Lucrezia

di
genere
dominazione

Soddisfacente, un lavoro soddisfacente. Il ritmico frangersi delle onde e il leggero fruscio di scirocco penetrano con la fioca luce dell’alba nel seminterrato della villa a pochi metri dal mare. L’anello d’acciaio è saldamente fissato alla grossa trave di legno del soffitto. Ho faticato a trovare un anello del diametro giusto, ma alla fine ce l’ho fatta.
Lo sguardo scorre lungo la robusta cima nera che attraversa l’anello, luccicante nel debole chiarore delle candele. Un nodo ne lega saldamente un capo al pavimento, l’altro sorregge e imprigiona i polsi della ragazza.
Nuda, sudata, i capelli biondi incollati alla testa e al collo, gli occhi semichiusi, sembra quasi incosciente ma non lo è. Lei resiste, anche se è ormai lungo il tempo trascorso in quella posizione obbligata e scomoda. I piedi poggiano a terra solo per la punta degli alluci per impedire un qualsiasi rilassamento. E questo voglio, che lei sia in continua tensione, in continua attesa di quanto può accadere.
Tutto è stato ben calcolato: la lunghezza della cima, il suo materiale, la luce che illumina solo quel corpo nudo; che lentamente ruota su sè stesso. Una danza di piacere e violento desiderio. Sul viso della giovane donna l’ombra di un sorriso rivela il piacere che l’ha travolta e che ancora la possiede.
Su glutei e schiena i lunghi graffi rossi dei colpi di frusta. Il pube nudo e glabro è lucido d’umori che irrorano la pelle e che lentamente si perdono all’interno delle cosce. I piccoli seni mostrano i segni dei denti e le tracce di saliva che si stanno asciugando nel suo calore.
Per terra, sotto e vicino ai suoi piedi, tracce di liquidi biologici di diversa natura. Nella stanza, ora immersa nel silenzio, risuonano ancora, come echi lontani, i gemiti di dolore che si sono mescolati al piacere montante. Il lussurioso godere che ha accumunato i due soggetti nel gioco di sottomesso e padrone.
Poi, improvvisa, la ragazza spalanca gli occhi, un lampo azzurro di cielo d’estate. Mi guarda, sorride, forse complice, le labbra sillabano in silenzio una sola frase “Ancora, per favore”.
Lucrezia, il suo nome.
Così l'aveva chiamata una signora elegante e matura cui lei aveva risposto con voce annoiata. La madre, probabilmente.
Alta, oltre il metro e settanta. Magra, quasi troppo. Due interminabili gambe nervose e due piccoli seni coronati da capezzoli chiari che subito viene voglia di stringere tra le dita, con forza. Di mordere, per strapparle un gemito di sorpreso dolore. Un corpo quasi nudo che riporta la mente ad anni lontani, ad esperienze passate e chiuse in un cassetto segreto.

Lucrezia ha 24 anni, un fidanzato storico, che la trascura scopandola con indolente solerzia e poca fantasia nei giorni canonici in cui non insegue il lavoro, e una serie di corteggiatori che hanno il solo obbiettivo di portarsela a letto; di usarne il corpo, di godere e violare quella liscia pelle di seta.

L’ho vista la prima volta in spiaggia, in quel paradiso che è la costa orientale sarda. Un pomeriggio di luglio, l’anno scorso. La sabbia rovente, il sole accecante, il mare silente e immoto.

Lei era sdraiata supina su un morbido telo-spugna, vestita di acqua di mare, di sole, di luce e di un minuscolo tanga bianco che si nascondeva in mezzo alle cosce. Si lasciava accarezzare dai tiepidi refoli dello scirocco e, non meno, dagli sguardi affamati di maschi maturi, che fingevano l'attenta lettura dei quotidiani, o di giovani donne che sonnecchiavano pigre con gli occhi socchiusi.

Non si poteva non guardare lascivi quel corpo quasi nudo, dal capo incendiato dai corti e biondi capelli fino ai piccoli e magri piedi con le unghie laccate. Il profilo del viso, la fronte alta e il naso diritto, due labbra piene che si schiudevano su una candida chiostra di denti al ritmo della musica sparata nelle orecchie dalle cuffiette. Il lungo e morbido collo, da leccare e mordere con ardita violenza, si perdeva nel magro torace su cui riposavano due piccole meraviglie coronate dai capezzoli chiari ed eretti.

Gli occhi si riempivano di incantata sorpresa correndo sul ventre retratto. Precipitavano nel piccolo ombelico per poi scivolare sulla glabra collina e finire la corsa sul minimale tanga bianco che, bagnato, rivelava più che nascondere la dolce fessura contornata da due morbide e gonfie labbra. Vederla e desiderarla è stata una cosa sola. Così sentire il calore salire in mezzo alle cosce e i capezzoli ergersi sotto la stoffa umida del costume.

Da quel giorno l’ho guardata senza nascondermi. Un sorriso, un cenno del capo, un “ciao” a mezza voce, il desiderio nei miei occhi, lo stupore nei suoi.

L’ho seguita con lo sguardo quando correva in mare mulinando le cosce slanciate e nervose e quando ne usciva grondante acqua e sorrisi.
L’ho immaginata con le gambe strette intorno alla testa di un occasionale amante, con le gambe strette intorno alla mia mentre le davo piacere con bocca e lingua, mentre le strappavo lunghi e sonori gemiti di godimento penetrandola con dita nervose.
L’ho sognata ad occhi aperti, abbandonata senza difesa alcuna ai miei desideri più nascosti e inconfessati.
Mia, senza limiti e senza confini di pudore o di convenzioni.
Mia, ubriaca di piacere confuso nel dolore.
Mia, nel fuoco violento che brucia dentro e che non permette fughe.

Finalmente una notte, mentre in solitudine passeggiavo nel buio, ho visto un falò acceso sulla spiaggia. Un gruppo di ragazzi strafatti di alcol, di erba e di voglia di vivere e lei che, ai margini delle fiamme, ballava da sola con un ritmo ipnotico e sensuale, seminuda, vestita di un corto e sottile pareo colorato che dalla cinta scendeva alle ginocchia. Pronta per essere presa, pronta per essere sottomessa a desideri lascivi e violenti, ai miei desideri.

Quando i suoi occhi hanno incrociato i miei il fuoco dentro di me è divampato senza più argini a contenerlo. Incontrollabile desiderio. Le ho preso con forza la mano. Lei è venuta con me, come se mi aspettasse da sempre, come se sapesse che sarebbe successo.
In una caletta poco distante, stretta tra due ali di scogli, le ho strappato di dosso quel poco che la copriva. Illuminato dalla luce della luna, quel corpo è stato mio per la prima volta, sottomesso alle mie voglie, schiavo della mia bocca e delle mie mani.

Ho finalmente divorato quei piccoli seni, stretto tra i denti i chiari capezzoli già turgidi, frugato con la lingua in quel frutto acerbo eppure già maturo e sapido di umori di femmina. Ho assaporato e sorpreso il doloroso piacere che le veniva dai miei gesti, dai morsi via via più feroci, dalle dita via via più profonde, e ho capito che lei voleva essere come io la volevo.
Nel gioco segreto che non è gioco e che si nasconde nel buio di molti.
Lei era pronta a sottomettersi a me.
Lei era pronta alla cieca obbedienza.
Lei era pronta a soddisfare la mia eccitazione, a portarla a compimento nel dolore e nel piacere.

Ho afferrato con forza i suoi capelli fino a strapparle un gemito. L’ho costretta con la bocca sul mio sesso caldo e offerto alla sua lingua. Poi ho tolto la mano che la guidava e l’ho guardata mentre obbediva senza costrizione alcuna e con frenetica sottomissione. Ho allontanato la sua bocca subito prima di esploderle dentro, poi l’ho spinta sulla sabbia tiepida della notte. Io sopra di lei, i piccoli seni nelle mie mani, i capezzoli chiari ed eretti stretti tra le mie dita fino al suo primo, piccolo grido di dolore. Uno schiaffo forte sulla guancia, un altro ancora, poi un altro mentre le sussurravo “Ti piace vero, piccola troia? Tu sai ora chi sono.. tu sei mia!”

Ho raccolto con la lingua il sapore dolce e salato delle sue prime lacrime di doloroso godimento. Poi ho percorso con le labbra e con i denti quel corpo ardente di voglia, dalla gola alla figa calda e piena di miele odoroso. La puttana stava godendo, le piaceva il gioco che gioco non è. Il gioco tra padrone e schiavo, dolore e piacere, piacere e dolore.

Dopo quella notte violenta e lussuriosa nella luce lunare, Lucrezia è diventata il mio giocattolo erotico, oggetto vitale e sottomesso.
Il giorno dopo si è presentata in spiaggia nella tarda mattinata. L’aspettavo. Una t-shirt lunga fino a metà coscia a coprire i segni che i miei denti e le mie unghie avevano lasciato sulla pelle abbronzata.
Mi hanno fatto sorridere ed eccitare tutte le sue scuse per rimanere coperta, arrivando persino a entrare in acqua con quella maglietta bianca che, bagnata, aderiva a lei come una seconda pelle mostrando quei seni che erano miei e che lo sarebbero stati ancora e ancora.

Con gli occhi nascosti dagli occhiali da sole non l’ho più lasciata, immaginandone il possesso, sapendo che l’avrei avuta nuda e sottomessa al mio incontrastato dominio. Lei era intimorita e al tempo stesso eccitata, pienamente consapevole di essere mia. Mio il suo corpo e mio il cervello. Me lo dicevano le morbide labbra tremanti che spesso tormentava chiudendole tra i candidi denti, me lo dicevano i grandi occhi intimoriti che, di nascosto, cercavano i miei, me lo dicevano i suoi capezzoli che spingevano come piccoli chiodi sotto il leggero tessuto e che danzavano ad ogni suo movimento.

Non era la prima a essere schiava dei miei inconfessati vizi, non sarebbe stata l’ultima. Tutte giovani, tutte consapevoli di quello che io rappresentavo per loro: il dominio totale dei loro sensi e della loro volontà.

Nelle notti a seguire, Lucrezia si presentava alla mia porta che trovava socchiusa, entrava e la richiudeva obbediente come le avevo ordinato. Lasciava i vestiti vicino all’ingresso e nuda veniva a me che già senza alcun indumento l’aspettavo con desiderio feroce.
La camera in penombra, quasi buia, illuminata da una serie di profumate candele. Si inginocchiava ai miei piedi e mi soddisfaceva con la lingua e la bocca. Gli occhi fissi nei miei, senza distoglierli un solo secondo, senza chiuderli nemmeno quando sentiva le gocce di cera bollente cadere sulla schiena nuda dalla candela che reggevo in mano.

Non poteva distogliere lo sguardo da me, sapeva che la punizione sarebbe arrivata immediata con mio sommo piacere. In verità speravo che chiudesse gli occhi per tacitare le sue emozioni, per nascondere a me quel dolore strisciante e continuo che era fonte di nascente godimento per lei.

Sentivo il suo dolore che lentamente diventava piacere ad ogni goccia che cadeva sulla pelle, lo vedevo dai movimenti delle labbra, dai moti sempre più frenetici della sua lingua che, inarrestabili, mi portavano sempre più vicino al delirio dei sensi. A volte la spingevo a terra, supina, e la cera continuava a cadere lenta e incessante. Dolce lussuria del dominio e desiderata tortura. Con la candela disegnavo i confini del suo ventre nudo, salivo con voluta lentezza al torace, ai piccoli seni, ai capezzoli eccitati.

Godevo dei suoi tremori, mi eccitavo ai suoi gemiti rauchi, mi spingevo sempre più in là verso confini già varcati con altri e passati strumenti erotici, ma ancora inesplorati con lei. L’avrei offerta ad altri cultori del rito, ma non ora, a tempo debito. Lucrezia ora era solo mia. Il suo dolore era il mio piacere.

Grande e sempre nuovo era il godimento che mi dava il vederla obbedire a ogni ordine, vedere il suo corpo inarcarsi a ogni nuovo stimolo, vedere la sua pelle coperta da un velo di sudore, vedere le labbra gonfie della sua figa lucenti di copiosi e odorosi umori. Estasiante era sorprendere quanto le sofferenze che le infliggevo fossero fonte di piacere anche per lei: una giovane donna oggetto del desiderio di molti ma ora solo mia. Mia schiava.

Notte dopo notte, nuove esperienze per lei, nuovi eccitanti momenti di culmine erotico per me. Un grosso plug nero a violare lo sfintere anale, una benda sugli occhi per celare al suo sguardo improvvisi e sconosciuti momenti di dominazione e sottomissione. Un oggetto vibrante al mio comando per deliziarmi dei suoi incontrollabili orgasmi. Due morsetti di lucido acciaio a serrare quei dolci capezzoli.
Fino a stanotte, fino all’anello che regge la cima di morbida seta nera.
Il corpo nudo gira lentamente su sé stesso, le braccia distese verso l’anello fissato alla trave, i piedi a sfiorare il pavimento. Finalmente slaccio il nodo che fissa la fune, lascio che Lucrezia scivoli a terra. Ansante e bellissima, eccitanti striature di rosso acceso sulla schiena, sui glutei, sull’addome.

Al culmine dell’eccitazione, che quasi già mi travolge, siedo sulla poltrona di pelle nera, unico e solo oggetto che arreda l’ambiente. Aspetto che lei alzi il viso verso di me, basta poco, un solo gesto della mano perché lei capisca. Il bagliore dei suoi occhi azzurri si fa strada tra i capelli incollati sul viso. Striscia sul pavimento verso di me, verso le cosce che apro per la sua bocca e la sua lingua.

Io sono la Signora, la sua Domina.

scritto il
2024-06-25
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