L'amazzone. 2. Due donne sole, nella giungla

di
genere
saffico

Mi sveglio alla mattina di un nuovo giorno e mi ritrovo abbracciata al corpo nudo di una giovane donna. Lei sta ancora dormendo profondamente mentre emette i suoni di un fine e rilassato russare.
Ricostruisco i pochi episodi di cui sono stata protagonista solo poche ore fa e mi metto a osservare questa creatura nata e cresciuta nella foresta amazzonica. Forse l'ultimo luogo della terra in cui vivono tribù di esseri umani ancora in modo primitivo, senza aver mai avuto contatti con la civiltà occidentale. Nell'oscurità della grotta in cui siamo rifugiate non riesco a cogliere molti particolari fisici, ma mentre la scruto lei si sveglia, delicatamente. Apre gli occhi e mi guarda in silenzio, senza paura. Io le ricambio lo sguardo e a un certo punto sembra che accenni a un sorriso.
“Buongiorno, piccola selvaggia.” Le sussurro in tono affettuoso, nella mia lingua. Mi sono infatti convinta che non conosca il portoghese, lingua che, del resto, conosco pochissimo anch'io, e reputo che non sappia nulla di inglese. Tanto vale parlare in italiano; credo, infatti, che quello che conti sia solo il tono della voce.
Lei non capisce nulla di quello che dico, come era ovvio, ma sembra che continui a sorridere.
Si muove piano piano verso di me e mi si raccoglie sul ventre, rannicchiandosi tra le mie gambe e tra le mie braccia, come una piccola gatta in cerca di calore, affetto e protezione.
Ormai si fida di me e mi rendo conto del livello del suo bisogno, se ha deciso di affidarsi così tanto a una sconosciuta. O forse è l'avermi trovata donna, come lei, che la fa sentire al sicuro. O magari possiede un istinto ormai sopito in noi occidentali, che le consente di cogliere le intenzioni dei suoi simili solo da pochi gesti, da poche frasi, o forse dagli odori del mio corpo.
Ricomincia a parlare in qualche lingua sconosciuta, come se io capissi tutto, e completa un lungo discorso guardando la luce attraverso lo stretto ingresso della grotta, che annuncia il sole nascente di un luminoso mattino.
“Certo, certo. Hai ragione.” Rispondo io, con tono calmo e comprensivo, e tanto basta. Chissà cosa avrà cercato di dirmi. La tengo ancora un poco tra le mie braccia cantandole una filastrocca in giapponese, e sorrido della bizzarra situazione e della mescolanza di razze e culture.
Ma voglio cercare di capire in che situazione ci troviamo e rispondere ad alcuni quesiti.
Lascio l'abbraccio della mia nuova amica e mi sposto verso l'ingresso. Lei capisce e mi segue.
Prendiamo la nostra scorta di frutta e usciamo alla luce.
Ora che rivedo l'ambiente che ci circonda, mi accordo di quanto sia bella e prodigiosa questa foresta vergine. Dalla nostra altura si scorge un orizzonte più ampio di fronde boscose a perdita d'occhio. Una coltre impenetrabile di vegetazione che racchiude la primordiale essenza dell'umanità, della lotta per la sopravvivenza, ma al tempo stesso dell'equilibrio con la natura e gli altri esseri viventi, cosa ormai dimenticata nel mondo occidentale.
Una nebbia azzurrina e impalpabile decanta al di sopra del manto verde, infiltrandosi, satura di umidità, fra l'intrigo di tronchi e liane sotto la superficie di questo oceano di fogliame. Urla e gorgheggi di uccelli esotici rimbalzano da un lato all'altro del mio campo visivo. Un paesaggio lussureggiante, gravido di vita.
Non riesco a scorgere segni di civiltà o anche bracci fluviali, tanto è fitta la vegetazione.
La ragazza intanto esce dalla spelonca e si siede al mio fianco.
Mi guarda, osserva il mio corpo nudo e lo confronta con il suo.
Mi scruta il volto, così diverso da quanto è abituata a vedere, e mi fissa il seno.
La mia pelle bianca e priva di tatuaggi contrasta marcatamente con la sua, che ne è quasi completamente ricoperta. Metà del suo volto è dipinto di nero, all'incirca dalla radice del naso in giù, come pure gran parte del suo corpo. Larghe strisce orizzontali di pimento bruno le coprono i seni e il ventre e la pelle, dove non è macchiata, è scura e abbronzata, adattata alla vita all'aria aperta. Due ampie collane di minute perline le scendono dalle spalle incrociandosi sotto i seni. Sotto la vita ha uno striminzito gonnellino di paglia, ormai spelacchiato e ridotto a pochi steli di erba essiccata e la sua nudità più intima si espone completamente alla mia vista. Né lei se ne vergogna. Non so come sarebbe il suo atteggiamento al cospetto dei maschi della sua tribù, ma di fronte a me, donna come lei, molto più nuda ed esposta alla sua vista, sembra non farsi troppi problemi. O forse è da così tanto tempo sola e abbandonata da aver dimenticato qualche usanza della sua tradizione. Da dietro alle sue spalle la sua mano cerca e trova una corta penna colorata che si infila trasversalmente nel naso, in un buco che aveva tra le narici, e forse questo la fa sentire meno nuda e più a suo agio. Forse anche più bella e più attraente. La bigiotteria è completata da due braccialetti ai bicipiti e anelli di osso alle caviglie. Proprio una bella ragazza e un corredo di gioielli di tutto rispetto, nella piena tradizione del suo popolo.
Vorrei perdermi nel desiderio e nella fantasia di essere un'antropologa, per poter studiare queste razze e culture lontane, immergendomi nelle loro usanze, nei loro dialetti e metodi per sopravvivere, ma proprio guardando un anello alla sua caviglia, scopro che una gamba è enormemente gonfia e asimmetrica, con un'estesa lesione sotto la pelle.
Ritorno di colpo alla realtà e al tentativo di capire cosa sia successo a questa sconosciuta e perchè viva da sola in una grotta piuttosto che con la sua tribù.
Eccomi, sono ritornata la dottoressa Nikura e ora cercherò di capire che patologia abbia afflitto la mia compagna.
Non ho più il camice, sono nuda. Forse qualche mio collega in Italia preferirebbe vedermi così in ospedale; non ho esami del sangue o radiografie e posseggo solo una manciata di medicine.
Mi interesso subito alla gamba; lei la ritrae e la nasconde, ma forse questo gonfiore è alla base dei suoi problemi. Capisco che si vergogna, ma qualcosa devo fare.
Le riprendo le dita delle mani, con dolcezza, e lei mi si riavvicina.
“Cosa hai fatto alla gamba?” Le chiedo e indico la parte malata. Lei dice qualcosa che non capisco.
Di fronte alle mie insistenze e al mio sguardo, che cerco di far apparire serio e preoccupato, lei alla fine distende l'arto e me lo mostra.
Appena glielo tocco lei urla dal dolore e lo ritrae spaventata. Con pazienza lo riprendo e inizio a esaminarlo.
Sotto al piede la pianta è gonfia, tutto intorno a una ferita profonda da cui, se premo, esce pus. L'infiammazione si distende a tutta la gamba fino oltre al ginocchio e la pelle è arrossata in bolle e flittene. La diagnosi è presto fatta. La ragazza deve avere qualche profondo ascesso, partito dalla ferita al piede ed estesosi a tutto l'arto destro; forse in profondità le vene sono trombizzate. Deve essere passato già qualche tempo da quando quest'infezione si sta disseminando e questo forse è il motivo per cui è stata abbandonata, incapace di camminare e di badare a sé stessa, in preda alla febbre e ai fenomeni tossici di un'infezione che le sta contaminando il sangue.
Eppure mi chiedo perchè la sua gente non abbia cercato di curarla trasportandola al proprio villaggio. Avranno qualcuno che si occupa di guarire le ferite e che tratta le malattie, qualche stregone, uno sciamano o che ne so. Conosceranno anche loro le proprietà curative di qualche erba locale; sapranno incidere un ascesso. O no?
Di certo in queste condizioni la ragazza non è in grado di muoversi né di cacciare. Ancora meno di scappare o affrontare predatori.
Lei intanto mi osserva. Vede come affronto la sua malattia, i miei movimenti che le controllano le pulsazioni arteriose sui piedi, che tastano i punti dolenti, e forse si fa un'idea che io sia competente di malattie.
Le spremo delicatamente il piede facendo uscire ancora pus e sangue. Lei avverte il dolore, ma capisce che sto cercando di essere delicata e che sto affrontando proprio il suo problema, con l'intento di darle almeno un po' di beneficio.
“La tua gamba, cara amazzone, è proprio nei guai”, le dico intanto, “qui dovresti andare in un ospedale per un approccio chirurgico.”
Ci guardiamo negli occhi e capisco che in ospedale sarà impossibile portarcela. E mi è chiaro anche che, se non riuscissi a curarla, la giovane rischierebbe di lasciarci le penne in pochi giorni. Già è fredda e indebolita dalle febbri e dalla malnutrizione.
Lei mi tocca la coscia col piede malato. Ha capito che mi intendo della sua malattia e che la causa della sua inabilità è strettamente correlata con quel liquido giallo e cremoso che le impesta il piede.
Mi fa segno di spremere il piede per rimuovere altra malattia. Ormai è convinta che io sappia come aiutarla e sembra animata da energie e speranze che forse aveva abbandonato da tempo.
'Ok, Yuko.' Mi dico. 'Prendiamoci del tempo. Qui devi mettere da parte la tua sopravvivenza e pensare a questa creatura. E se riesci a salvarla forse lei ti potrà aiutare, o almeno ti resterà la soddisfazione di aver fatto o tentato qualcosa di buono per queste persone.'
“Aspetta qua, vado a prendere acqua pulita. Va bene?”
Quella guarda e non capisce. E come potrebbe?
Le avvicino la frutta e gliela do da mangiare. Lei mangia subito di gusto. Probabilmente è da molto che non si nutre.
Io faccio per allontanarmi, ma quella mi ferma prendendomi per un braccio.
Si infila nella grotta e ne esce con una lancia e un grande arco. Intuisco che abbia capito che vado a caccia. Ma questo proprio non sono capace di farlo. La guardo e scuoto la testa. Le indico piuttosto la frutta e lei capisce. Mi si fa vicina e mi indica alcuni alberi più in basso e io immagino che lì potrò trovare alimenti per tutte e due.
Le lascio tutta la mia provvista e scendo a fare la spesa.
Da occidentale dispersa e in fin di vita ora mi sento una leonessa; compagna e alleata di una vera amazzone, posso sfidare l'ambiente per trovare come sopravvivere. Mi muovo nella direzione che la ragazza mi ha indicato, scruto le fronde in cerca di frutti e in effetti li trovo quasi a colpo sicuro, una vicina all'altra, una pianta di cupuaçu, una papaia e una pianta di guaranà.
Faccio incetta di frutti e ritorno subito al nostro nascondiglio lasciando il bottino davanti alla ragazza. Poi scendo di nuovo e ritorno con una scorta d'acqua che trattengo tra grandi foglie di una pianta che ho trovato di fianco al torrente.
Mangiamo insieme la frutta dai sapori aromatici e dalla polpa cremosa. La ragazza sorride e sembra fiduciosa. Io la studio nelle sue fattezze. I capelli neri, lunghi e lisci, la pelle che si intravede scura nelle zone non coperte dai tatuaggi e gli occhi con il taglio vagamente orientale, mi ricordano che tutto il continente americano è stato colonizzato in epoche preistoriche da popoli venuti dall'Asia, e forse lei in me riconosce alcuni di questi tratti in comune. Un incontro tra una asiatica di antichissima origine e un'asiatica moderna, dopo chissà quante migliaia di anni!
Cerco di capire di quale tribù sia, enumerando a caso qualcuno dei nomi locali che ho imparato. Lei sembra non ascoltarmi neanche, finchè si ferma di colpo e mi guarda spaventata.
Forse ho pronunciato il nome della sua gente, tra i tanti a lei sconosciuti.
“Ashàninka” Ripeto e quella rimane a bocca aperta. Almeno alcune espressioni di stupore sono rimaste immutate nei secoli e nei continenti.
Inizia subito a parlare in tono concitato, indicando sé stessa e vari posti nella giungla appena sotto di noi, ma io non riesco ad afferrare alcun significato. Poi, di fronte al mio silenzio si seda e mi guarda, intuendo che non ho potuto capire nulla.
Non ci perdiamo d'animo.
Io indico lei, pronunciando quell'unico nome, quel vocabolo che, solo, ci unisce, e poi indico me stessa, pronunciando il mio nome. Lei mi guarda mentre ripeto la manovra una decina di volte, e poi, finalmente abbozza un “Yuuukkoo” stentato, piantandomi l'indice tra i seni.
Io sorrido e annuisco e ripeto quello che ormai ho definito sarà il suo nome: “Ashàninka”.
Lei mi si butta fra le braccia e mi abbraccia con tanta foga che finiamo tutte e due per terra, lei sopra e io sotto.
Stringe il suo petto sul mio e restiamo così, una sopra all'altra, nude, nel cuore della giungla amazzonica. Questa ragazza, concludo, ha qualche atteggiamento un po' strano, ma mi riprometto di indagare più tardi i suoi gusti sessuali.
Dopo esserci saziate di frutta mi occupo della sua gamba. Ho appoggiato il recipiente dell'acqua in bilico tra le rocce e comincio a lavarle il piede e l'arto con cura.
Spremo e lavo più che posso mentre la mia paziente stringe tra i denti un ramo per resistere al dolore.
Ormai ha fiducia in me e pare convinta a mettere la sua gamba e la sua vita nelle mie mani. Forse rappresento la sua unica speranza.
Dopo una bel lavoro di pulitura, il piede comincia a sanguinare e mi fermo. Sono arrivata al tessuto sano. Ma la gamba mi preoccupa di più. La tasto con cura sotto i suoi occhi attenti e individuo alcune zone più tese e tumefatte, quasi insensibili al tatto, mentre il resto è molto dolorabile. Qui sotto ci devono essere altri ascessi. Dal mio piccolo bagaglio estraggo una lama di bisturi e mi avvicino per incidere. Ma l'amazzone si ritrae di colpo e mi guarda minacciosa puntandomi un indice. Io allargo le braccia e le mostro la mia piccola lama, gliela faccio prendere in mano e toccare. Lei l'osserva incuriosita e alla fine me la rende. Io le tocco la gamba e le faccio capire che sto per pungere. Lei si prepara tenendo in mano la sua lancia, forse come estrema difesa, ma mi indica il punto che ho individuato invitandomi così a procedere.
I nostri dialoghi sono molto silenziosi, ma efficaci.
In effetti la zona malata è ormai diventata così poco sensibile che non dovrebbe più sentire male.
Io mi avvicino e appena lacero il primo lembo della cute, emerge una fontana di pus.
La ragazza si spaventa e pronuncia qualche esclamazione rivolta al male che le si nascondeva sotto la pelle. Immagino che siano imprecazioni.
Mi fa poi cenno di procedere e io spremo fuori una quantità spaventosa di liquido infetto. Ripeto la manovra in un altro punto, con lo stesso risultato.
Lavo e pulisco, spremo e dreno decilitri di tessuto colliquato. Tutto l'intervento mi porta via l'intera mattinata, ma alla fine sono soddisfatta. L'arto è ora vistosamente meno tumefatto e il dolore è molto migliorato.
Ashàninka mi guarda con stupore e riverenza. Tutto si sarebbe aspettato dalle sue divinità, tranne che le fosse inviata una donna da un altro pianeta, in grado di vedere attraverso la sua pelle e con strumenti brillanti e prodigiosi per curarla e accudirla, eliminando il liquido giallo della morte.
Estraggo dal marsupio una delle mie ultime compresse di levofloxacina, uno dei due antibiotici di cui ancora dispongo, e gliela porgo.
Quella mi guarda con un'espressione dubbiosa e mi ricordo di non essere in centro a Milano.
Facciamo un passo indietro. Prendo la compressa e l'avvicino al suo piede. Con la bocca emetto il classico rumore di battaglia tra batteri e antibiotico. Simulo un conflitto in cui il farmaco ha la meglio sugli elementi della natura, e questa mia teatrale spiegazione alla mia paziente sembra molto convincente.
Lei ride e si mette in bocca la compressa. La mastica e poco ci manca che sputi tutto sentendo il sapore amaro. Benedetta ragazza, se avesse intuito che andava ingoiata! Le do da mangiare un cupuaçu con cui, nel vero senso dei termini, 'addolcisco la pillola'.
Lei probabilmente si convince del fatto che il cattivo sapore della medicina renda il rimedio più forte contro la malattia e manda giù ubbidiente.
Poi con le poche garze che conservo le zaffo i tre punti in cui ho drenato gli ascessi.
L'umore è buono e il pomeriggio lo passiamo a chiacchierare ognuna nella propria lingua, senza capirci assolutamente, ma esponendoci i nostri sentimenti da quando ci siamo incontrate.
Io mi sento rilassata e in buona compagnia. La grotta è sicura e Ashàninka è in grado di riconoscere i pericoli di questo ambiente. Non ho più quella fretta di raggiungere il mio popolo in un percorso così pericoloso e incerto da risultarmi assolutamente incomparabile con l'ipotesi di fermarmi qui con la ragazza per curarla e guarirla. Finchè starò qui in compagnia rischio sicuramente molto meno che mettendomi in moto da sola in direzioni incerte.
Mi piacerebbe capire perchè la ragazza sia stata abbandonata dalla sua tribù e si fa strada in me la sensazione che qualcuno, senza che io me ne avvedessi, mi abbia indirizzata qui per provare, con un approccio occidentale, a salvare la fanciulla dalla sua infezione. Poco importa che io sia quasi totalmente priva dei mezzi di cui potrei disporre nel mio ospedale in Italia. Per i popoli di qui, forse, la figura occidentale rappresenta una sorta di stregone. Quando invece non è un dominatore, distruttore del loro ambiente e minaccia della loro estinzione.
Nel pomeriggio la gamba migliora. Già l'aver drenato gli ascessi ha dato un buon colpo all'infezione e ha ridotto enormemente il dolore.
Su indicazione dell'indigena vado a rifornirci di altra frutta. La carica di vitamine, le energie degli zuccheri e la polpa nutriente saranno fondamentali per la guarigione della ragazza, ridotta ormai in stato settico e di malnutrizione, e sono fiduciosa.
Mi lavo, nel tardo pomeriggio, e con altra acqua aiuto Ashàninka a lavarsi; osservo il suo corpo giovane, i suoi seni sodi a differenza delle mammelle cadenti delle donne di qui, e mi chiedo che età possa avere: vent'anni? Venticinque?
Lei mi osserva mentre con le mani le lavo il petto e il ventre. Con la sua mano indirizza la mia tra le sue gambe e la cosa mi desta curiosità. Non so nulla delle usanze e tradizioni di queste popolazione e so che certe tribù che non hanno mai avuto alcun contatto con la civiltà occidentale sono ancora avvolte nel mistero.
La mia mano le scorre sulla vulva, guidata dalla sua. La ragazza sta provando piacere, ne sono sicura, e mi chiedo se questa sua iniziativa sia normale.
Quella mi guarda con un'espressione che conosco e su cui non mi sento di sbagliare. Il desiderio, la carica erotica che si sprigiona dagli occhi socchiusi, dalla bocca appena aperta.
Allarga le cosce e solleva le ginocchia, esponendomi tutta la sua più intima femminilità sotto quello che resta del gonnellino. Lascia la mia mano e si appoggia indietro, rimanendo seduta e inarcando la schiena. Il respiro si accentua mentre io non smetto di accarezzarla sulla vulva, sotto una minima peluria che le ricopre il monte di Venere. Ormai non la sto più lavando, la sto masturbando apertamente. Sono sicura che la sua vulva sia come la mia e funzioni esattamente allo stesso modo. E lei mi ha espressamente esplicitato il desiderio che io la toccassi e la facessi godere. Chiude gli occhi e agita i capelli, lunghi e neri, come una puledra selvaggia. Piega indietro la testa e spinge la passera incontro alle mie dita, sporge il bacino verso il piacere, mi incita con frasi che non capisco ed emette piccole urla acutissime che hanno spaventato gli uccelli degli alberi intorno a noi. Io ci metto tutto il mio impegno e la mia passione, le sfioro il clitoride, che sembra essere sensibilissimo, e le infilo due dita nella passerina. Meraviglia della fisiologia umana. La sua vagina è calda e bagnata, tale quale l'apparato sessuale di qualunque donna al mondo, di qualunque razza, etnia e lingua. Le mie dita la penetrano e con pollice le sfioro il bocciolo. So bene come coccolare una donna e sto mettendo sul campo le mie migliori doti. Mi avvicino alla ragazza e con un braccio l'avvolgo. Lei abbandona il suo volto ai miei baci, la mia lingua le accarezza il collo, i nostri capelli neri si mescolano e i suoi urli si soffocano nella mia bocca. Non sa baciare, ma accoglie la mia lingua nella sua bocca. Nel momento in cui il piacere sessuale si sta impadronendo di tutto il suo essere, la giovane amazzone si lascia guidare da ogni mia iniziativa. La abbraccio e intanto affondo le mie dita tra le sue cosce. Lei mi prende il seno e si lascia baciare. La mia lingua tocca la sua, inerte, che solo si accetta di farsi accarezzare e quando l'orgasmo si impossessa di lei, la giovane si scioglie nel mio abbraccio. Sembra che gema e pianga, ma non lascia la mia bocca e non molla la mia tetta. Si scuote tutta, si contorce mentre la sua presa sul mio seno si fa dolorosa. Ancora geme e urla nella mia bocca e poi cade come svenuta tra le mie braccia.
Il suo corpicino ora sussulta in un respiro affannoso, la sua pelle è bagnata di sudore e mi chiedo se mai abbia provato un orgasmo regalatole da un'altra donna o se forse ha già coscienza di essere lesbica e ha già avuto esperienze con altre compagne.
La piccola sembra addormentata ma non lascia la presa sul mio seno. Sento le sue dita che affondano, che si muovono sulla mia tetta, come le dita di una bambina che stritola il suo orsacchiotto. Il suo respiro si calma e si addormenta del tutto mentre la stringo, la avvolgo e la proteggo col mio corpo.
Una piccola amazzone lesbica, ferita e malata, accudita da una donna orientale dispersa nelle foreste brasiliane. Siamo due entità fragili, in interdipendenza, in bisogno reciproco e ora in un impeto di amore saffico.

- continua
di
scritto il
2022-12-26
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