ho voluto sapere chi fosse il manzo. Che a me non dice molto, è vero, ma io e Ludovica mi sa che abbiamo gusti diversi. Mi ha risposto a stretto giro con una emoticon dei lavori in corso. Stefania ha inviato invece un “daje Ludoooo” che mio padre non può capire, ma io sì. Se ci fosse mia madre, ci scommetto, mi chiederebbe quand’è che lo metto pure io il cartello dei lavori in corso. Mio padre invece è molto più riservato. Anche se, mah… secondo me ci terrebbe a sapere qualcosa anche lui.
In ogni caso sono stata molto contenta che Ludo si sia rifatta viva, perché è da quando ci siamo lasciate, cioè più di venti giorni fa, che non ci sentivamo. Anzi, a dirla tutta, tornando dall’Adriatico io e Stefania ci siamo anche chieste se non avessimo esagerato, con lei. Concludendo che sì, probabilmente avevamo esagerato. Perché vedete, non so come spiegarvelo… beh, ok, non c’è un altro modo per dirlo… perché io e Stefania, con Ludovica, siamo state insieme. Proprio così. Cioè, non è che abbiamo proprio scopato, eh? Io le chiamerei più che altro effusioni. Però cazzo, credo che per lei sia stata la conclusione del week end più pazzo della sua vita. Ma anche per noi, per me e Stefania, non c’è stato male, eh?
Ora, però, non siate stronzi. Non pensate a me e a Stefania come due lesbiche arrapate che saltano addosso alla povera Ludovica. Ma no, manco per niente. E’ stata anzi, vi dicevo, una cosa… beh, una cosa molto uaaaooo. Davvero. Leggera, giocosa anche. Ecco, la parola “gioco” è quella che descrive meglio la situazione. Capace di superare imbarazzi, vergogna e tristezze. Piena di affetto e di voglia di stare bene, di divertirci. Se volete, anche di suggellare una nuova amicizia.
Dopo avere lasciato Stefania ed Alex in stanza, quella mattina, ero andata in spiaggia, avevo aperto un lettino e mi ci ero buttata sopra, riparandomi dal freddo con il telo mare. Saranno state, boh, le otto e qualcosa. Mi aveva svegliata il telefono, Ludovica. “Dove sei?”, ha chiesto. Mi sono detta, beh, cazzo, almeno si ricorda che mi hanno piantata sul lungomare, lei e Stefy, per andare con i loro manzi. Non è che fossi particolarmente risentita, non più almeno, ma il punto l’avrei tenuto per un po’. Lo avrei anche fatto, se non avessi sentito nella sua voce un’increspatura di tristezza sicuramente più sincera della mia incazzatura. Mi ha chiesto di andare da lei, le ho detto sì, salvo il fatto che non avevo proprio nessuna idea di dove fosse casa sua. Dieci minuti dopo me la vedo arrivare all’entrata dello stabilimento, sono salita in macchina e l’ho guardata. Era indecifrabile dietro i suoi occhiali scuri. Come me, del resto. Le ho detto “che bello questo vestito”. Bianco panna, con dei disegni color caffelatte. Lungo e ampio, come li indossa lei quando vuole nascondere la sua forma ad anfora. Sottile, leggerissimo, tanto che mi ci è voluto proprio poco per capire che sotto non indossava niente. Non nella parte superiore del corpo, almeno. “Nulla, è una cosa che uso per il mare, o a casa”.
Il lettone della nonna era rifatto, la stanza in ordine, la finestra spalancata. Eppure, non so perché, ero certa che lei e Willy avessero scopato qui. “Ci stendiamo un attimo? Sono distrutta”, mi ha detto lasciandosi andare sul materasso e affondando la testa nel cuscino. “A chi lo dici…”, ho risposto. “Willy?”, ho chiesto dopo un po’. Non sono stronza, né una pettegola curiosa. Lo sapevo che c’era qualcosa che non andava e volevo darle modo di raccontarmelo. Perché, semplicemente, si vedeva lontano un miglio che lei aveva voglia di raccontarmelo. E beh, che vi devo dire, si sa come possono andare queste cose, no? Willy le aveva fatto capire, in buona sostanza, che Ludo era stata la sua scopata per un paio di sere ma che per lui c’erano altri posti dove andare, altre serate in cui suonare, altra gente da far ballare. Oltre che altre ragazze da strapazzare, naturalmente. Non che fosse stato particolarmente stronzo, no, anzi. Ma le cose stavano così. Tuttavia, che le cose stessero così, a Ludovica non piaceva, non piaceva affatto. Magari non se ne era innamorata, probabilmente era troppo presto, ma un po’ illusa sì, forse più di un po’. Mentre me lo raccontava le ho preso la testa e me la sono portata sul petto, la sua voce era sull’orlo del pianto. Avrei anche avuto voglia di dirle “piangi, non c’è niente di male”. Anche perché era l’unica cosa che mi veniva da dirle, non so mai cosa fare in questi momenti. Ma poi non l’ho fatto, non so perché. L’ho solo abbracciata tanto.
E mentre la stringevo pensavo che era impossibile che Ludovica possa non piacere, cosa di cui lei invece è convinta. Era così carina e morbida tra le mie braccia. Ma non è stato lì che è scattato qualcosa, fareste un errore a pensarlo. Anzi, per la verità non ero nemmeno lontanamente su quella lunghezza d’onda. Le cose sono cominciate a cambiare quando è entrata in scena Stefania.
Perché a un certo punto il mio telefono ha suonato e dall’altra parte c’era lei che mi chiedeva dove cazzo fossi e perché non ero in spiaggia. Le ho detto dove stavo e di raggiungerci. Le ho passato Ludovica perché le desse l’indirizzo da cercare su Google maps. Ecco, proprio in quel momento, quando ho visto la forma del capezzolo spuntare sotto la tela leggera, l’ho desiderata per la prima volta. Ma chiaramente non le ho detto nulla. O per meglio dire, le ho detto solo:
– Ti è dispiaciuto, stanotte, quando ti ho baciata su una tetta?
Ok, era già persa dietro alle carezze di Willy, lì su quella spiaggia. Ma a me era sembrato proprio che quel bacio non l’avesse lasciata indifferente. E nemmeno la succhiata che avevo dato al suo capezzolo. E nemmeno le mie parole: “Che bella tetta”. Ma non ero poi così certa. Ne sono stata certa quando, lì su quel lettone, ho visto il lampo nei suoi occhi e il rossore sul viso. Anche se la risposta alla mia domanda è stata un’altra domanda. Ma che si sarebbe messa sulla difensiva l’ho dato quasi per scontato.
– Perché l’hai fatto? – mi ha chiesto.
– Non lo so, perché mi andava di farlo, immagino… se non ti è piaciuto ti chiedo scusa.
Non mi ha risposto e, per un attimo, ho avuto la netta impressione che si vergognasse a confessarmi che no, non gli era dispiaciuto per nulla. Ma non potrei metterci la mano sul fuoco. Mi sono anche un po’ allarmata, perché ho temuto che avesse voglia di sprofondare di nuovo nel suo autocompatimento. E invece non è andata nemmeno così. Ha domandato “e a te è dispiaciuto guardarmi stanotte mentre stavo con Willy?”. Gli ho risposto di no, di getto, prima che mi chiedesse se, per esempio, la cosa non mi avesse creato nemmeno un po’ di imbarazzo. Ho negato ancora e ho anche aggiunto “eri bellissima Ludo, ho pensato esattamente questo, che eri bellissima”. “Davvero?”. “Davvero”. “Non sai nemmeno cosa provavo a sapere che mi guardavi… io… io non so dire se… non so dire cosa mi sia piaciuto di più”. Le ho sorriso, le ho detto che una mezza idea su cosa le fosse piaciuto di più ce l’avevo, poi ho risposto ancora una volta “no” quando ha voluto sapere se mi fossi eccitata. “No, sulla spiaggia no”, ho risposto. Ed era la verità. Ma c’era un’altra verità, incontrovertibile. La verità del suo capezzolo diventato molto ma molto evidente sotto il tessuto leggero del vestito mentre parlavamo. Lo stesso capezzolo che avevo succhiato poche ore prima. E’ stato, come posso spiegarvelo?, come se mi chiamasse, mi facesse un sorriso e l’occhiolino, come se mi chiedesse “ehi, non è stato per niente male, lo rifacciamo?”.
L’ho fatto di impulso, non ci ho nemmeno pensato. Mi sono abbassata e l’ho morso, quel capezzolo. Attraverso il vestito. Ludovica ha fatto un debole “ahi”, come debole era stato il mio morso. Ho risollevato la testa e ci siamo scambiate un lungo sguardo, in silenzio. E probabilmente non sarebbe successo più nulla, se non avesse fatto irruzione, proprio in quel momento, Stefania.
Lo squillo del citofono ci ha fatte sobbalzare. Ma, mentre Ludo andava a rispondere, ho sentito la voce di Stefania che da sotto parlava al telefono. Eravamo solo al secondo piano. “Nooo amore… ma mi dispiaaace…”. E’ entrata nella stanza accompagnata dalla nostra amica, parlava ancora al telefono. Dall’altra parte, era chiaro, c’era Simone, il suo fidanzato. “Amore, ho tanta tanta voglia di vederti… dai, domani arriva presto, voglio farti tante coccole, stai su amore, dai, è stato bello lo stesso….”. Spesso mi chiedo se Stefania se ne renda conto. Per me no. Era stata sbattuta per tutta la notte da un altro e adesso dichiarava il suo amore al fidanzato. Ed era, credetemi, del tutto sincera. Splendente, tra l’altro, nel suo copricostume semi trasparente. Ha messo il telefono in borsa e ci ha informate che “hanno perso la finale, cazzo, quanto mi dispiace… quasi quasi mi pento di non essere andata con loro… avrebbe bisogno di me, ora…”. Poi, cambiando completamente intonazione, ci ha chiesto “che stavate facendo?”, mentre Ludovica si lasciava cadere sul letto.
“Le stavo succhiando una tetta”, ho detto. Più che altro avevo voglia di sorprenderla, di darle una specie di choc che la riportasse alla realtà. Di ricordarle che, insomma, non poteva entrare là dentro recitando la parte della fidanzatina integerrima come se nulla fosse successo. Il ghigno che ha fatto mi ha confermato che aveva capito l’antifona.
Proprio quel ghigno, che ha così tanto potere su di me, è stato la scintilla. L’idea, il colpo di genio. L’arrivo di Stefania avrebbe potuto mandare in frantumi quella specie di momento magico tra me e Ludovica. E invece è stato l’inizio di tutto.
– Io adesso ti bacio – ho sussurrato sulle labbra di Ludo, salendo sopra di lei – e Stefania ci guarda.
Mentre Ludovica si svuotava i polmoni nel sospiro di chi si arrende, le ho infilato la lingua in bocca. E devo dire che farlo in tre, fra ragazze, uaaaaooooo… è stata la cosa più coinvolgente che mi sia capitata da un po’ di tempo a questa parte. Eccitante, dolce, scanzonata, arrapante. E dopo un po’, quando Ludovica si è lasciata andare, anche un po’ perversa. Ma senza scivolate nel porno.
Divertente, semmai. Mai fatte tante risate sopra un letto. Soprattutto quando Stefania ha iniziato ad accarezzare il sederone di Ludovica e lei, credo un po’ preoccupata, per stopparla non ha trovato di meglio che dirle “ehi, piano, che lì c’è stato traffico!”. Ha detto proprio così, “c’è stato traffico”. Ho ridacchiato affondandole il viso nell’avvallamento delle mammelle, ma sentivo Stefania sghignazzare. Poi si è udito un “uh!” e un tonfo sordo. Era proprio cascata dal letto! Qualche secondo dopo l’abbiamo vista riemergere dal pavimento tenendosi un fianco e continuando a piegarsi in due dal ridere. Non potete immaginare i baci, su quel fianco. I baci sulla pancia, sul ventre. Non potete immaginare come Stefania, dopo un po’, ci abbia preso gusto. Baci e carezze, non siamo andate oltre. Ma è stato bellissimo.
Anche questo, naturalmente non posso raccontarlo a mio padre. Posso però raccontarlo a Martina, la sera stessa, al ritorno dal ristorante. O meglio quando io e lei siamo uscite di nuovo dopo che lei ha annunciato alla famiglia “noi ragazze andiamo a fare un giro”. Vabbè, noi ragazze. Io e lei…
Glielo racconto dopo che abbiamo commentato i regali che ho rimediato. Non posso proprio dire di essere andata male, a cominciare dal MacBook Pro nuovo nuovo e superpotente che mi ha lasciata con la bocca spalancata per un quarto d’ora. Ma anche lo zainetto Piquadro che mi ha regalato Martina (che ovviamente si era messa d’accordo con i miei) e i cinquecento euro che mi ha sganciato nonna non sono per niente male… Per non parlare del bikini alla brasiliana che mi ha regalato sempre Martina e che “ sta in uno scomparto dello zainetto, meglio se mamma e papà non lo vedono subito…”.
Quando le dico di Stefania e Ludovica commenta “sai che da Stefania proprio non me lo sarei aspettato?”. Le rispondo che invece erano cinque anni che me l’aspettavo. E che prima o poi doveva accadere. Mi ripete che non ha mai provato attrazione per una ragazza e io ribatto che secondo me si perde qualche cosa ma che, insomma, i gusti sono gusti. Però arriviamo a un punto della conversazione in cui sento che… non ne sono sicura, eh? è più che altro un’impressione, ma sento che deve dirmi qualcosa. Se ne sta lì con un sorriso furbetto…
– Tu non me la racconti giusta, sister…
– Ma com’è che hai deciso sta cosa della Croazia? – mi fa, senza rispondere.
– Serena mi ha presa per sfinimento… lo faccio per lei, soprattutto…
– Però a fare la cameriera ti ci vedo bene, può essere un’idea per il futuro – mi dice ridacchiando.
– Stronza… Tu piuttosto? Hai deciso?
– Io? Ma certo. Vado a Porquerolles con Massimo…
Avete presente come fa quello lì, coso… Cristiano Ronaldo, quando segna? Il salto, la piroetta e l’atterraggio con le braccia tese e un po’ larghe, i pugni chiusi? Il grido “siiiiì”? Ecco, in questo momento sono Cristiano Ronaldo. Magari senza quegli addominali che… vabbè, lasciamo perdere. Mi pianto davanti a Martina gridando “siiiì” e, immediatamente dopo, “ma come cazzo è successo?”.
– Te lo racconto in macchina…
– Dov’è che andiamo? – domando. Non avevo messo in conto un giro in macchina.
– Abbiamo un appuntamento…
– Con chi?
– Due ragazzi di Roma che ho incontrato stamattina in spiaggia. Bei tipi. Hanno la mia età, ma a te se sono un po’ più grandi non dispiace, vero?
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