Educazione di una bionda
di
Anonima1981
genere
dominazione
Non dirò come mi chiamo e nemmeno il nome della piccola cittadina in provincia di Milano dove vivo. Dirò solo quello che potete sapere.
Poco più di 40 anni, sposata, due figli adolescenti. Piacevole alla vista e curiosa, molto, della vita e dei suoi risvolti. Benestante e, forse, con troppo tempo libero.
Oggi sto andando in una multisala di Milano, al braccio di un uomo di cui conosco solo il nome (sempre che sia quello vero) e il nickname che usa sul blog dove l’ho conosciuto. Sono passati sei mesi da quel pomeriggio (lo ricordo, era un giovedì), in cui leggendo un racconto ricco di erotismo e sensualità ho trovato un commento che mi ha incuriosito e affascinato. Un commento succinto che rivelava intelligenza e forte carattere. Il carattere e l’intelligenza mi hanno sempre attratto molto di più della bellezza fisica in un uomo.
Ho cercato altri commenti del medesimo autore e poi, come se fosse destino, ho trovato un indirizzo e-mail. Ho lasciato passare altri giorni, incerta se scrivergli o meno. L’ansia e l’eccitazione per un nuovo gioco mi hanno portato, come nel mio intimo sapevo fin dall’inizio, a creare una e-mail nuova e segreta. E poi gli ho scritto, sperando e temendo.
Ha risposto.
Da quella prima risposta sono nati la mia dannazione e il mio paradiso. Alla prima mail ne sono seguite molte altre, quotidiane, spesso anche più di una al giorno. Mail dopo mail quell’uomo sconosciuto rivelava doti di seduzione fuori del comune, una raffinatezza di pensiero e una sicurezza di modi che mi affascinavano ogni giorno un poco di più. La sua scrittura era sicura ed emozionante, la mia timida e incerta. Lui faceva domande, io rispondevo vedendo cadere una a una le mie difese e le mie barriere.
Chiedeva di me, della mia vita, con domande che, giorno per giorno, si facevano sempre più intime. Ero in pena se al mattino non trovavo una sua mail, mi angosciavo se non rispondeva subito a una mia. Dopo un mese, in cui avevo rivelato molto di me e della mia vita, senza nascondere nulla, senza mentire su nulla per la finta sicurezza garantita da una mail segreta, mi ha chiesto una fotografia. Gli ho detto di no e lui è scomparso.
Leggevo i suoi quotidiani commenti sul blog ma non erano mai rivolti a me, non più rivolti a me, per me era scomparso. Gli scrivevo tutti i giorni… una, due, tre, quattro volte. Poche parole o fiumi di frasi che rivelavano l’ansia che mi pervadeva. “Dove sei, cosa fai? Perché non rispondi?”
Poi dopo alcuni giorni ho ceduto. Sapevo di dover cedere, non potevo più sottrarmi alla sua richiesta. La mia mente, la mia anima aveva bisogno di lui. Ho scelto tra tante una fotografia, una delle più recenti, a figura intera, un’immagine che sembrava valorizzarmi più di altre. Come un’adolescente volevo far bella figura con lui, fargli vedere che ero bella nonostante gli anni. I capelli biondi sciolti sulle spalle, una gonna corta sopra il ginocchio, una camicetta con un colletto severo ma che rivelava l’eleganza del collo e così aderente da non celare la pienezza del seno.
Con il cuore in tumulto e il dito tremante ho premuto il pulsante di invio. Un numero di telefono è stata la risposta, non altro.
Ho aspettato ancora due giorni, pur sapendo che avrei ceduto di nuovo. Che non potevo sottrarmi al suo implicito ordine. Ho nascosto il numero del mio telefono e ho digitato il suo. Una voce forte, sicura, seducente al pari, e forse ancora di più, della scrittura. “Chi parla?” Quando ho detto chi ero mi ha interrotta chiedendo perché avessi nascosto il numero. Poi, dopo un breve istante, ha chiuso la telefonata.
Sono rimasta sola, in silenzio, con il telefono che mi dava il segnale della chiamata interrotta. Ancora una volta ho capito che mi aveva dato un ordine e che avrei obbedito, anche sapendo che, così facendo, avrei sceso altri gradini di quella scala che non sapevo dove portava. Ma quella voce, la sua, aveva imprigionato ancora di più la mente, l’anima e forse il mio cuore
Ho richiamato dopo un’ora, con il numero in chiaro. Ha risposto subito, sapeva benissimo che ero io. Siamo stati a parlare per diversi minuti, io sempre più sedotta dalla sua voce.
Dopo una settimana l’ho incontrato in un caffè del centro di Milano. Non ha nemmeno dovuto insistere. Mi ha detto semplicemente “Ci vediamo martedì mattina alle 10” e mi ha detto dove.
Sono arrivata in anticipo con l’emozione che mi chiudeva la gola. Era la prima volta che incontravo un uomo conosciuto sul web. Quando l’ho visto entrare, in leggero ritardo, ho capito che ero perduta. Alto, robusto, capelli scuri con un taglio curato, due occhi azzurri da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo. Una mano forte e calda quando ha preso la mia. Subito sono diventata prigioniera felice di quegli occhi e della sua voce, non ricordo quanto tempo è passato.
Lui mi parlava e quella voce era incanto di musica morbida e potente. Lui mi guardava e quegli occhi erano fari di ipnotico azzurro. Lui mi accarezzava la mano e quella carezza era atteso segno di attenzione per una donna lasciata sola in sentieri oscuri e deserti. Dopo pochi minuti, in quel bar, tra gente che entrava e usciva, ero già sua, anima e corpo, caduta come un vecchio fragile muro.
Più tardi, con la sua auto che sapeva di lui, mi ha accompagnato a riprendere il treno. Nel salutarmi le labbra erano calde, la lingua è subito diventata padrona della mia, la mano si è chiusa sul seno che ha stretto con forza, facendomi sfuggire un lamento che era piacere, desiderio di abbandonarmi a lui.
Nei giorni seguenti nuove richieste, nuove domande. Telefonate in orari che sapeva sicuri per me, brevi sms (“Cosa fai?” “Indossi quei pantaloni che mi piacciono? No? Valli a mettere”), più dettagliati whatsapp (”Voglio che ti tolga il reggiseno e stia così tutto il giorno”, “Oggi niente slip sotto i jeans”). Una foto del viso, una più intima, il seno nudo a viso coperto e poi, dopo due giorni, di nuovo un nudo a viso in chiaro, in un continuo crescendo di richieste. Ho sempre risposto, obbedendo via via con minori resistenze, ben sapendo di essere ormai incapace di dire di no. Il premio era la sua attenzione, il castigo la sua scomparsa.
Nel corso di quel terribile, eccitante, inarrestabile stillicidio di richieste e domande ho capito che non potevo più fare a meno di lui, della sua attenzione, della sua cura. Mi era indispensabile come l’aria o l’acqua. Se chiudevo gli occhi vedevo i suoi fissi nei miei, sentivo nelle orecchie la sua voce che mi dava pace e tormento, desiderio di compiacerlo e voglia di fuggire lontano, pur sapendo che lui poteva fare a meno di me ma non io di lui, ormai.
Finalmente mi ha dato un nuovo appuntamento, mi sarei messa a piangere per la felicità. L’avrei visto di nuovo. L’ho incontrato davanti a un piccolo albergo di periferia, dove lui era già conosciuto. Lì, in quella camera che rimandava i suoni ovattati della strada sono diventata per la prima volta il suo giocattolo di carne e sangue. “Spogliati!” mi ha ordinato mentre se ne stava seduto su una poltroncina in un angolo.
“Mi vergogno. Non l’ho mai fatto!” gli ho detto con un filo di voce e gli occhi chiusi per la vergogna.
“Non ti ho chiesto se l’hai mai fatto. Ti ho detto di spogliarti. Ora, subito” mi ha ordinato di nuovo con quella voce e quello sguardo che sapevano punire e premiare, come avrei presto imparato.
Con lo sguardo fisso a terra mi sono tolta i pochi indumenti che indossavo sotto il cappotto. Un golfino leggero, la camicia bianca, i jeans, i collant. “Non metterai mai più i collant! Voglio le gambe nude o al massimo indossa un paio di autoreggenti”. Sono rimasta vestita solo del mio intimo bianco, quello che nel mio inconscio avevo scelto per lui, per farmi vedere così. La vergogna lasciava lenta il campo alla crescente eccitazione.
Non bastava. “Ti ho detto di spogliarti” questa volta con voce più dura e occhi che bruciavano i miei.
Mi sono tolta il reggiseno e il piccolo slip di pizzo che avevo scelto con emozione quella mattina. E sono rimasta così, nuda, i capelli sciolti sulle spalle. Immobile, a capo chino davanti a lui, aspettando una parola, un commento, un premio. Mi sentivo bella e brutta, pensavo ai miei difetti, ai pregi del mio corpo nudo. Ai commenti anche volgari che a volte avevo sentito rivolgermi per strada da qualche sconosciuto. Ora volevo essere guardata, senza vergogna, in piena luce.
“Girati” è stato il solo commento. E mi sono girata come fossi un manichino di carne. Ero nelle sue mani, totalmente. Ma non avevo alcun timore, sapevo che mi voleva e che quest’uomo sconosciuto si sarebbe in qualche modo, nel suo modo, preso cura di me, mi avrebbe protetta e mi avrebbe dato un amore nuovo, a me ignoto ma da sempre cercato senza saperlo.
Quella prima volta, dopo che gli ho rivelato la mia nudità emozionata e indifesa, mi ha ordinato di stendermi sul letto. Si è spogliato con calma guardando i miei occhi fissi nei suoi. Il suo pene era eretto, bello, svettava trionfante in mezzo al folto nero pelo del pube, il glande già lucido. Sapevo di volerlo ma ne avevo paura.
Nudo, si è steso sul letto al mio fianco. Mi ha preso la mano e l’ha portata sul cazzo. “Fai quello che sai” mi ha ordinato mentre con la mano percorreva il mio corpo accarezzando, stringendo, dando dolore e piacere alle labbra, al collo, al seno, ai capezzoli stretti tra le sue dita. Estasi e già tormento.
Senza osare guardarlo negli occhi lo masturbavo aspettando che la sua mano raggiungesse la mia intimità già irrorata da copiosi umori. Immagini improvvise e indesiderate nella mia mente. Scacciavo con furia i volti e le voci di mio marito e dei figli mentre nuda su un letto disfatto mi abbandonavo ai comandi di uno sconosciuto.
“Più veloce. Da quanto non tieni in mano un cazzo diverso da quello di tuo marito? Sai fare di meglio, lo so!” mi ha ordinato con durezza. Poi, improvvisa, la penetrazione, con un dito, poi due, mentre il pollice sfregava con dolce violenza il clitoride eretto. Ho reso più veloce la masturbazione, dalle pulsazioni del membro e dal ritmo del suo respiro ho capito che gli piaceva, che stavo andando bene, che gli davo quello che voleva.
Brividi che portavano al nascente piacere, umori che colavano caldi e copiosi tra le cosce spalancate senza pudore. Il grande specchio posizionato sulla parete di fronte al letto rimandava un’immagine oscena e lasciva. Sentivo il crescente contrarsi del ventre, il respiro accelerato e frequente, i gemiti incontrollati, il sudore che copriva la pelle, la schiena che si inarcava offrendo impudica il sesso bagnato alla mano invadente e padrona.
Ero pronta. Ma lui no, non voleva che io godessi, non ancora.
“Non hai capito! Tu non puoi godere, lo potrai fare quando ti darò il permesso!”
Mi ha lasciata vuota, sospesa, tremante, impaurita dalla sua reazione. Ho sentito di nuovo la mano che scivolava lungo il mio ventre, l’addome, il torace, per serrarsi con forza sul piccolo monte del seno. Le dita si sono strette sul capezzolo strappandomi un grido. Poi lui si è chinato sull’altro seno mordendo il capezzolo e dandomi nuovo dolore.
I miei occhi hanno liberato le lacrime trattenute, la sua lingua le ha subito asciugate.
“Tu devi capire che ora sei mia, la mia ragazza obbediente, che farai di tutto per darmi piacere, che imparerai a farlo nei modi e nei tempi che voglio, a prevenire i miei desideri. E da questo nascerà il tuo piacere”.
Poi si è alzato, mi ha preso per i capelli con forza, mi ha fatto inginocchiare davanti al suo cazzo teso, al suo glande nudo e umido.
In silenzio ho capito e ho preso ad accarezzare con la lingua il suo membro, a prenderlo in bocca fin quasi a soffocare, a percorrere con denti delicati tutta l’asta, a imparare a conoscerne confini e sapore, fino a farlo esplodere nella mia gola. Non ho sprecato nemmeno una goccia del suo piacere, era un regalo troppo prezioso, ho leccato le ultime gocce sul glande ancora pulsante. Poi l’ho guardato negli occhi, lui ha poggiato la mano sulla mia testa “Brava, stai imparando. Ora puoi godere!”
Riconoscente ho portato la mano in mezzo al lago delle mie cosce rimanendo in ginocchio davanti a lui, rimanendo con gli occhi nei suoi. L’orgasmo è arrivato improvviso e potente, mi ha travolto in pochi secondi, lasciandomi stordita come mai mi era successo, rivelandomi il nuovo mondo.
Poco più di 40 anni, sposata, due figli adolescenti. Piacevole alla vista e curiosa, molto, della vita e dei suoi risvolti. Benestante e, forse, con troppo tempo libero.
Oggi sto andando in una multisala di Milano, al braccio di un uomo di cui conosco solo il nome (sempre che sia quello vero) e il nickname che usa sul blog dove l’ho conosciuto. Sono passati sei mesi da quel pomeriggio (lo ricordo, era un giovedì), in cui leggendo un racconto ricco di erotismo e sensualità ho trovato un commento che mi ha incuriosito e affascinato. Un commento succinto che rivelava intelligenza e forte carattere. Il carattere e l’intelligenza mi hanno sempre attratto molto di più della bellezza fisica in un uomo.
Ho cercato altri commenti del medesimo autore e poi, come se fosse destino, ho trovato un indirizzo e-mail. Ho lasciato passare altri giorni, incerta se scrivergli o meno. L’ansia e l’eccitazione per un nuovo gioco mi hanno portato, come nel mio intimo sapevo fin dall’inizio, a creare una e-mail nuova e segreta. E poi gli ho scritto, sperando e temendo.
Ha risposto.
Da quella prima risposta sono nati la mia dannazione e il mio paradiso. Alla prima mail ne sono seguite molte altre, quotidiane, spesso anche più di una al giorno. Mail dopo mail quell’uomo sconosciuto rivelava doti di seduzione fuori del comune, una raffinatezza di pensiero e una sicurezza di modi che mi affascinavano ogni giorno un poco di più. La sua scrittura era sicura ed emozionante, la mia timida e incerta. Lui faceva domande, io rispondevo vedendo cadere una a una le mie difese e le mie barriere.
Chiedeva di me, della mia vita, con domande che, giorno per giorno, si facevano sempre più intime. Ero in pena se al mattino non trovavo una sua mail, mi angosciavo se non rispondeva subito a una mia. Dopo un mese, in cui avevo rivelato molto di me e della mia vita, senza nascondere nulla, senza mentire su nulla per la finta sicurezza garantita da una mail segreta, mi ha chiesto una fotografia. Gli ho detto di no e lui è scomparso.
Leggevo i suoi quotidiani commenti sul blog ma non erano mai rivolti a me, non più rivolti a me, per me era scomparso. Gli scrivevo tutti i giorni… una, due, tre, quattro volte. Poche parole o fiumi di frasi che rivelavano l’ansia che mi pervadeva. “Dove sei, cosa fai? Perché non rispondi?”
Poi dopo alcuni giorni ho ceduto. Sapevo di dover cedere, non potevo più sottrarmi alla sua richiesta. La mia mente, la mia anima aveva bisogno di lui. Ho scelto tra tante una fotografia, una delle più recenti, a figura intera, un’immagine che sembrava valorizzarmi più di altre. Come un’adolescente volevo far bella figura con lui, fargli vedere che ero bella nonostante gli anni. I capelli biondi sciolti sulle spalle, una gonna corta sopra il ginocchio, una camicetta con un colletto severo ma che rivelava l’eleganza del collo e così aderente da non celare la pienezza del seno.
Con il cuore in tumulto e il dito tremante ho premuto il pulsante di invio. Un numero di telefono è stata la risposta, non altro.
Ho aspettato ancora due giorni, pur sapendo che avrei ceduto di nuovo. Che non potevo sottrarmi al suo implicito ordine. Ho nascosto il numero del mio telefono e ho digitato il suo. Una voce forte, sicura, seducente al pari, e forse ancora di più, della scrittura. “Chi parla?” Quando ho detto chi ero mi ha interrotta chiedendo perché avessi nascosto il numero. Poi, dopo un breve istante, ha chiuso la telefonata.
Sono rimasta sola, in silenzio, con il telefono che mi dava il segnale della chiamata interrotta. Ancora una volta ho capito che mi aveva dato un ordine e che avrei obbedito, anche sapendo che, così facendo, avrei sceso altri gradini di quella scala che non sapevo dove portava. Ma quella voce, la sua, aveva imprigionato ancora di più la mente, l’anima e forse il mio cuore
Ho richiamato dopo un’ora, con il numero in chiaro. Ha risposto subito, sapeva benissimo che ero io. Siamo stati a parlare per diversi minuti, io sempre più sedotta dalla sua voce.
Dopo una settimana l’ho incontrato in un caffè del centro di Milano. Non ha nemmeno dovuto insistere. Mi ha detto semplicemente “Ci vediamo martedì mattina alle 10” e mi ha detto dove.
Sono arrivata in anticipo con l’emozione che mi chiudeva la gola. Era la prima volta che incontravo un uomo conosciuto sul web. Quando l’ho visto entrare, in leggero ritardo, ho capito che ero perduta. Alto, robusto, capelli scuri con un taglio curato, due occhi azzurri da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo. Una mano forte e calda quando ha preso la mia. Subito sono diventata prigioniera felice di quegli occhi e della sua voce, non ricordo quanto tempo è passato.
Lui mi parlava e quella voce era incanto di musica morbida e potente. Lui mi guardava e quegli occhi erano fari di ipnotico azzurro. Lui mi accarezzava la mano e quella carezza era atteso segno di attenzione per una donna lasciata sola in sentieri oscuri e deserti. Dopo pochi minuti, in quel bar, tra gente che entrava e usciva, ero già sua, anima e corpo, caduta come un vecchio fragile muro.
Più tardi, con la sua auto che sapeva di lui, mi ha accompagnato a riprendere il treno. Nel salutarmi le labbra erano calde, la lingua è subito diventata padrona della mia, la mano si è chiusa sul seno che ha stretto con forza, facendomi sfuggire un lamento che era piacere, desiderio di abbandonarmi a lui.
Nei giorni seguenti nuove richieste, nuove domande. Telefonate in orari che sapeva sicuri per me, brevi sms (“Cosa fai?” “Indossi quei pantaloni che mi piacciono? No? Valli a mettere”), più dettagliati whatsapp (”Voglio che ti tolga il reggiseno e stia così tutto il giorno”, “Oggi niente slip sotto i jeans”). Una foto del viso, una più intima, il seno nudo a viso coperto e poi, dopo due giorni, di nuovo un nudo a viso in chiaro, in un continuo crescendo di richieste. Ho sempre risposto, obbedendo via via con minori resistenze, ben sapendo di essere ormai incapace di dire di no. Il premio era la sua attenzione, il castigo la sua scomparsa.
Nel corso di quel terribile, eccitante, inarrestabile stillicidio di richieste e domande ho capito che non potevo più fare a meno di lui, della sua attenzione, della sua cura. Mi era indispensabile come l’aria o l’acqua. Se chiudevo gli occhi vedevo i suoi fissi nei miei, sentivo nelle orecchie la sua voce che mi dava pace e tormento, desiderio di compiacerlo e voglia di fuggire lontano, pur sapendo che lui poteva fare a meno di me ma non io di lui, ormai.
Finalmente mi ha dato un nuovo appuntamento, mi sarei messa a piangere per la felicità. L’avrei visto di nuovo. L’ho incontrato davanti a un piccolo albergo di periferia, dove lui era già conosciuto. Lì, in quella camera che rimandava i suoni ovattati della strada sono diventata per la prima volta il suo giocattolo di carne e sangue. “Spogliati!” mi ha ordinato mentre se ne stava seduto su una poltroncina in un angolo.
“Mi vergogno. Non l’ho mai fatto!” gli ho detto con un filo di voce e gli occhi chiusi per la vergogna.
“Non ti ho chiesto se l’hai mai fatto. Ti ho detto di spogliarti. Ora, subito” mi ha ordinato di nuovo con quella voce e quello sguardo che sapevano punire e premiare, come avrei presto imparato.
Con lo sguardo fisso a terra mi sono tolta i pochi indumenti che indossavo sotto il cappotto. Un golfino leggero, la camicia bianca, i jeans, i collant. “Non metterai mai più i collant! Voglio le gambe nude o al massimo indossa un paio di autoreggenti”. Sono rimasta vestita solo del mio intimo bianco, quello che nel mio inconscio avevo scelto per lui, per farmi vedere così. La vergogna lasciava lenta il campo alla crescente eccitazione.
Non bastava. “Ti ho detto di spogliarti” questa volta con voce più dura e occhi che bruciavano i miei.
Mi sono tolta il reggiseno e il piccolo slip di pizzo che avevo scelto con emozione quella mattina. E sono rimasta così, nuda, i capelli sciolti sulle spalle. Immobile, a capo chino davanti a lui, aspettando una parola, un commento, un premio. Mi sentivo bella e brutta, pensavo ai miei difetti, ai pregi del mio corpo nudo. Ai commenti anche volgari che a volte avevo sentito rivolgermi per strada da qualche sconosciuto. Ora volevo essere guardata, senza vergogna, in piena luce.
“Girati” è stato il solo commento. E mi sono girata come fossi un manichino di carne. Ero nelle sue mani, totalmente. Ma non avevo alcun timore, sapevo che mi voleva e che quest’uomo sconosciuto si sarebbe in qualche modo, nel suo modo, preso cura di me, mi avrebbe protetta e mi avrebbe dato un amore nuovo, a me ignoto ma da sempre cercato senza saperlo.
Quella prima volta, dopo che gli ho rivelato la mia nudità emozionata e indifesa, mi ha ordinato di stendermi sul letto. Si è spogliato con calma guardando i miei occhi fissi nei suoi. Il suo pene era eretto, bello, svettava trionfante in mezzo al folto nero pelo del pube, il glande già lucido. Sapevo di volerlo ma ne avevo paura.
Nudo, si è steso sul letto al mio fianco. Mi ha preso la mano e l’ha portata sul cazzo. “Fai quello che sai” mi ha ordinato mentre con la mano percorreva il mio corpo accarezzando, stringendo, dando dolore e piacere alle labbra, al collo, al seno, ai capezzoli stretti tra le sue dita. Estasi e già tormento.
Senza osare guardarlo negli occhi lo masturbavo aspettando che la sua mano raggiungesse la mia intimità già irrorata da copiosi umori. Immagini improvvise e indesiderate nella mia mente. Scacciavo con furia i volti e le voci di mio marito e dei figli mentre nuda su un letto disfatto mi abbandonavo ai comandi di uno sconosciuto.
“Più veloce. Da quanto non tieni in mano un cazzo diverso da quello di tuo marito? Sai fare di meglio, lo so!” mi ha ordinato con durezza. Poi, improvvisa, la penetrazione, con un dito, poi due, mentre il pollice sfregava con dolce violenza il clitoride eretto. Ho reso più veloce la masturbazione, dalle pulsazioni del membro e dal ritmo del suo respiro ho capito che gli piaceva, che stavo andando bene, che gli davo quello che voleva.
Brividi che portavano al nascente piacere, umori che colavano caldi e copiosi tra le cosce spalancate senza pudore. Il grande specchio posizionato sulla parete di fronte al letto rimandava un’immagine oscena e lasciva. Sentivo il crescente contrarsi del ventre, il respiro accelerato e frequente, i gemiti incontrollati, il sudore che copriva la pelle, la schiena che si inarcava offrendo impudica il sesso bagnato alla mano invadente e padrona.
Ero pronta. Ma lui no, non voleva che io godessi, non ancora.
“Non hai capito! Tu non puoi godere, lo potrai fare quando ti darò il permesso!”
Mi ha lasciata vuota, sospesa, tremante, impaurita dalla sua reazione. Ho sentito di nuovo la mano che scivolava lungo il mio ventre, l’addome, il torace, per serrarsi con forza sul piccolo monte del seno. Le dita si sono strette sul capezzolo strappandomi un grido. Poi lui si è chinato sull’altro seno mordendo il capezzolo e dandomi nuovo dolore.
I miei occhi hanno liberato le lacrime trattenute, la sua lingua le ha subito asciugate.
“Tu devi capire che ora sei mia, la mia ragazza obbediente, che farai di tutto per darmi piacere, che imparerai a farlo nei modi e nei tempi che voglio, a prevenire i miei desideri. E da questo nascerà il tuo piacere”.
Poi si è alzato, mi ha preso per i capelli con forza, mi ha fatto inginocchiare davanti al suo cazzo teso, al suo glande nudo e umido.
In silenzio ho capito e ho preso ad accarezzare con la lingua il suo membro, a prenderlo in bocca fin quasi a soffocare, a percorrere con denti delicati tutta l’asta, a imparare a conoscerne confini e sapore, fino a farlo esplodere nella mia gola. Non ho sprecato nemmeno una goccia del suo piacere, era un regalo troppo prezioso, ho leccato le ultime gocce sul glande ancora pulsante. Poi l’ho guardato negli occhi, lui ha poggiato la mano sulla mia testa “Brava, stai imparando. Ora puoi godere!”
Riconoscente ho portato la mano in mezzo al lago delle mie cosce rimanendo in ginocchio davanti a lui, rimanendo con gli occhi nei suoi. L’orgasmo è arrivato improvviso e potente, mi ha travolto in pochi secondi, lasciandomi stordita come mai mi era successo, rivelandomi il nuovo mondo.
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