Aretusa. 1. Rinunciare alla ragione
di
Yuko
genere
prime esperienze
I papiri verde scuro riverberano il colore delle acque dell'antica fonte. Alghe placide sonnecchiano nel denso fluido, pigramente danzando al moto di una corrente che sgorga dalle profondità della terra e subito si riversa nel mare. Centinaia di pesci vagano senza una meta precisa solleticando la superficie trasparente sui fianchi e sul ventre. L'acqua è mossa dalle profonde correnti, un lento e innocuo ribollire senza suono, un perpetuo moto che rende vive le superfici fluide suggerendo che la fonte non è immota, bensì animata da antico ardore, vestigia di fermenti mai sopiti, animo vivace e passione indomita.
Mi chino sulla fonte antica e interrogo le acque, là dove i turisti sciamano incuranti, intorno alla sorgente dedicata ad Aretusa, qui nell'isola di Ortigia, nel quartiere primitivo di Siracusa. Fanno foto senza prestare attenzione, mentre io mi immergo in eco lontane di amori e fughe, corse e inseguimenti, per ritrovare lo spirito di una ninfa mai domata, che ancora agita le acque in continuo subbuglio.
Una voce mi sussurra nelle orecchie. La sento vivida, eppure non vi è nessuno nei paraggi.
Un’ispirazione, una riminiscenza, un linguaggio incomprensibile alla mente, ma che percepisco con distinzione nella profondità del cuore.
“Sono Aretusa.
Io ero una delle ninfe dell'Acacia, scudiera e servitrice di Artèmide, dea della caccia. Nessun'altra correva per i boschi con più ardore. Ero forte e rapida e mai fui vinta in tenzone. Non ho mai aspirato alla fama d'esser bella pur essendo ritenuta tale. Le lodi sul mio aspetto non mi davano gioia, anzi arrossivo di quelle doti fisiche di cui altre soglion godere. Abbassavo lo sguardo fuggendo con la mente.
Un giorno tornavo dalla foresta di Stinfalo, un pomeriggio molto caldo.
La corsa aveva bagnato di sudore le mie membra, il calore del mio corpo avvampava come fiamma in cerca di refrigerio.
Trovai un corso d'acqua che pigro scivolava senza un vortice e senza un mormorio.
Un'ansa restia languiva in disparte, accarezzata dai rami di un salice, invitante come un abbraccio materno, fresca come una brezza di primavera.
Acque limpide mi sorridevano, brillanti di riflessi d’oro e argento dei minuti cristalli sul suo fondo.
Nessuna voce, non uomo o altro essere vivente turbava la quiete e l’orizzonte, e mi spogliai delle mie vesti, appoggiandole con cure sulla riva umida e fragrante. Mi accostai alla corrente e, nuda, mi tuffai.
Nuotai giocando con i flutti, risalendo il flusso e lasciandomi trasportare come ramo di giunco, assecondando i capricci delle acque. Schizzai d’intorno con le mani il limpido fluido e risi ai riflessi di arcobaleno sollevati dai miei giochi.
Ma mentre nuotavo mi giunse dalla profondità del gorgo un mormorio indistinto che mi terrorizzò e mi costrinse a scappare sul margine più vicino del fiume. I miei vestiti rimasero sulla sponda opposta e con le mani mi cinsi il seno e il pube, mentre un borbottio prendeva forma dalle profondità dei flutti.
Era Alfeo che con la sua voce roca mi aveva domandato per ben due volte “Dove scappi Aretusa?”
Io presi la fuga, nuda come mi trovavo, senza preoccuparmi più di coprirmi, correndo e saltando con quanta più velocità mi consentissero le mie membra.
Ma il flusso d’acqua assunse forme umane e prese ad inseguirmi in terre asciutte.
E quanto più scappavo e tanto più egli si mise a incalzarmi nell'impeto della passione.
“Fermati Aretusa! Il mio intento è onesto!” Mi urlava Alfeo quando si avvicinava, ma io mai gli credetti e più forte scappavo.
Io non cedevo, ma quello mai arretrava, e se egli non riusciva a raggiungermi, nello stesso modo io non riuscivo a distanziarlo. Riuscii a raggiungere Orcomeno, Psofide, il Cilene, le valli del Menalo, il gelido Erimendo e l'Elide senza farmi battere da lui, ma le mie forze non erano all'altezza di sostenere il ritmo di un dio. Scappai per giorni e giorni ma alla fine della lunga corsa, stremata dalla fatica gridai: “mi prende, aiuto! Vieni in soccorso, o Artèmide, della tua scudiera!”
La dea dall’alto delle nubi si commosse e da un gruppo di densi nembi ne scelse uno e me lo gettò addosso. Rapita nelle fitte nebbie rimasi sola e senza voce. Immobile e silenziosa a spiar i movimenti del nemico.
Il fiume si guardò intorno e per ben due volte aggirò la nuvola che mi avvolgeva, non sapendo che io fossi lì. Ma egli non se ne andava; annusando l’aria, lambendo la coltre di vapori, fissava intorno alle nebbie cercando di trafiggerne lo spessore; mi cantava del suo amore e del suo desiderio di avermi in moglie e non lasciava più quel posto in cui, tremando come foglia, immobile e invisibile aspettavo la mia sorte.
Sentendomi assediata, un sudore freddo mi coprì le membra; condense di vapore si scioglievano sulla mia pelle e gocce azzurre stillavano giù da tutto il mio corpo; rugiada mi fluiva dai capelli e, ora dopo ora, mi trasformai in sorgente.
Il fiume mi riconobbe pur sotto forma d'acqua, io, l'amata, e per lungo tempo inseguita e ricercata, e, deposto l'aspetto umano che aveva assunto, si convertì nelle consuete onde per congiungersi a me. La dea mia protettrice il suolo squarciò, allora, ed io mi immersi nelle buie caverne per giunger sino a Ortigia. Protetta tra le rocce dell’umida spelonca, di lontano miro Alfeo congiunto al mare. Egli non perde la speranza né l’ardore, ed io rimango qui nascosta e affranta.
E ancora riposo come fonte tra le profondità delle rocce, in confuso desìo di riprender le mie forme e le mie corse e di servire la mia dea nelle sue cacce.
Agito le mie membra muovendo le correnti e i muschi mi fanno da vestito. I papiri mi coprono dal sole e come lenta canzone scivolo ancora verso il mare.”
Rimango stupefatta per il racconto che si è condensato nella mia mente, per le parole che realmente ho percepito e che, senza ombra di dubbio, provenivano dalla sorgente. Non c'è anima viva nelle mie vicinanze. Solo qualche turista si affaccia dalla ringhiera in ferro battuto a spiare tra i rami di papiro il lento moto delle acque, mentre la maggior parte rivolge la schiena alla fonte. L'attrazione di bar, ristoranti e negozi di alimentari è più forte per la gente consueta, ma questo non vale per me.
Non so se tutti siano in grado di percepire questo lamento o se solo chi dispone il suo animo in ricerca può cogliere questo messaggio.
Probabilmente sono semplicemente in preda a fenomeni allucinatori in questa sera in cui mi sento un po' sola e triste, ma decido di avvicinarmi al cancello, chiuso a quest'ora, dei giardini di fianco alla tonda fonte. Approfitto dell'oscurità e scavalco le inferriate. Di là sono al buio; protetta dalle piante e dalle ombre delle mura mi spoglio dei vestiti e mi avvicino alla fonte e, quando penso che nessuno più si stia interessando delle acque in cui si è tramutata l'antica ninfa...
“Mamma! Una ragazza nuda si è tuffata nell'acqua!”
“Ma che dici, Totò?”
“Ma sì, guarda anche tu, è nuotata sott'acqua!”
La madre si avvicina al parapetto, ma non vede nulla di quanto annunciato dal bambino.
“Cosa dici, Totò? Quelle alghe verdi? Dici che quella è la ragazza che si è tuffata? Ma vieni qui, amore 'emmamma!”
“Ma no, c'era davvero!” Insiste il marmocchio.
Interviene il padre: “Ma che succede?”
“Totò ha letto la storia della fonte, ha guardato le alghe e ci ha visto la metafora della ninfa che si era trasformata da donna ad acqua.” La mamma è entusiasta del suo pargolo.
“Davvero hai visto questo?” Il padre, che non ha letto la storia, si avvicina al bimbo.
“No, babbo, io ci ho visto una ragazza nuda che si tuffava!”
“Non è un amore?” Insiste la madre.
“È ora di rientrare.” Conclude il padre.
Il contatto con l'acqua non è stato traumatico. Mi aspettavo uno schiaffo gelido e invece, a sorpresa, mi sono ritrovata in un fluido tiepido. Mi è venuto spontaneo pensare che questa fosse una fonte termale e ciò giustifica la presenza dei papiri; strano, però, che non ci fosse scritto nulla nel cartello indicatore. Tutto questo in un solo attimo di pensieri concitati.
Nuoto sott'acqua, ma non so neanch'io più dove andare e che razza di pazzia mi ha colto.
Scorgo sul fondo una specie di luminescenza, forse il riflesso dei faretti che illuminano dall'esterno.
Ma quando sento che la mia scorta d'aria sta per finire, mi rendo conto della stupidità della mia iniziativa e mi giro con un colpo di fianchi per tornare in superficie. Spero che non ci sia nessuno a vedermi.
Ma proprio ora percepisco, vivida e forte, la stessa voce di prima, e questa non può essere un'allucinazione.
“Chi dunque sei, che in quest'acque t'inoltri?
Non fu permesso, ad alcun vivente,
Abbatter muri e sfidare le coltri.
Destar la ninfa che giace dormiente!”
“Io sono Yuko.”
E mi stupisco di udire la mia voce, qui sotto il livello dell'acqua. Eppure, senza essere riemersa, mi trovo ora su una spiaggia di sabbia dorata, asciutta e calda, e sembra di scorgere i raggi di un sole estivo di metà pomeriggio, anche se sono perfettamente sicura che in questo momento sia notte.
Respiro perfettamente e ho anche la lucidità mentale di capire che non posso trovarmi in un sogno.
La voce che ho udito è sicuramente quella di una donna. Il tono categorico, la minaccia implicita, mi bloccano ogni iniziativa e cresce in me il timore di aver violato un santuario in cui non mi era permesso entrare.
“Se ho sbagliato, chiedo scusa. Non sapevo che fosse vietato fare il bagno. Sa, vengo da un lontano paese e non so leggere l'italiano.” Butto lì una scusa che forse sarebbe stata credibile, se avessi pronunciato parole in giapponese o anche in inglese piuttosto che un fluente italiano con accento del nord. Che ci sia una vigilessa a controllare la fonte? E com'è che il personale amministrativo di Siracusa interroga i turisti con endecasillabi a rima alternata?
“Passa, tu, dunque, che vien da lontano
e parla a me, che'l mio nome è Aretusa,
perchè non sia che'l tuo tuffo sia vano
e tu non scappi, cercando una scusa.”
'Oddio', penso tra me e me, 'questa volta, Yuko, l'hai fatta grossa! Che ti è venuto in mente di risvegliare una musa che dormiva racchiusa in una leggenda? E mo' che farai?'
“Perdon ti chiedo, davver non sapìa
che in fonde acque stè sua signoria...”
Azzardo, ma non mi riesce proprio di rispettare rime e metrica e rischio solo di far casino e sembrare offensiva o oltraggiosa con queste parole inappropriate.
Ma di fronte a me, poco distante, prende forma una figura femminile e che cammina lentamente nella mia direzione. Sembra quasi che fluttui a mezz'aria, sfiorando la superficie della rena senza lasciare impronte. Comincio a pensare di essermi davvero cacciata nei guai e mi guardo intorno per cercare le acque, sperando che, rituffandomi, possa riemergere nella fonte dell'isola di Ortigia, dove incautamente mi sono immersa.
Il volto della donna è giovane e sorridente e, forzando la ragione, devo convincermi che, se davvero questa è Aretusa, la ninfa dell'antica Grecia, cristallizzata nella leggenda si è mantenuta giovane come ai tempi della sua fuga dal fiume Alfeo. Davvero è molto bella e, ancora, è nuda come allora.
Mi ricorda un po' la Venere di Botticelli, i capelli sono ondulati e dello stesso colore di un biondo rossastro, come il grano maturo, ma sono più corti, e la divinità non può coprirsi il pube con essi.
Si copre però seno e inguine con le mani, ma quando vede che sono sola e anch'io nuda, lascia cadere le braccia e mi si avvicina senza vergogna, esponendo le sue forme e il biondo vello tra le sue cosce.
Incede verso di me sorridente e aggraziata e negli ultimi metri si mette a correre. Il seno le ondeggia e i capelli, che le arrivano sulle spalle, rilucono di riflessi del colore dell'oro vecchio.
Tutt'altra figura rispetto alle statue greche e romane e tantomeno le stampe antiche. Questa ragazza è snella e atletica, come doveva in effetti essere nella tradizione di giovane invincibile nella corsa. Solo che l'iconografia antica l'ha sempre presentata secondo i canoni estetici di quei tempi, un po' debordante e con quelle odiose pettinature giunoniche. Il suo aspetto è completamente differente, asciutta e tonica, un seno adeguato, ma neanche troppo piccolo.
Mi chiama e questa volta la voce non è più diffusa e incombente, né il tono non è più minaccioso, ma dolce e invitante. In me cresce la convinzione di trovarmi in un sogno, sebbene molto vivido.
La sensazione, a prescindere dai fatti, è che questa ragazza, prigioniera di una leggenda, non sia mai stata visitata da alcun essere umano e che nessuno abbia mai dato credito alle fantasie di poeti e scrittori antichi, e pertanto non sia mai stato preso in considerazione la possibilità di salvarla dall'eterno destino cui è stata condannata.
Ma quella che vedo, comunque, è una ragazza, e non una sorgente d'acqua.
Mi si avvicina e mi tende le mani. Di fronte alla sua nudità, rinuncio a coprire la mia. Lei mi sorride, sembra che stia rivedendo un volto noto e gli occhi sono eccitati. Forse realmente io rappresento un'inaspettata novità. Mi porge le braccia e io allungo le mie, lei mi prende per le dita e resta a guardarmi. Intuisco che la sua sorpresa si grande almeno quanto la mia, e che non sappia come proseguire o intavolare un discorso.
“Io ho percepito, il tuo nome è Yuko.
Fosti la prima a bagnar la tua fronte
D'umana sembianza io mi riduco
Per ti parlare, lasciando la fonte”
“Ma davvero tu sei Aretusa? Io non riesco a capacitarmi, mi credi?” Prendo io l'iniziativa. “Io ho solo letto della tua leggenda, sono rimasta ad ammirare la sorgente che ribolliva placida e tranquilla, e vi ho visto i movimenti e lo spirito della ragazza che in essa vi stava racchiusa, eppure, mai e poi mai avrei detto...”
Ma lei mi interrompe. Mi stringe forte le mani e colgo in questo gesto la sua profonda emozione e pure la realtà concreta e carnale della sua presenza.
“Sono Aretusa, davvero, la ninfa,
Qui prigioniera da tempo perduto.
Io ancora aspetto riaver la mia linfa,
Volgere il fato, ch'io non ho voluto.
Qui son scappata, inseguita dal fiume
cui nome è Alfeo, finchè la mia diva
non mi mandasse ragazza d'acume
per liberarmi, seppure tardiva.
Ora che Diana, s'è volta e ha concesso,
spero riaver la mia forma di donna
che questo sogno sia dunque permesso
perchè io lasci del marmo colonna.”
Non so come faccia a parlare così spedita snocciolando versi e rime, ma credo che alluda a lasciare per sempre la forma scolpita in questa specie di tempo costruito intorno alla sorgente. Noto che la ninfa ha cambiato il nome della sua protettrice da Artèmide in Diana; ne sono passati di secoli, da quel dì, e sorrido di tanta modernizzazione della mia nuova amica.
Le mie risposte sono lente e ponderate. Il suo parlare aulico e antico necessita di una riconversione nella mia mente. Ma, lasciando perdere ogni reazione di razionalizzazione, decido di vivere fino in fondo questa avventura. E se si sarà trattato di un sogno lucido, pazienza, sarà stato un magnifico sogno!
Alcuni tratti sono ispirati e modificati da ‘Arethusa et Alpheus’ (Ovidio, Metamorfosi Libro V)
Mi chino sulla fonte antica e interrogo le acque, là dove i turisti sciamano incuranti, intorno alla sorgente dedicata ad Aretusa, qui nell'isola di Ortigia, nel quartiere primitivo di Siracusa. Fanno foto senza prestare attenzione, mentre io mi immergo in eco lontane di amori e fughe, corse e inseguimenti, per ritrovare lo spirito di una ninfa mai domata, che ancora agita le acque in continuo subbuglio.
Una voce mi sussurra nelle orecchie. La sento vivida, eppure non vi è nessuno nei paraggi.
Un’ispirazione, una riminiscenza, un linguaggio incomprensibile alla mente, ma che percepisco con distinzione nella profondità del cuore.
“Sono Aretusa.
Io ero una delle ninfe dell'Acacia, scudiera e servitrice di Artèmide, dea della caccia. Nessun'altra correva per i boschi con più ardore. Ero forte e rapida e mai fui vinta in tenzone. Non ho mai aspirato alla fama d'esser bella pur essendo ritenuta tale. Le lodi sul mio aspetto non mi davano gioia, anzi arrossivo di quelle doti fisiche di cui altre soglion godere. Abbassavo lo sguardo fuggendo con la mente.
Un giorno tornavo dalla foresta di Stinfalo, un pomeriggio molto caldo.
La corsa aveva bagnato di sudore le mie membra, il calore del mio corpo avvampava come fiamma in cerca di refrigerio.
Trovai un corso d'acqua che pigro scivolava senza un vortice e senza un mormorio.
Un'ansa restia languiva in disparte, accarezzata dai rami di un salice, invitante come un abbraccio materno, fresca come una brezza di primavera.
Acque limpide mi sorridevano, brillanti di riflessi d’oro e argento dei minuti cristalli sul suo fondo.
Nessuna voce, non uomo o altro essere vivente turbava la quiete e l’orizzonte, e mi spogliai delle mie vesti, appoggiandole con cure sulla riva umida e fragrante. Mi accostai alla corrente e, nuda, mi tuffai.
Nuotai giocando con i flutti, risalendo il flusso e lasciandomi trasportare come ramo di giunco, assecondando i capricci delle acque. Schizzai d’intorno con le mani il limpido fluido e risi ai riflessi di arcobaleno sollevati dai miei giochi.
Ma mentre nuotavo mi giunse dalla profondità del gorgo un mormorio indistinto che mi terrorizzò e mi costrinse a scappare sul margine più vicino del fiume. I miei vestiti rimasero sulla sponda opposta e con le mani mi cinsi il seno e il pube, mentre un borbottio prendeva forma dalle profondità dei flutti.
Era Alfeo che con la sua voce roca mi aveva domandato per ben due volte “Dove scappi Aretusa?”
Io presi la fuga, nuda come mi trovavo, senza preoccuparmi più di coprirmi, correndo e saltando con quanta più velocità mi consentissero le mie membra.
Ma il flusso d’acqua assunse forme umane e prese ad inseguirmi in terre asciutte.
E quanto più scappavo e tanto più egli si mise a incalzarmi nell'impeto della passione.
“Fermati Aretusa! Il mio intento è onesto!” Mi urlava Alfeo quando si avvicinava, ma io mai gli credetti e più forte scappavo.
Io non cedevo, ma quello mai arretrava, e se egli non riusciva a raggiungermi, nello stesso modo io non riuscivo a distanziarlo. Riuscii a raggiungere Orcomeno, Psofide, il Cilene, le valli del Menalo, il gelido Erimendo e l'Elide senza farmi battere da lui, ma le mie forze non erano all'altezza di sostenere il ritmo di un dio. Scappai per giorni e giorni ma alla fine della lunga corsa, stremata dalla fatica gridai: “mi prende, aiuto! Vieni in soccorso, o Artèmide, della tua scudiera!”
La dea dall’alto delle nubi si commosse e da un gruppo di densi nembi ne scelse uno e me lo gettò addosso. Rapita nelle fitte nebbie rimasi sola e senza voce. Immobile e silenziosa a spiar i movimenti del nemico.
Il fiume si guardò intorno e per ben due volte aggirò la nuvola che mi avvolgeva, non sapendo che io fossi lì. Ma egli non se ne andava; annusando l’aria, lambendo la coltre di vapori, fissava intorno alle nebbie cercando di trafiggerne lo spessore; mi cantava del suo amore e del suo desiderio di avermi in moglie e non lasciava più quel posto in cui, tremando come foglia, immobile e invisibile aspettavo la mia sorte.
Sentendomi assediata, un sudore freddo mi coprì le membra; condense di vapore si scioglievano sulla mia pelle e gocce azzurre stillavano giù da tutto il mio corpo; rugiada mi fluiva dai capelli e, ora dopo ora, mi trasformai in sorgente.
Il fiume mi riconobbe pur sotto forma d'acqua, io, l'amata, e per lungo tempo inseguita e ricercata, e, deposto l'aspetto umano che aveva assunto, si convertì nelle consuete onde per congiungersi a me. La dea mia protettrice il suolo squarciò, allora, ed io mi immersi nelle buie caverne per giunger sino a Ortigia. Protetta tra le rocce dell’umida spelonca, di lontano miro Alfeo congiunto al mare. Egli non perde la speranza né l’ardore, ed io rimango qui nascosta e affranta.
E ancora riposo come fonte tra le profondità delle rocce, in confuso desìo di riprender le mie forme e le mie corse e di servire la mia dea nelle sue cacce.
Agito le mie membra muovendo le correnti e i muschi mi fanno da vestito. I papiri mi coprono dal sole e come lenta canzone scivolo ancora verso il mare.”
Rimango stupefatta per il racconto che si è condensato nella mia mente, per le parole che realmente ho percepito e che, senza ombra di dubbio, provenivano dalla sorgente. Non c'è anima viva nelle mie vicinanze. Solo qualche turista si affaccia dalla ringhiera in ferro battuto a spiare tra i rami di papiro il lento moto delle acque, mentre la maggior parte rivolge la schiena alla fonte. L'attrazione di bar, ristoranti e negozi di alimentari è più forte per la gente consueta, ma questo non vale per me.
Non so se tutti siano in grado di percepire questo lamento o se solo chi dispone il suo animo in ricerca può cogliere questo messaggio.
Probabilmente sono semplicemente in preda a fenomeni allucinatori in questa sera in cui mi sento un po' sola e triste, ma decido di avvicinarmi al cancello, chiuso a quest'ora, dei giardini di fianco alla tonda fonte. Approfitto dell'oscurità e scavalco le inferriate. Di là sono al buio; protetta dalle piante e dalle ombre delle mura mi spoglio dei vestiti e mi avvicino alla fonte e, quando penso che nessuno più si stia interessando delle acque in cui si è tramutata l'antica ninfa...
“Mamma! Una ragazza nuda si è tuffata nell'acqua!”
“Ma che dici, Totò?”
“Ma sì, guarda anche tu, è nuotata sott'acqua!”
La madre si avvicina al parapetto, ma non vede nulla di quanto annunciato dal bambino.
“Cosa dici, Totò? Quelle alghe verdi? Dici che quella è la ragazza che si è tuffata? Ma vieni qui, amore 'emmamma!”
“Ma no, c'era davvero!” Insiste il marmocchio.
Interviene il padre: “Ma che succede?”
“Totò ha letto la storia della fonte, ha guardato le alghe e ci ha visto la metafora della ninfa che si era trasformata da donna ad acqua.” La mamma è entusiasta del suo pargolo.
“Davvero hai visto questo?” Il padre, che non ha letto la storia, si avvicina al bimbo.
“No, babbo, io ci ho visto una ragazza nuda che si tuffava!”
“Non è un amore?” Insiste la madre.
“È ora di rientrare.” Conclude il padre.
Il contatto con l'acqua non è stato traumatico. Mi aspettavo uno schiaffo gelido e invece, a sorpresa, mi sono ritrovata in un fluido tiepido. Mi è venuto spontaneo pensare che questa fosse una fonte termale e ciò giustifica la presenza dei papiri; strano, però, che non ci fosse scritto nulla nel cartello indicatore. Tutto questo in un solo attimo di pensieri concitati.
Nuoto sott'acqua, ma non so neanch'io più dove andare e che razza di pazzia mi ha colto.
Scorgo sul fondo una specie di luminescenza, forse il riflesso dei faretti che illuminano dall'esterno.
Ma quando sento che la mia scorta d'aria sta per finire, mi rendo conto della stupidità della mia iniziativa e mi giro con un colpo di fianchi per tornare in superficie. Spero che non ci sia nessuno a vedermi.
Ma proprio ora percepisco, vivida e forte, la stessa voce di prima, e questa non può essere un'allucinazione.
“Chi dunque sei, che in quest'acque t'inoltri?
Non fu permesso, ad alcun vivente,
Abbatter muri e sfidare le coltri.
Destar la ninfa che giace dormiente!”
“Io sono Yuko.”
E mi stupisco di udire la mia voce, qui sotto il livello dell'acqua. Eppure, senza essere riemersa, mi trovo ora su una spiaggia di sabbia dorata, asciutta e calda, e sembra di scorgere i raggi di un sole estivo di metà pomeriggio, anche se sono perfettamente sicura che in questo momento sia notte.
Respiro perfettamente e ho anche la lucidità mentale di capire che non posso trovarmi in un sogno.
La voce che ho udito è sicuramente quella di una donna. Il tono categorico, la minaccia implicita, mi bloccano ogni iniziativa e cresce in me il timore di aver violato un santuario in cui non mi era permesso entrare.
“Se ho sbagliato, chiedo scusa. Non sapevo che fosse vietato fare il bagno. Sa, vengo da un lontano paese e non so leggere l'italiano.” Butto lì una scusa che forse sarebbe stata credibile, se avessi pronunciato parole in giapponese o anche in inglese piuttosto che un fluente italiano con accento del nord. Che ci sia una vigilessa a controllare la fonte? E com'è che il personale amministrativo di Siracusa interroga i turisti con endecasillabi a rima alternata?
“Passa, tu, dunque, che vien da lontano
e parla a me, che'l mio nome è Aretusa,
perchè non sia che'l tuo tuffo sia vano
e tu non scappi, cercando una scusa.”
'Oddio', penso tra me e me, 'questa volta, Yuko, l'hai fatta grossa! Che ti è venuto in mente di risvegliare una musa che dormiva racchiusa in una leggenda? E mo' che farai?'
“Perdon ti chiedo, davver non sapìa
che in fonde acque stè sua signoria...”
Azzardo, ma non mi riesce proprio di rispettare rime e metrica e rischio solo di far casino e sembrare offensiva o oltraggiosa con queste parole inappropriate.
Ma di fronte a me, poco distante, prende forma una figura femminile e che cammina lentamente nella mia direzione. Sembra quasi che fluttui a mezz'aria, sfiorando la superficie della rena senza lasciare impronte. Comincio a pensare di essermi davvero cacciata nei guai e mi guardo intorno per cercare le acque, sperando che, rituffandomi, possa riemergere nella fonte dell'isola di Ortigia, dove incautamente mi sono immersa.
Il volto della donna è giovane e sorridente e, forzando la ragione, devo convincermi che, se davvero questa è Aretusa, la ninfa dell'antica Grecia, cristallizzata nella leggenda si è mantenuta giovane come ai tempi della sua fuga dal fiume Alfeo. Davvero è molto bella e, ancora, è nuda come allora.
Mi ricorda un po' la Venere di Botticelli, i capelli sono ondulati e dello stesso colore di un biondo rossastro, come il grano maturo, ma sono più corti, e la divinità non può coprirsi il pube con essi.
Si copre però seno e inguine con le mani, ma quando vede che sono sola e anch'io nuda, lascia cadere le braccia e mi si avvicina senza vergogna, esponendo le sue forme e il biondo vello tra le sue cosce.
Incede verso di me sorridente e aggraziata e negli ultimi metri si mette a correre. Il seno le ondeggia e i capelli, che le arrivano sulle spalle, rilucono di riflessi del colore dell'oro vecchio.
Tutt'altra figura rispetto alle statue greche e romane e tantomeno le stampe antiche. Questa ragazza è snella e atletica, come doveva in effetti essere nella tradizione di giovane invincibile nella corsa. Solo che l'iconografia antica l'ha sempre presentata secondo i canoni estetici di quei tempi, un po' debordante e con quelle odiose pettinature giunoniche. Il suo aspetto è completamente differente, asciutta e tonica, un seno adeguato, ma neanche troppo piccolo.
Mi chiama e questa volta la voce non è più diffusa e incombente, né il tono non è più minaccioso, ma dolce e invitante. In me cresce la convinzione di trovarmi in un sogno, sebbene molto vivido.
La sensazione, a prescindere dai fatti, è che questa ragazza, prigioniera di una leggenda, non sia mai stata visitata da alcun essere umano e che nessuno abbia mai dato credito alle fantasie di poeti e scrittori antichi, e pertanto non sia mai stato preso in considerazione la possibilità di salvarla dall'eterno destino cui è stata condannata.
Ma quella che vedo, comunque, è una ragazza, e non una sorgente d'acqua.
Mi si avvicina e mi tende le mani. Di fronte alla sua nudità, rinuncio a coprire la mia. Lei mi sorride, sembra che stia rivedendo un volto noto e gli occhi sono eccitati. Forse realmente io rappresento un'inaspettata novità. Mi porge le braccia e io allungo le mie, lei mi prende per le dita e resta a guardarmi. Intuisco che la sua sorpresa si grande almeno quanto la mia, e che non sappia come proseguire o intavolare un discorso.
“Io ho percepito, il tuo nome è Yuko.
Fosti la prima a bagnar la tua fronte
D'umana sembianza io mi riduco
Per ti parlare, lasciando la fonte”
“Ma davvero tu sei Aretusa? Io non riesco a capacitarmi, mi credi?” Prendo io l'iniziativa. “Io ho solo letto della tua leggenda, sono rimasta ad ammirare la sorgente che ribolliva placida e tranquilla, e vi ho visto i movimenti e lo spirito della ragazza che in essa vi stava racchiusa, eppure, mai e poi mai avrei detto...”
Ma lei mi interrompe. Mi stringe forte le mani e colgo in questo gesto la sua profonda emozione e pure la realtà concreta e carnale della sua presenza.
“Sono Aretusa, davvero, la ninfa,
Qui prigioniera da tempo perduto.
Io ancora aspetto riaver la mia linfa,
Volgere il fato, ch'io non ho voluto.
Qui son scappata, inseguita dal fiume
cui nome è Alfeo, finchè la mia diva
non mi mandasse ragazza d'acume
per liberarmi, seppure tardiva.
Ora che Diana, s'è volta e ha concesso,
spero riaver la mia forma di donna
che questo sogno sia dunque permesso
perchè io lasci del marmo colonna.”
Non so come faccia a parlare così spedita snocciolando versi e rime, ma credo che alluda a lasciare per sempre la forma scolpita in questa specie di tempo costruito intorno alla sorgente. Noto che la ninfa ha cambiato il nome della sua protettrice da Artèmide in Diana; ne sono passati di secoli, da quel dì, e sorrido di tanta modernizzazione della mia nuova amica.
Le mie risposte sono lente e ponderate. Il suo parlare aulico e antico necessita di una riconversione nella mia mente. Ma, lasciando perdere ogni reazione di razionalizzazione, decido di vivere fino in fondo questa avventura. E se si sarà trattato di un sogno lucido, pazienza, sarà stato un magnifico sogno!
Alcuni tratti sono ispirati e modificati da ‘Arethusa et Alpheus’ (Ovidio, Metamorfosi Libro V)
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