Festa d'Agosto
di
mare_di_beaufort
genere
etero
“Me ne dai una delle tue, di sigarette?”
Mi trovavo parcheggiato, da una mezza settimana pressappoco, nella casa che nonno aveva acquistato e ristrutturato una cinquantina di anni fa. Elio Berruti si chiamava, un commerciante di tessuti che aveva fatto i soldi all’epoca della ricostruzione e quel palazzone in cima a Ceccano era il luogo dove, per le feste comandate, riuniva tutti i rami della sua numerosa famiglia ed esibiva il successo che s’era conquistato.
Poi anche lui, come tutti se n’è andato e la sua discendenza aveva iniziato a sparpagliarsi un po’ di qua un po’ di là: matrimoni fuori provincia, qualche laurea all’estero e svariati incarichi professionali nella capitale.
Questa, però, era l’ultima usanza che aveva resistito al tempo ed ancora ci teneva in qualche modo uniti: le ferie estive si passavano qua in basso Lazio.
Non c’era una disciplina precisa, diciamo che la casa era aperta da metà giugno, la fine dell’anno scolastico sino ai primi di settembre quando i bimbi si preparavano a ritornare dietro i banchi. Qualcuno arrivava, per poche ore o per un mese intero, qualcun altro partiva: ciance, pranzi e sieste ritmavano lo scorrere lento dell’estate.
Ed io, quasi per forza d’inerzia, m’ero accodato al treno. A 31 anni con una laurea in filosofia e senza frequentazioni fisse non avevo ancora trovato il mio posto al mondo. Il contratto a tempo determinato che avevo con le Poste al 30 di Giugno s’era concluso e le proposte di vacanza in qualche isoletta mediterranea necessitavano di pecunia ed entusiasmo e non disponevo ne dell’una ne dell’altro.
Mio padre facendo il verso a Mario Brega: “ .. avè ‘n fijio così, senza ‘na casa, senza ‘na famijia .. “, si prendeva gioco di me, della mia scarsa vis sociale e sessuale ed a forza di dai&dai m’aveva convinto a trascorrere un po’ di tempo coi parenti e starmene mimetizzato in Ciociaria non m’era parsa una cattiva idea. Tanto inosservato che per l’ennesima volta Nadia s’era dimenticata che con la nicotina c’avevo dato un taglio.
“Lo sai che non fumo più, zia”, le dissi da dietro il mio cruciverba.
La chiamavo zia, Nadia ma in realtà non lo era: una quindicina d’anni più grande di me era la figlia della sorella di babbo e quindi formalmente una cugina di primo grado. La differenza, però, di età m’aveva sempre impedito di considerarla tale. Con i cugini allora ci giocavo e con lei no così, in modo del tutto spontaneo, venne di chiamarla zia e zia rimase
Di lei avevo notizie frammentarie: lavorava come operaia in una fabbrica di pentole, nubile e poco altro. Fosse stata l’unica donna sulla faccia della terra credo nessun uomo vedendola passare per strada si sarebbe girato a guardarla e, se mi fossi messo ad immaginare una milf, ecco Nadia sarebbe risultata l’esatto contrario. Caviglia forte e sguardo sovente svagato era quello di lei che balzava subito all’occhio. La mamma quando c’era da darci dentro con l’acido arrivava a chiamarla: tua zia fredda, tua zia col culo lotaco. Ci misi anni a capire il significato dell’aggettivo lotaco ossia fatto di loto, molle nel senso di moscio, privo di vigore e per dare un’immagine la paragonava appunto ad un uovo cosiddetto lotaco, un uovo malvenuto, col guscio fragile, tipo carta velina.
E glielo stavo guardando proprio ora il culo, a Nadia e mi stavano tornando a mente quegli apprezzamenti. Credo mi fosse scappata una smorfia di riso inconsapevole, da cane Muttley.
Nadia stava lavando i piatti e mi chiese spiegazione di quello sghignazzo: “Cosa c’è, hai letto la barzelletta da 5.000 lire?”
“Senti qua, zia: sette verticale: uovo col guscio sottile, sei lettere, la prima è elle”, non so che mi prese ma non riuscii proprio ad evitare di farla, quella domanda non capisco ancora oggi se più scema o provocatoria.
Eravamo soli in cucina, erano le due del pomeriggio ed il sole fuori scottava la pelle. Il resto del parentame preso dall’abbiocco s’era ritirato per la pennica. Nadia non disse una parola, parve ruotare leggermente le spalle, irrigidì la schiena ma poi tornò col capo chino al lavello. Non m’era riuscito di vederla in faccia ma senza essere un termometro si percepiva un improvviso aumento della temperatura.
Era una battuta che in un altro contesto sarebbe stata presa per quel che era, scherzosa, salace o al limite anche sarcastica ma che lì, ne ero certo, aveva preso una coloritura del tutto differente.
L’assenza di reazioni esplicite doveva aver incoraggiato la mia faccia di tolla: “Com’è, zia, lo avevate da piccoli, tu e il papà, il pollaio, possibile non ne hai mai visto uno?”. Erano amarezze che affioravano d’improvviso, parole dal passato remoto spifferate, chessò, nel bel mezzo di un pranzo di Cresima e rivelavano il lato meno nobile dei Berruti. Livori, invidie in mezzo a qualche sorriso di circostanza, un posto dove ci si detestava come in nessun altra parte al mondo
Tutta roba, insomma, che avevo fatto tornare a galla e che avrebbe dovuto indurmi ad una maggior riguardo tanto più che pure il sottoscritto ero certo fosse vittima di più d’un pettegolezzo ma invece no. Lo sguardo ce l’avevo fisso lì, sul culo di zia e per la prima volta in vita mia mi accadde di pensare a cosa c’era sotto a quella vestaglia blu. Un aggettivo, mi venne, per spiegarlo: era capiente, nel senso che lì dentro di roba ce ne poteva entrare parecchia. Fantasticavo come fosse portarsela a letto, una femmina democristiana, doveva essere, di quelle che lo fanno, preferibilmente al buio, tenendo le gambe strette.
Eppure a vederla ed a parlarci, la Nadia non pareva nutrisse chissà quale devozione religiosa. Dava l’idea d’essere un cubo di Rubik, da metterci le mani dentro. Un piccolo rompicapo e a trovarci la soluzione, chissà, avrebbe potuto essere motivo di soddisfazione.
Poi ad un certo punto l’acqua cessò di scorrere dentro il lavandino, l’ultimo stoviglia fu sistemata nello scolapiatti ed io fui riportato giù dentro il mondo dei comuni mortali.
L’espressione al contempo avvilita e stizzita con cui zia se ne andò mi lascio lì interdetto. Avevo ecceduto? In fondo poteva essere mia madre e questo ed altri pensieri mi rigirarono dentro la zucca per tutto il pomeriggio. Lo passai in camera mia a mangiare patatine ed a guardare il soffitto in cerca di ispirazione dall’alto. E ogni tanto a tastarmi il cazzo. Avevo qualche velleità di erezione senza che nulla di deciso riuscisse mai a prendere corpo, c’erano immagini che tentavano di addensarsi, di gomiti appoggiati sopra il piano cottura, di cosce spalancate come fossero lancette di orologio. Ma erano bolle di sapone che si alzavano, veleggiavano qualche istante per poi sparire dentro il primo imbrunire.
Verso le 20 l’abitazione riprese vita per il rito del pasto serale. Il tintinnare delle posate sui piatti ed il vociare di sottofondo mi trascinarono fuori dal torpore e dal turgore pomeridiani.
Mi diedi una veloce rassettata: lavata di grugno, polo stirata, capelli pettinati e via in sala da pranzo.
Me ne stetti infrattato dietro una selva di bottiglie e di luoghi comuni – fuori, Ugo, non sei convinto che faccia più freschino che dentro?- ed amenità del genere. Ad ogni modo a debita distanza da Nadia che dietro il suo grembiule da combattimento pareva ben dentro la parte della donna di casa. Quando mi passò l’insalata, bastò una frase di circostanza, la segnalazione della mancanza d’aceto, per incrociare le pupille. Avevo sperato sostenesse lo sguardo e coltivato l’illusione di un’intesa segreta ma fu un attimo e si girò altrove. Rimasi lì a disagio, con un piatto a mezz’aria, sciocco per tutti quegli ardori che avevo ruminato in beata solitudine.
Il turbamento che qualche ora prima pareva avergli colorato le guance era svanito o, in realtà, neanche mai esistito. Conservava la sua notoria fisionomia indecifrabile: parca di parole ed espressione vagamente bovina facevano intendere una scarsa propensione alle emozioni, eppure, continuavo a ripetermi, ero solo io il cretino che la pensava diversamente?
Il vino scorreva senza trovare alcuna diga e la cena si protrasse sino alle dieci quando i nipoti proposero un giro a prendere il gelato. In centro c’era un gruppo che suonava la pizzica e quasi tutti s’aggregarono a far tardi.
Restava da sparecchiare, sulla tavola galleggiava di tutto: bucce di melone, scatolette di tonno, tozzi di pane, bicchieri di carta oramai stracciati e ad uno ad uno, in epoca di raccolta differenziata, andavano disciplinatamente smaltiti. E a chi sarebbe toccato? Agli zitelli, disse qualcuno in una risata molesta. Non so perché ma si misero a scherzare che dovessi fargli da valletto, a zia: io senza nessuno a cui badare, Nadia senza alcuno che se la filasse.
Le consegne furono asciutte: “Io riempio la lavastoviglie, tu, ragazzo” e su quel ragazzo, a rimarcare una distanza ci calcò sopra con la voce stile arial black “occupati della monnezza. Il camioncino passa domattina, capito?”.
Senza nulla da aggiungere me ne andai a prendere i sacchi gialli e ne riempii ben tre di ogni possibile schifezza. Da bravo soldato alla conclusione della mia missione tornai a vedere se c’era una medaglia.
Nadia se ne stava lì a fumare, con il portacenere tenuto in mezzo alle gambe allargate, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e i salsicciotti delle braccia lucidi di sudore in bella evidenza. Pareva assente a se stessa e netta ebbi l’attrazione per quel corpo di femmina su cui nessun Sigmund del cazzo avrebbe mai fatto il minimo effetto.
Quando s’accorse del sottoscritto mi invitò, con quella sua vocina piccola: “Assettatè qua; Lorè. Dimmi un po’, cos’era quella storia delle uova, di oggi?”.
Farfugliai qualcosa a base di cioè, non so, scusa senza riuscire a dire alcunché di sensato.
“Lo so cosa dicono di me, credi che non lo sappia come mi chiamano: la smaritata, quando son buoni e pure la babbiona, qualche pettegolo, che gli prenda un colpo. Ne ho ascoltate tante, eppoi quella storia del culo sfatto la sento ripetere da una vita .. “ e fece una lunga pausa tra un tiro di sigaretta e l’altro. Il fumo gli usciva dal naso e spandeva un aroma delizioso, “anche se credevo che più delle uova alla tua età t’interessassi di galline”. Una breve pausa seguì e poi concluse: “Chissà se anche quelle da brodo?”.
Annuii, più volte e cercai di balbettare qualcosa di sensato, senza riuscirci. Ma sentivo il cazzo spingere. Il pacco, doveva avere l’aspetto di una tenda canadese.
Credo sia stato lì che mi venne di chiamare l’all-in. Non è che avessi in mano un poker servito ma chi se ne fotte, mi dissi. Anzi non mi dissi proprio nulla, lo feci e basta. Le misi una man dietro la schiena e l’attirai contro di me, l’altra dietro la nuca e la baciai. Per un istante fui solo la mia bocca ed il cuore che palpitava così forte da sentirlo sino nelle orecchie. Un bacio linguoso e assaporai tutto: il gusto della nicotina e quello della femmina. Era una pesca invitante, all’apice della maturazione, un attimo prima di cascare a terra e sfarsi in mille schizzi e non c’era che da coglierla. Lo feci.
Li, poi, fu tutto assai svelto, un turbinio di mani dappertutto, le mie dentro le sue, di mutande, direzione passera, quelle di Nadia sotto l’elastico dei miei pantaloncini e vinse lei.
Si chinò ginocchioni e la sua bocca divenne la mia padrona.
Il film che ne seguì risultò fatto di immagini assai frammentate al limite dell’incoerenza.
Le sue espressioni da impunita e un attimo dopo da burina fatta e finita, di chi è certa che Tagliacozzo fosse il centro dell’universo. E, nel frangente, non fu possibile che darle ragione: il mondo era parecchio piccolo, iniziava e finiva, appunto, dentro quella bocca che parlava, fumava ed ora regnava sovrana.
Ebbi la certezza che ad un certo punto si fosse slacciata il reggiseno e la visione delle sue tette da smanacciare mi mandò in visibilio.
In orbita ci arrivai mentre le afferravo quella testa che stava facendo l’altalena e lì scatto la molla. Era l’imprinting di zia, l’aroma di Neutro Roberts che le veniva su dai capelli. Morbidi e secchi al contempo emanavano quella fragranza di shampoo dell’infanzia, dozzinale e delicato, zuccheroso senza essere stucchevole, rustico ma non grezzo, come una tovaglia a quadretti in una trattoria di borgata.
Mi salì su per le narici peggio della roba da spaccio. L’avessi sentito anche fra cent’anni sono certo che il cazzo mi si sarebbe indurito all’istante. Sono quelle emozioni, che per quanto campassi, non riuscirò mai a dimenticare. Si smemora il volto del compagno di banco delle medie e anche della vicina di pianerottolo ma non si può scordare una cosa del genere.
Appena prima di sbottare, domandai: “Zia … vuoi?” e non ebbi risposta. Della mia besciamella non rimase alcuna traccia visibile. Avevo appena inaugurato la serie: Nadia non sciupa nulla.
“Hai trovato chi ti succhia” concluse così, da spudorata e corse via a piedi nudi, col reggiseno in mano. Fui lasciato lì, come un tarullo stordito, con le mani a coprirsi le vergogne.
Se era vero che il richiamo dei sensi negli adolescenti può essere fortissimo i dieci giorni successivi dimostrarono come sia più potente per chi arrivava ai margini della menopausa, come se l’ultima fetta della torta fosse quella che andava gustata meglio.
Dopo pranzo veniva in camera mia, chiudeva la porta a chiave e mi mormorava, sottovoce: “Son venuta a finire i mestieri”. Era la cultura rurale che diceva che l’uomo viene prima. Cose incistate dentro i geni che nessun collegio svizzero avrebbe mai potuto sradicare. La femmina fa i figli e se il maschio esce col cazzo allegro lavora meglio, fatica più volentieri.
Se avesse avuto un titolo, Nadia sarebbe stato la Gardland del sesso che non vuol dire porcate a gogo o contorsionismi strani. Come andare in gelateria a farsi un cono e sapere già che panna e cioccolato sono il meglio. Con lei era bocca e figa, e come nelle ricette di cucina qb, quanto basta ossia finché ne avevo voglia ed il sottoscritto aveva alle spalle 31 anni di palle piene e la necessità di scaricarsele spesso.
Non ricordo neanche di averla messa a pecora tanto era il desiderio di sesso puro, senza necessità di alcun artificio geometrico. Lei allargava le cosce ed io glielo infilavo dentro, senza tanti convenevoli. Eravamo come due pezzi del Lego che si sono trovati dentro la scatola, lei giù ed io su senza desiderio d’altro che fosse sentirla sotto di me, di farle avvertire il mio peso, ventre contro ventre, a sfregarle l’epidermide tutta, aderente come un guanto.
E quando quella stazione veniva a noia c’era la capriola ed ecco sim sala bim le posizioni s’invertivano. Il culo sul letto era il mio ed anche il palo della sua personalissima lap dance era ancora e sempre tutto a disposizione. Ci si aggrappava con forza ed io con le mani su quelle chiappe di burro a darle il ritmo. E lì vibrava come corda di viola, le rideva il corpo intero, tutte le trippe: la buzza, le tette e pure il doppio mento tremava quando le martellavo l’utero.
Quello era il mio momento G. Venivo e gliela facevo dentro senza alcun ritegno. Non ricordo d’averla mai sentita dire di aver provato un orgasmo o reclamato qualcosa di più o di diverso. Coi giorni mi sono fatto certo che il diletto lo provasse a farsi sbattere, niente più niente meno.
Avevamo un intesa sessuale fantastica ed era una questione di dettagli infinitesimali, di una cazzo che s’induriva e di una topina che s’inteneriva. Di robe che mica potevi raccontarle ad un amico, anche se ubriaco fatto. La velocità con cui glielo picchiavo dentro era la medesima con cui zia amava essere pompata, ne lento ne rapido, ero solo la nostra andatura.
Ed era la coincidenza perfetta degli ingranaggi della passione. Lo sfogo sincrono della carne durante la copula: uno che si sgravava e l’altra che si riempiva.
Ma non era solo ardore o foga. A volte si stava semplicemente lì, nudi, senza fare niente di che. Li avevamo battezzati: i postliminari. Lei seduta sul letto a gambe incrociate, con le tette pendule sin quasi alla pancia trascorreva quarti d’ora di miele a strusciarmi le dita sul volto: mi dipingevo le mani e la faccia di Nadia .. era l’eco che risuonava da qualche parte. E giochicchiava con l’uccello del sottoscritto, beatamente a poltrire con la testa sul cuscino. E ci si guardava negli occhi senza necessità alcuna di parole –mi ami, quanto ami, t’è piaciuto, sono bella- di conferme o anche di aspettative che riguardassero il dopo. Eravamo lì ed ora e fanculo ogni metafisica.
“Sai, Lorè, la storia delle uova, cosa risposi una volta al figlio di Giovanni?” e si avventurò in una minuta spiegazione delle usanze e del lessico famigliare della Ciociaria papalina dove le cose si fanno ma non si possono poi dire.
“Quando mia mamma mi tirava sotto la doccia e si trattava di strigliarmi, m’ingiungeva di girarmi a favore di spugna prima dal lato del culo di dietro e a seguire del culo davanti. Non c’era una parola per indicare il lì davanti e la fessa o la gnocca parevano roba da scomunicati. Sai, è venuto di usare questo modo di dire: il culo davanti”.
“E che c’entra ‘sta cosa, zia?”, chiesi.
E mentre si batteva prima la cosce eppoi le natiche rispose: “C’entra sì. Che a quel villano del figlio di Giovanni ce lo dissi, io, dritto sul muso: il culo, di Nadia, quale? Quello davanti o quello di dietro?”.
La feria d’Agosto trascorse tra partite a tresette e bicchierate di Grechetto. Dopo il 15 il sole prese a calare sempre più presto e dagli armadi uscirono i primi golfini.
I nostri accoppiamenti clandestini (chissà quanto?) erano proseguiti senza sosta e senza noia. L’ultima notte composi per la mia amante qualche verso, di certo più modesto che buffo ed ebbi l’impressione che l’avessero commossa dentro. Ridacchiava ma con l’occhio un tot lucido
Di certo Nadia è una gran donna
soprattutto quando si sfila la gonna
A Lorè gli garba la polpa sino all’osso
e ci da dentro a più non posso
Se a Lore’ gli piglia lo sfizietto
Nadia gli fa il servizietto
La brama, la prega, la pretende
Lei si gira, s’inginocchia e poi si stende
Il mio premio non furono parole, Nadia era corpo: anima e figa, la medesima cosa.
Anni dopo, mi sono trovato a discutere con una mia fiamma se l’avessi intortata solo per trombarmela oppure, al contrario se avessimo fatto sesso per poi raccontarci col cuore. Non m’è mai stato semplice spiegare, soprattutto ai maschi, la differenza fra le due cose ma tant’è.
Nelle donne la sbarra del passaggio a livello, ad un certo punto s’alza, si mollano e puoi entrare: a volte da sopra, occhi ed orecchie ci sono apposta, nel caso di zia l’accesso l’ho sempre avuto da sotto e credo sia chiaro cosa intendo.
Chi fosse, Nadia, c’era da chiederselo: una sempliciotta da contentare a colpi di minchia? Una donna ad una sola dimensione? Un’epicurea a sua insaputa? La sensualità in persona? Chissà. Quel che è sicuro come l’oro è che il sesso era il nostro linguaggio dei muti e coi movimenti del ventre s’esprimeva molto meglio che con il congiuntivo. La scopavo e rimaneva ad occhi chiusi e bocca aperta e non era certo per far discorsi.
Il mio premio per le mie quartine, dicevo e qui l’epilogo fu identico al prologo.
Il sottoscritto, dopo la recita, era assai lontano dal livello mazza da baseball.
“Barzotto si può dire, zia?”
“E io, allora, chi sono, la zia imbarzottatrice?”.
Ghignai assentendo col capo, senza nulla da aggiungere.
Fui messo in piedi mentre lei si accomodò seduta sul margine del letto e per l’ultima volta ci diede di bocca.
Dire che è stato il pompino perfetto sarebbe una ganassata pura ma non s’è troppo distanti dal vero.
Perfetto perché c’erano la lingua, le labbra, il palato, la bocca completa a farmi la festa. E anche tutto il resto di Nadia: le mani a tenermi le chiappe, le spalle a strusciarmi il bacino, la frangetta a carezzarmi la pancia e ogni centimetro cubo di quella ciccia santa era devota al sottoscritto.
Un pompino, insomma, che era un abbraccio.
E, infine, gli occhi. Quando alzava la fronte ci si guardava dritto. Ed era solo un istante, prima che tornasse a lavorarmi. Che ci siam detti, lì, non importa ripeterlo, lo sappiamo noi e questo basta.
Che sia venuto o meno o che in piazza, per l’occasione, abbiano suonato l’inno nazionale francamente non me lo ricordo. Ma anche questo ha poco significato, anzi, zero.
Con tutta probabilità mi addormentai.
La mattina dopo feci la valigia.
Era la vita vera che s’era risvegliata per reclamare il suo spazio, s’era trattato di una vacanza, un’assenza a noi stessi. Per un attimo avevamo obliato cosa c’era prima e che sarebbe venuto poi. E la natura, come quella decina di giorni aveva più volte confermato, il vuoto lo detesta.
Il distacco ebbe accenti wertmulleriani, nei ruoli di Gennarino Carunchio e Raffaella Pavone Lanzetti, al rientro dal naufragio. Senza drammi, però, solo una punta di tristezza filtrava ed era un principio di lacrima sopra la serenità dei corpi che si abbracciavano.
La si sapeva, la nostra sorte senza necessità di discorsi ad esplicitarla.
In seguito ci siamo rivisti solo in occasione di matrimoni o funerali e mai più c’è stato modo di fare sesso.
E’ rimasta viva solo un’abitudine: ogni Ferragosto, in qualsiasi parte del mondo mi trovi le scrivo una cartolina. Sopra ci sono scritte solo due parole: ciao, zia
Mi trovavo parcheggiato, da una mezza settimana pressappoco, nella casa che nonno aveva acquistato e ristrutturato una cinquantina di anni fa. Elio Berruti si chiamava, un commerciante di tessuti che aveva fatto i soldi all’epoca della ricostruzione e quel palazzone in cima a Ceccano era il luogo dove, per le feste comandate, riuniva tutti i rami della sua numerosa famiglia ed esibiva il successo che s’era conquistato.
Poi anche lui, come tutti se n’è andato e la sua discendenza aveva iniziato a sparpagliarsi un po’ di qua un po’ di là: matrimoni fuori provincia, qualche laurea all’estero e svariati incarichi professionali nella capitale.
Questa, però, era l’ultima usanza che aveva resistito al tempo ed ancora ci teneva in qualche modo uniti: le ferie estive si passavano qua in basso Lazio.
Non c’era una disciplina precisa, diciamo che la casa era aperta da metà giugno, la fine dell’anno scolastico sino ai primi di settembre quando i bimbi si preparavano a ritornare dietro i banchi. Qualcuno arrivava, per poche ore o per un mese intero, qualcun altro partiva: ciance, pranzi e sieste ritmavano lo scorrere lento dell’estate.
Ed io, quasi per forza d’inerzia, m’ero accodato al treno. A 31 anni con una laurea in filosofia e senza frequentazioni fisse non avevo ancora trovato il mio posto al mondo. Il contratto a tempo determinato che avevo con le Poste al 30 di Giugno s’era concluso e le proposte di vacanza in qualche isoletta mediterranea necessitavano di pecunia ed entusiasmo e non disponevo ne dell’una ne dell’altro.
Mio padre facendo il verso a Mario Brega: “ .. avè ‘n fijio così, senza ‘na casa, senza ‘na famijia .. “, si prendeva gioco di me, della mia scarsa vis sociale e sessuale ed a forza di dai&dai m’aveva convinto a trascorrere un po’ di tempo coi parenti e starmene mimetizzato in Ciociaria non m’era parsa una cattiva idea. Tanto inosservato che per l’ennesima volta Nadia s’era dimenticata che con la nicotina c’avevo dato un taglio.
“Lo sai che non fumo più, zia”, le dissi da dietro il mio cruciverba.
La chiamavo zia, Nadia ma in realtà non lo era: una quindicina d’anni più grande di me era la figlia della sorella di babbo e quindi formalmente una cugina di primo grado. La differenza, però, di età m’aveva sempre impedito di considerarla tale. Con i cugini allora ci giocavo e con lei no così, in modo del tutto spontaneo, venne di chiamarla zia e zia rimase
Di lei avevo notizie frammentarie: lavorava come operaia in una fabbrica di pentole, nubile e poco altro. Fosse stata l’unica donna sulla faccia della terra credo nessun uomo vedendola passare per strada si sarebbe girato a guardarla e, se mi fossi messo ad immaginare una milf, ecco Nadia sarebbe risultata l’esatto contrario. Caviglia forte e sguardo sovente svagato era quello di lei che balzava subito all’occhio. La mamma quando c’era da darci dentro con l’acido arrivava a chiamarla: tua zia fredda, tua zia col culo lotaco. Ci misi anni a capire il significato dell’aggettivo lotaco ossia fatto di loto, molle nel senso di moscio, privo di vigore e per dare un’immagine la paragonava appunto ad un uovo cosiddetto lotaco, un uovo malvenuto, col guscio fragile, tipo carta velina.
E glielo stavo guardando proprio ora il culo, a Nadia e mi stavano tornando a mente quegli apprezzamenti. Credo mi fosse scappata una smorfia di riso inconsapevole, da cane Muttley.
Nadia stava lavando i piatti e mi chiese spiegazione di quello sghignazzo: “Cosa c’è, hai letto la barzelletta da 5.000 lire?”
“Senti qua, zia: sette verticale: uovo col guscio sottile, sei lettere, la prima è elle”, non so che mi prese ma non riuscii proprio ad evitare di farla, quella domanda non capisco ancora oggi se più scema o provocatoria.
Eravamo soli in cucina, erano le due del pomeriggio ed il sole fuori scottava la pelle. Il resto del parentame preso dall’abbiocco s’era ritirato per la pennica. Nadia non disse una parola, parve ruotare leggermente le spalle, irrigidì la schiena ma poi tornò col capo chino al lavello. Non m’era riuscito di vederla in faccia ma senza essere un termometro si percepiva un improvviso aumento della temperatura.
Era una battuta che in un altro contesto sarebbe stata presa per quel che era, scherzosa, salace o al limite anche sarcastica ma che lì, ne ero certo, aveva preso una coloritura del tutto differente.
L’assenza di reazioni esplicite doveva aver incoraggiato la mia faccia di tolla: “Com’è, zia, lo avevate da piccoli, tu e il papà, il pollaio, possibile non ne hai mai visto uno?”. Erano amarezze che affioravano d’improvviso, parole dal passato remoto spifferate, chessò, nel bel mezzo di un pranzo di Cresima e rivelavano il lato meno nobile dei Berruti. Livori, invidie in mezzo a qualche sorriso di circostanza, un posto dove ci si detestava come in nessun altra parte al mondo
Tutta roba, insomma, che avevo fatto tornare a galla e che avrebbe dovuto indurmi ad una maggior riguardo tanto più che pure il sottoscritto ero certo fosse vittima di più d’un pettegolezzo ma invece no. Lo sguardo ce l’avevo fisso lì, sul culo di zia e per la prima volta in vita mia mi accadde di pensare a cosa c’era sotto a quella vestaglia blu. Un aggettivo, mi venne, per spiegarlo: era capiente, nel senso che lì dentro di roba ce ne poteva entrare parecchia. Fantasticavo come fosse portarsela a letto, una femmina democristiana, doveva essere, di quelle che lo fanno, preferibilmente al buio, tenendo le gambe strette.
Eppure a vederla ed a parlarci, la Nadia non pareva nutrisse chissà quale devozione religiosa. Dava l’idea d’essere un cubo di Rubik, da metterci le mani dentro. Un piccolo rompicapo e a trovarci la soluzione, chissà, avrebbe potuto essere motivo di soddisfazione.
Poi ad un certo punto l’acqua cessò di scorrere dentro il lavandino, l’ultimo stoviglia fu sistemata nello scolapiatti ed io fui riportato giù dentro il mondo dei comuni mortali.
L’espressione al contempo avvilita e stizzita con cui zia se ne andò mi lascio lì interdetto. Avevo ecceduto? In fondo poteva essere mia madre e questo ed altri pensieri mi rigirarono dentro la zucca per tutto il pomeriggio. Lo passai in camera mia a mangiare patatine ed a guardare il soffitto in cerca di ispirazione dall’alto. E ogni tanto a tastarmi il cazzo. Avevo qualche velleità di erezione senza che nulla di deciso riuscisse mai a prendere corpo, c’erano immagini che tentavano di addensarsi, di gomiti appoggiati sopra il piano cottura, di cosce spalancate come fossero lancette di orologio. Ma erano bolle di sapone che si alzavano, veleggiavano qualche istante per poi sparire dentro il primo imbrunire.
Verso le 20 l’abitazione riprese vita per il rito del pasto serale. Il tintinnare delle posate sui piatti ed il vociare di sottofondo mi trascinarono fuori dal torpore e dal turgore pomeridiani.
Mi diedi una veloce rassettata: lavata di grugno, polo stirata, capelli pettinati e via in sala da pranzo.
Me ne stetti infrattato dietro una selva di bottiglie e di luoghi comuni – fuori, Ugo, non sei convinto che faccia più freschino che dentro?- ed amenità del genere. Ad ogni modo a debita distanza da Nadia che dietro il suo grembiule da combattimento pareva ben dentro la parte della donna di casa. Quando mi passò l’insalata, bastò una frase di circostanza, la segnalazione della mancanza d’aceto, per incrociare le pupille. Avevo sperato sostenesse lo sguardo e coltivato l’illusione di un’intesa segreta ma fu un attimo e si girò altrove. Rimasi lì a disagio, con un piatto a mezz’aria, sciocco per tutti quegli ardori che avevo ruminato in beata solitudine.
Il turbamento che qualche ora prima pareva avergli colorato le guance era svanito o, in realtà, neanche mai esistito. Conservava la sua notoria fisionomia indecifrabile: parca di parole ed espressione vagamente bovina facevano intendere una scarsa propensione alle emozioni, eppure, continuavo a ripetermi, ero solo io il cretino che la pensava diversamente?
Il vino scorreva senza trovare alcuna diga e la cena si protrasse sino alle dieci quando i nipoti proposero un giro a prendere il gelato. In centro c’era un gruppo che suonava la pizzica e quasi tutti s’aggregarono a far tardi.
Restava da sparecchiare, sulla tavola galleggiava di tutto: bucce di melone, scatolette di tonno, tozzi di pane, bicchieri di carta oramai stracciati e ad uno ad uno, in epoca di raccolta differenziata, andavano disciplinatamente smaltiti. E a chi sarebbe toccato? Agli zitelli, disse qualcuno in una risata molesta. Non so perché ma si misero a scherzare che dovessi fargli da valletto, a zia: io senza nessuno a cui badare, Nadia senza alcuno che se la filasse.
Le consegne furono asciutte: “Io riempio la lavastoviglie, tu, ragazzo” e su quel ragazzo, a rimarcare una distanza ci calcò sopra con la voce stile arial black “occupati della monnezza. Il camioncino passa domattina, capito?”.
Senza nulla da aggiungere me ne andai a prendere i sacchi gialli e ne riempii ben tre di ogni possibile schifezza. Da bravo soldato alla conclusione della mia missione tornai a vedere se c’era una medaglia.
Nadia se ne stava lì a fumare, con il portacenere tenuto in mezzo alle gambe allargate, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e i salsicciotti delle braccia lucidi di sudore in bella evidenza. Pareva assente a se stessa e netta ebbi l’attrazione per quel corpo di femmina su cui nessun Sigmund del cazzo avrebbe mai fatto il minimo effetto.
Quando s’accorse del sottoscritto mi invitò, con quella sua vocina piccola: “Assettatè qua; Lorè. Dimmi un po’, cos’era quella storia delle uova, di oggi?”.
Farfugliai qualcosa a base di cioè, non so, scusa senza riuscire a dire alcunché di sensato.
“Lo so cosa dicono di me, credi che non lo sappia come mi chiamano: la smaritata, quando son buoni e pure la babbiona, qualche pettegolo, che gli prenda un colpo. Ne ho ascoltate tante, eppoi quella storia del culo sfatto la sento ripetere da una vita .. “ e fece una lunga pausa tra un tiro di sigaretta e l’altro. Il fumo gli usciva dal naso e spandeva un aroma delizioso, “anche se credevo che più delle uova alla tua età t’interessassi di galline”. Una breve pausa seguì e poi concluse: “Chissà se anche quelle da brodo?”.
Annuii, più volte e cercai di balbettare qualcosa di sensato, senza riuscirci. Ma sentivo il cazzo spingere. Il pacco, doveva avere l’aspetto di una tenda canadese.
Credo sia stato lì che mi venne di chiamare l’all-in. Non è che avessi in mano un poker servito ma chi se ne fotte, mi dissi. Anzi non mi dissi proprio nulla, lo feci e basta. Le misi una man dietro la schiena e l’attirai contro di me, l’altra dietro la nuca e la baciai. Per un istante fui solo la mia bocca ed il cuore che palpitava così forte da sentirlo sino nelle orecchie. Un bacio linguoso e assaporai tutto: il gusto della nicotina e quello della femmina. Era una pesca invitante, all’apice della maturazione, un attimo prima di cascare a terra e sfarsi in mille schizzi e non c’era che da coglierla. Lo feci.
Li, poi, fu tutto assai svelto, un turbinio di mani dappertutto, le mie dentro le sue, di mutande, direzione passera, quelle di Nadia sotto l’elastico dei miei pantaloncini e vinse lei.
Si chinò ginocchioni e la sua bocca divenne la mia padrona.
Il film che ne seguì risultò fatto di immagini assai frammentate al limite dell’incoerenza.
Le sue espressioni da impunita e un attimo dopo da burina fatta e finita, di chi è certa che Tagliacozzo fosse il centro dell’universo. E, nel frangente, non fu possibile che darle ragione: il mondo era parecchio piccolo, iniziava e finiva, appunto, dentro quella bocca che parlava, fumava ed ora regnava sovrana.
Ebbi la certezza che ad un certo punto si fosse slacciata il reggiseno e la visione delle sue tette da smanacciare mi mandò in visibilio.
In orbita ci arrivai mentre le afferravo quella testa che stava facendo l’altalena e lì scatto la molla. Era l’imprinting di zia, l’aroma di Neutro Roberts che le veniva su dai capelli. Morbidi e secchi al contempo emanavano quella fragranza di shampoo dell’infanzia, dozzinale e delicato, zuccheroso senza essere stucchevole, rustico ma non grezzo, come una tovaglia a quadretti in una trattoria di borgata.
Mi salì su per le narici peggio della roba da spaccio. L’avessi sentito anche fra cent’anni sono certo che il cazzo mi si sarebbe indurito all’istante. Sono quelle emozioni, che per quanto campassi, non riuscirò mai a dimenticare. Si smemora il volto del compagno di banco delle medie e anche della vicina di pianerottolo ma non si può scordare una cosa del genere.
Appena prima di sbottare, domandai: “Zia … vuoi?” e non ebbi risposta. Della mia besciamella non rimase alcuna traccia visibile. Avevo appena inaugurato la serie: Nadia non sciupa nulla.
“Hai trovato chi ti succhia” concluse così, da spudorata e corse via a piedi nudi, col reggiseno in mano. Fui lasciato lì, come un tarullo stordito, con le mani a coprirsi le vergogne.
Se era vero che il richiamo dei sensi negli adolescenti può essere fortissimo i dieci giorni successivi dimostrarono come sia più potente per chi arrivava ai margini della menopausa, come se l’ultima fetta della torta fosse quella che andava gustata meglio.
Dopo pranzo veniva in camera mia, chiudeva la porta a chiave e mi mormorava, sottovoce: “Son venuta a finire i mestieri”. Era la cultura rurale che diceva che l’uomo viene prima. Cose incistate dentro i geni che nessun collegio svizzero avrebbe mai potuto sradicare. La femmina fa i figli e se il maschio esce col cazzo allegro lavora meglio, fatica più volentieri.
Se avesse avuto un titolo, Nadia sarebbe stato la Gardland del sesso che non vuol dire porcate a gogo o contorsionismi strani. Come andare in gelateria a farsi un cono e sapere già che panna e cioccolato sono il meglio. Con lei era bocca e figa, e come nelle ricette di cucina qb, quanto basta ossia finché ne avevo voglia ed il sottoscritto aveva alle spalle 31 anni di palle piene e la necessità di scaricarsele spesso.
Non ricordo neanche di averla messa a pecora tanto era il desiderio di sesso puro, senza necessità di alcun artificio geometrico. Lei allargava le cosce ed io glielo infilavo dentro, senza tanti convenevoli. Eravamo come due pezzi del Lego che si sono trovati dentro la scatola, lei giù ed io su senza desiderio d’altro che fosse sentirla sotto di me, di farle avvertire il mio peso, ventre contro ventre, a sfregarle l’epidermide tutta, aderente come un guanto.
E quando quella stazione veniva a noia c’era la capriola ed ecco sim sala bim le posizioni s’invertivano. Il culo sul letto era il mio ed anche il palo della sua personalissima lap dance era ancora e sempre tutto a disposizione. Ci si aggrappava con forza ed io con le mani su quelle chiappe di burro a darle il ritmo. E lì vibrava come corda di viola, le rideva il corpo intero, tutte le trippe: la buzza, le tette e pure il doppio mento tremava quando le martellavo l’utero.
Quello era il mio momento G. Venivo e gliela facevo dentro senza alcun ritegno. Non ricordo d’averla mai sentita dire di aver provato un orgasmo o reclamato qualcosa di più o di diverso. Coi giorni mi sono fatto certo che il diletto lo provasse a farsi sbattere, niente più niente meno.
Avevamo un intesa sessuale fantastica ed era una questione di dettagli infinitesimali, di una cazzo che s’induriva e di una topina che s’inteneriva. Di robe che mica potevi raccontarle ad un amico, anche se ubriaco fatto. La velocità con cui glielo picchiavo dentro era la medesima con cui zia amava essere pompata, ne lento ne rapido, ero solo la nostra andatura.
Ed era la coincidenza perfetta degli ingranaggi della passione. Lo sfogo sincrono della carne durante la copula: uno che si sgravava e l’altra che si riempiva.
Ma non era solo ardore o foga. A volte si stava semplicemente lì, nudi, senza fare niente di che. Li avevamo battezzati: i postliminari. Lei seduta sul letto a gambe incrociate, con le tette pendule sin quasi alla pancia trascorreva quarti d’ora di miele a strusciarmi le dita sul volto: mi dipingevo le mani e la faccia di Nadia .. era l’eco che risuonava da qualche parte. E giochicchiava con l’uccello del sottoscritto, beatamente a poltrire con la testa sul cuscino. E ci si guardava negli occhi senza necessità alcuna di parole –mi ami, quanto ami, t’è piaciuto, sono bella- di conferme o anche di aspettative che riguardassero il dopo. Eravamo lì ed ora e fanculo ogni metafisica.
“Sai, Lorè, la storia delle uova, cosa risposi una volta al figlio di Giovanni?” e si avventurò in una minuta spiegazione delle usanze e del lessico famigliare della Ciociaria papalina dove le cose si fanno ma non si possono poi dire.
“Quando mia mamma mi tirava sotto la doccia e si trattava di strigliarmi, m’ingiungeva di girarmi a favore di spugna prima dal lato del culo di dietro e a seguire del culo davanti. Non c’era una parola per indicare il lì davanti e la fessa o la gnocca parevano roba da scomunicati. Sai, è venuto di usare questo modo di dire: il culo davanti”.
“E che c’entra ‘sta cosa, zia?”, chiesi.
E mentre si batteva prima la cosce eppoi le natiche rispose: “C’entra sì. Che a quel villano del figlio di Giovanni ce lo dissi, io, dritto sul muso: il culo, di Nadia, quale? Quello davanti o quello di dietro?”.
La feria d’Agosto trascorse tra partite a tresette e bicchierate di Grechetto. Dopo il 15 il sole prese a calare sempre più presto e dagli armadi uscirono i primi golfini.
I nostri accoppiamenti clandestini (chissà quanto?) erano proseguiti senza sosta e senza noia. L’ultima notte composi per la mia amante qualche verso, di certo più modesto che buffo ed ebbi l’impressione che l’avessero commossa dentro. Ridacchiava ma con l’occhio un tot lucido
Di certo Nadia è una gran donna
soprattutto quando si sfila la gonna
A Lorè gli garba la polpa sino all’osso
e ci da dentro a più non posso
Se a Lore’ gli piglia lo sfizietto
Nadia gli fa il servizietto
La brama, la prega, la pretende
Lei si gira, s’inginocchia e poi si stende
Il mio premio non furono parole, Nadia era corpo: anima e figa, la medesima cosa.
Anni dopo, mi sono trovato a discutere con una mia fiamma se l’avessi intortata solo per trombarmela oppure, al contrario se avessimo fatto sesso per poi raccontarci col cuore. Non m’è mai stato semplice spiegare, soprattutto ai maschi, la differenza fra le due cose ma tant’è.
Nelle donne la sbarra del passaggio a livello, ad un certo punto s’alza, si mollano e puoi entrare: a volte da sopra, occhi ed orecchie ci sono apposta, nel caso di zia l’accesso l’ho sempre avuto da sotto e credo sia chiaro cosa intendo.
Chi fosse, Nadia, c’era da chiederselo: una sempliciotta da contentare a colpi di minchia? Una donna ad una sola dimensione? Un’epicurea a sua insaputa? La sensualità in persona? Chissà. Quel che è sicuro come l’oro è che il sesso era il nostro linguaggio dei muti e coi movimenti del ventre s’esprimeva molto meglio che con il congiuntivo. La scopavo e rimaneva ad occhi chiusi e bocca aperta e non era certo per far discorsi.
Il mio premio per le mie quartine, dicevo e qui l’epilogo fu identico al prologo.
Il sottoscritto, dopo la recita, era assai lontano dal livello mazza da baseball.
“Barzotto si può dire, zia?”
“E io, allora, chi sono, la zia imbarzottatrice?”.
Ghignai assentendo col capo, senza nulla da aggiungere.
Fui messo in piedi mentre lei si accomodò seduta sul margine del letto e per l’ultima volta ci diede di bocca.
Dire che è stato il pompino perfetto sarebbe una ganassata pura ma non s’è troppo distanti dal vero.
Perfetto perché c’erano la lingua, le labbra, il palato, la bocca completa a farmi la festa. E anche tutto il resto di Nadia: le mani a tenermi le chiappe, le spalle a strusciarmi il bacino, la frangetta a carezzarmi la pancia e ogni centimetro cubo di quella ciccia santa era devota al sottoscritto.
Un pompino, insomma, che era un abbraccio.
E, infine, gli occhi. Quando alzava la fronte ci si guardava dritto. Ed era solo un istante, prima che tornasse a lavorarmi. Che ci siam detti, lì, non importa ripeterlo, lo sappiamo noi e questo basta.
Che sia venuto o meno o che in piazza, per l’occasione, abbiano suonato l’inno nazionale francamente non me lo ricordo. Ma anche questo ha poco significato, anzi, zero.
Con tutta probabilità mi addormentai.
La mattina dopo feci la valigia.
Era la vita vera che s’era risvegliata per reclamare il suo spazio, s’era trattato di una vacanza, un’assenza a noi stessi. Per un attimo avevamo obliato cosa c’era prima e che sarebbe venuto poi. E la natura, come quella decina di giorni aveva più volte confermato, il vuoto lo detesta.
Il distacco ebbe accenti wertmulleriani, nei ruoli di Gennarino Carunchio e Raffaella Pavone Lanzetti, al rientro dal naufragio. Senza drammi, però, solo una punta di tristezza filtrava ed era un principio di lacrima sopra la serenità dei corpi che si abbracciavano.
La si sapeva, la nostra sorte senza necessità di discorsi ad esplicitarla.
In seguito ci siamo rivisti solo in occasione di matrimoni o funerali e mai più c’è stato modo di fare sesso.
E’ rimasta viva solo un’abitudine: ogni Ferragosto, in qualsiasi parte del mondo mi trovi le scrivo una cartolina. Sopra ci sono scritte solo due parole: ciao, zia
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