La puttana dei carcerati
di
Boomer 3000
genere
gay
«Devi da arrivà prima, sinnò qui è un casino» dice Casimiro, l'agente di guardia di Regina Coeli. «A noi ce sta bene a tutti, se li fai un po' divertì così se ne stanno boni e ce scappa quarche cosetta per noi. Ma è un rischio, ce lo sai, devi da rispettà l’orari... te l’ha detto pure Don G.» «Sì, lo so bene» «Che poi, a pensacce bene, chi cazzo te lo fa' fa' bho? Sei un ragazzetto per bene, te sei mischiato co ‘sti pezzi de merda».
Entriamo da una porticina sul retro del carcere, sconosciuta ai più e ci avventuriamo per un sotterraneo umido e buio, un labirinto illuminato solo dalla torcia dell'agente. «Pe’ esse pezzi de merda, ce so’ eh!» continua a borbottare «però alla fine, ma proprio alla fine, so’ pori cristi, me fanno pure pena tante vorte. E se c’è gente brava come te che li aiuta mejo così, mica me scandalizzo si te piace». Ora si risale fino ad una grata pesante, la apre, la richiude dietro di noi; seguono due porte di ferro «’e chiavi de san pietro» mi dice mostrandomi il mazzo di chiavi che ha con sé, e finalmente siamo dentro. Urla, vociferare, imprecazioni; siamo in una bolgia dell’Inferno. «Passamo qui sotto, de lato, così nun te vedono… a meno che nun te li voi fa tutti oggi eh?» e siccome non rispondo «Aho, se scherza, ce mancherebbe. Comunque oggi c’hai la cella 362. Così m’hanno detto e lì te porto. Ce lo sai come funziona no?» «Sì» rispondo «se arrivasse un controllo mi metto in una branda e faccio finta di dormire» «Bravo, te sei imparato bene!»
Davanti alla 362 ci fermiamo. Lui apre lo spioncino, guarda dentro «E' arrivato, vedete de fa' poco casino! Sinnò er giocherello finisce e dovete ricomincià a usà er culo vostro!» gli urla sguaiato, poi mi guarda vergognandosi un po’ per la gaffe. «Me raccomanno. Statte attento, questi so clienti de prima classe, m’hanno detto de ditte» poi proseguendo in tono paternalistico sottovoce «so gentaccia e, per almeno un’ora, qui non ce passerà nessuno, ce lo sai, prima classe, ok, hai capito bene?» e intanto che parla apre la porta, mi spinge dentro e la richiude.
L’associazione che ho contattato un anno fa, una di quelle che si occupa di carcerati, mi aveva detto che non c’era alcun problema per la raccolta di dati per la mia tesi di laurea. Mi avrebbero permesso di parlare con i detenuti senza filtri, purché partecipassi alle loro iniziative, portando aiuto. Avevo visitato le celle, conosciuto detenuti e, naturalmente, ero entrato in confidenza anche con quelli di riferimento, quelli insomma che nel carcere contano qualcosa.
Non sono mai stato in questa cella. Il sole arriva diretto in faccia, dalla finestra davanti ai miei occhi, impedendomi di vedere bene gli occupanti. Scorgo solo un letto a castello a tre piani sulla destra ed una piccola scrivania sotto la finestra. Due uomini sono in piedi davanti alla branda, ne intravedo il profilo, e un terzo è seduto sul letto più alto, con le gambe penzoloni. Fa molto caldo e l’odore di sudore è particolarmente penetrante e speziato e si mischia con la puzza di fogna del water che deve trovarsi dietro i letti.
«Non chiede mai er nome a ‘sta gente, mejo pe’ te e pe’ loro, so’ regole de vita. Fai due chiacchiere e te ne vai, senza approfondì se nun vonno, senza umiliarli, te fai dì solo quello che je va» mi avevano detto due volontari al tempo della tesi. Me lo aveva ribadito anche Don G, un noto ergastolano «lassa perde le questioni personali, noi semo tutta gente senza nome, dei fantasmi, e così volemo esse e tu non c’è bisogno che sai li nomi nostri. Fai quello che devi fa e poi va via!». E Casimiro, con la saggezza della sua età «So’ anni che tratto co’ sta gente e me rispettano perché me faccio li cazzi mia. Non te attardà a prennete er caffè o a chiedeje notizie che non te vonno da. Non fa’ domande stupide, nun perde tempo, vai al sodo. E se te piace fa la puttanella va pure bene, ma non te devi lamentà e se incominci ha da i’ fino in fondo e, quanno hanno finito, arza er tacco e sparisci, senza nemmeno salutalli»
È tutto iniziato con Don G., il secondo giorno che potevo intervistarlo. La sua cella è un po’ più grande delle altre; con un primo vano adibito a cucina-soggiorno ed un secondo, ricavato con una parete in cartongesso, più piccolo, adibito a camera da letto e cesso. Lui qui ci vive ormai da otto anni con due suoi scagnozzi, due tangheri sulla cinquantina che gli fanno da guardia del corpo. La seconda volta i tre si erano sciolti, un fiume in piena di notizie. Mi avevano pure offerto del vino, particolarmente forte. Il discorso si era spostato sul sesso in carcere, sui loro bisogni poi era diventato velatamente minaccioso. «Qui finchè nun chiamo nun passa nessuno» aveva detto Don G.» «Rispetto, quello lo pretendiamo. E se volessi esse’ gentile, vedi che te perdi…» mi ero sentito spiacevolmente costretto ed avevo accettato di andare nella stanza accanto. Uno alla volta i due scagnozzi, come se fosse stato tutto già combinato, me lo avevano messo in bocca e si erano fatti una bella sborrata. «Sei tornato, sano e salvo, bene, prova superata» mi aveva detto Don G. serio «ci sono cose che bisogna fare nella vita, la fiducia si conquista con i sacrifici. E ti onora aver aiutato i miei amici». Poi, ad uno dei due, che gli aveva chiesto se poteva anche chiavarmi, visto che aveva di nuovo voglia, aveva mollato un ceffone «non abusate della sua pazienza, dovete essere rispettosi con lui»
Il primo che mi mette giù è un uomo sulla quarantina, forse dell’est. Siamo dietro le brande, quasi incastrati in uno spazio ristretto. Mi sono tolto i bermuda, la maglietta e le scarpe da tennis. Sotto le ginocchia le sue ciabatte di gomma, per farmi stare più comodo, ha detto. Ha un bel pisello, duro e lungo, venoso ed anche lui non è male, muscoloso e magro. Non parla, come sempre, si concentra solo sul suo piacere. Sono clienti di prima classe, possono farmi quello che vogliono, hanno pagato il doppio. Quando è bello eccitato mi fa alzare e mi lancia sulla branda più bassa. Mi fa togliere gli slip ed indossare le autoreggenti; si diverte a mettermi il rossetto, ne mette tantissimo, e mentre lo fa il suo cazzo diventa ancora più duro ed un filo di bava viscida comincia a colargli dalla punta. Gli ci strofino il dito e lui, preso da un raptus, mi fa allargare le gambe e mi penetra. Mi scopa violento, trattenendo l’urlo di piacere, per non farsi sgamare dalle guardie ed i vicini di cella.
Quando tornai per la terza volta nella cella di Don G, avvertii subito un’atmosfera volutemente meno amichevole. «Vedi» cominciò serio «pensavo che eri diverso, un bravo ragazzetto rispettoso» e visto che cercavo di parlare «mo statte zitto e fatte servi’ da chi c’ha li capelli bianchi. Noi t’avemo rispettato, ma tu? Come ci hai ringraziato? Toni è il mio braccio destro è uno che je fumano, ce lo sapevi no? Come hai potuto permette’ che lo umiliassi così, davanti a te?» «Mi deve scusare Don, ma non capisco proprio cosa intende» «Bhe dovresti comincia’ a capi’ no? Me lo dovevi impedì, provacce. Dimme Don nun ve preoccupate, vado de là e lo faccio pe’ voi e io lo avrei impedito comunque» intanto Toni mi aveva messo una mano nelle mutande e mi palpava il culo «Che belle chiappone lisce che c’hai» diceva. Don G. fece un segno con la testa e Toni mi portò in stanza. Mi fece denudare e mi si mise sopra, con il cazzo duro tra le mie chiappe «ammazza come sei stretto. Nun l’hai mai preso in culo vero? Dai che te faccio divertì puttanella»
Il secondo è meno atletico, un po’ più appesantito. Cerca di infilarmelo in gola, ma è troppo grosso, sto per vomitare. Poi mi mette a pecora e mi penetra. Mi sbatte lentamente, se la gode, lo infila fino in fondo e lo toglie, poi lo rimette. “Troia senti che cazzo che ho” vorrebbe dirmi vuole che apprezzi tutta la sua virilità. Poi qualcosa lo disturba, perde la concentrazione e comincia a sborrare, stringendomi i fianchi quasi a farmi male. Mi indica il secchio con l’acqua; mi ci siedo e mi lavo il culo.
«Devi capi’ qual è er posto tuo» disse Don G., dopo che i suoi tirapiedi mi ebbero sverginato per bene «e quello che è mejo pe’ te» e, mentre mi parlava, si era scoperto il cazzo ed aveva preteso che lo masturbassi. «Devi da decide’ te si ritornà qui o sparì. Qui devi fa quello che te dimo noi e rispettacce». Dopo averlo fatto sborrare ero scappato dalla cella senza dire una parola, tra le loro risatine. Non ci sarei più tornato, era stato troppo per me; e poi quello che mi avevano fatto, come mi avevano trattato; ma non riuscivo a provare quella sana rabbia o desiderio di vendetta nei loro confronti, né ripugnanza. Anzi, se ci riflettevo, se ripensavo a quei due maiali, come mi avevano toccato, costretto e violentato; se ripensavo alle loro pance flaccide e sudate, ai loro cazzi mi eccitavo e dovevo correre al bagno a masturbarmi
L’ultimo è un marocchino. Odore pungente, corpo atletico e forte. Mi sbatte come se fossi sua moglie o la sua ragazza, è contento di svuotarsi le palle e, quando viene non smette, continua, finché non sborra di nuovo. Non mi danno nemmeno il tempo di lavarmi e gli altri due mi sono subito sopra. Uno in bocca ed uno nel culo. Si danno il cambio un paio di volte, ridono di me, mi sfottono un po’, ma in fondo mi piace stare al loro gioco, sentirmi usato. Uno alla volta mi vengono in bocca, ingoio il loro seme, sono clienti di prima classe, possono pretenderlo. Si aggiunge anche il marocchino, si maneggia un po’ il suo grosso uccello e subito sborra, nella mia bocca. Mi chiede se mi è piaciuto, in un italiano stentato, dico di sì. Mi mollano un po’ di pacche sulle spalle e mi fanno rivestire. La guardia arriva immediatamente ed in un attimo sono fuori dal carcere.
«Questi so’ bestie, ce lo so, e te considerano solo una troia, un buco da riempì. Ce lo sai pure te e ce sei ritornato apposta» mi disse Don G quando ricomparvi «Io t’ho capito subito a te. Tu sei femmina e puttana nella testa e devi sta’ ar posto tuo, sotto a ‘ste bestie, a pijiallo in culo. E’ questo che te piace. Oggi dopo che hai scopato co’ loro parli co’ ‘na guardia amica mia, un certo Casimiro, che te spiega. Te faccio diventà una puttana professionista, te faccio scopà da tutto Regina Coeli».
Entriamo da una porticina sul retro del carcere, sconosciuta ai più e ci avventuriamo per un sotterraneo umido e buio, un labirinto illuminato solo dalla torcia dell'agente. «Pe’ esse pezzi de merda, ce so’ eh!» continua a borbottare «però alla fine, ma proprio alla fine, so’ pori cristi, me fanno pure pena tante vorte. E se c’è gente brava come te che li aiuta mejo così, mica me scandalizzo si te piace». Ora si risale fino ad una grata pesante, la apre, la richiude dietro di noi; seguono due porte di ferro «’e chiavi de san pietro» mi dice mostrandomi il mazzo di chiavi che ha con sé, e finalmente siamo dentro. Urla, vociferare, imprecazioni; siamo in una bolgia dell’Inferno. «Passamo qui sotto, de lato, così nun te vedono… a meno che nun te li voi fa tutti oggi eh?» e siccome non rispondo «Aho, se scherza, ce mancherebbe. Comunque oggi c’hai la cella 362. Così m’hanno detto e lì te porto. Ce lo sai come funziona no?» «Sì» rispondo «se arrivasse un controllo mi metto in una branda e faccio finta di dormire» «Bravo, te sei imparato bene!»
Davanti alla 362 ci fermiamo. Lui apre lo spioncino, guarda dentro «E' arrivato, vedete de fa' poco casino! Sinnò er giocherello finisce e dovete ricomincià a usà er culo vostro!» gli urla sguaiato, poi mi guarda vergognandosi un po’ per la gaffe. «Me raccomanno. Statte attento, questi so clienti de prima classe, m’hanno detto de ditte» poi proseguendo in tono paternalistico sottovoce «so gentaccia e, per almeno un’ora, qui non ce passerà nessuno, ce lo sai, prima classe, ok, hai capito bene?» e intanto che parla apre la porta, mi spinge dentro e la richiude.
L’associazione che ho contattato un anno fa, una di quelle che si occupa di carcerati, mi aveva detto che non c’era alcun problema per la raccolta di dati per la mia tesi di laurea. Mi avrebbero permesso di parlare con i detenuti senza filtri, purché partecipassi alle loro iniziative, portando aiuto. Avevo visitato le celle, conosciuto detenuti e, naturalmente, ero entrato in confidenza anche con quelli di riferimento, quelli insomma che nel carcere contano qualcosa.
Non sono mai stato in questa cella. Il sole arriva diretto in faccia, dalla finestra davanti ai miei occhi, impedendomi di vedere bene gli occupanti. Scorgo solo un letto a castello a tre piani sulla destra ed una piccola scrivania sotto la finestra. Due uomini sono in piedi davanti alla branda, ne intravedo il profilo, e un terzo è seduto sul letto più alto, con le gambe penzoloni. Fa molto caldo e l’odore di sudore è particolarmente penetrante e speziato e si mischia con la puzza di fogna del water che deve trovarsi dietro i letti.
«Non chiede mai er nome a ‘sta gente, mejo pe’ te e pe’ loro, so’ regole de vita. Fai due chiacchiere e te ne vai, senza approfondì se nun vonno, senza umiliarli, te fai dì solo quello che je va» mi avevano detto due volontari al tempo della tesi. Me lo aveva ribadito anche Don G, un noto ergastolano «lassa perde le questioni personali, noi semo tutta gente senza nome, dei fantasmi, e così volemo esse e tu non c’è bisogno che sai li nomi nostri. Fai quello che devi fa e poi va via!». E Casimiro, con la saggezza della sua età «So’ anni che tratto co’ sta gente e me rispettano perché me faccio li cazzi mia. Non te attardà a prennete er caffè o a chiedeje notizie che non te vonno da. Non fa’ domande stupide, nun perde tempo, vai al sodo. E se te piace fa la puttanella va pure bene, ma non te devi lamentà e se incominci ha da i’ fino in fondo e, quanno hanno finito, arza er tacco e sparisci, senza nemmeno salutalli»
È tutto iniziato con Don G., il secondo giorno che potevo intervistarlo. La sua cella è un po’ più grande delle altre; con un primo vano adibito a cucina-soggiorno ed un secondo, ricavato con una parete in cartongesso, più piccolo, adibito a camera da letto e cesso. Lui qui ci vive ormai da otto anni con due suoi scagnozzi, due tangheri sulla cinquantina che gli fanno da guardia del corpo. La seconda volta i tre si erano sciolti, un fiume in piena di notizie. Mi avevano pure offerto del vino, particolarmente forte. Il discorso si era spostato sul sesso in carcere, sui loro bisogni poi era diventato velatamente minaccioso. «Qui finchè nun chiamo nun passa nessuno» aveva detto Don G.» «Rispetto, quello lo pretendiamo. E se volessi esse’ gentile, vedi che te perdi…» mi ero sentito spiacevolmente costretto ed avevo accettato di andare nella stanza accanto. Uno alla volta i due scagnozzi, come se fosse stato tutto già combinato, me lo avevano messo in bocca e si erano fatti una bella sborrata. «Sei tornato, sano e salvo, bene, prova superata» mi aveva detto Don G. serio «ci sono cose che bisogna fare nella vita, la fiducia si conquista con i sacrifici. E ti onora aver aiutato i miei amici». Poi, ad uno dei due, che gli aveva chiesto se poteva anche chiavarmi, visto che aveva di nuovo voglia, aveva mollato un ceffone «non abusate della sua pazienza, dovete essere rispettosi con lui»
Il primo che mi mette giù è un uomo sulla quarantina, forse dell’est. Siamo dietro le brande, quasi incastrati in uno spazio ristretto. Mi sono tolto i bermuda, la maglietta e le scarpe da tennis. Sotto le ginocchia le sue ciabatte di gomma, per farmi stare più comodo, ha detto. Ha un bel pisello, duro e lungo, venoso ed anche lui non è male, muscoloso e magro. Non parla, come sempre, si concentra solo sul suo piacere. Sono clienti di prima classe, possono farmi quello che vogliono, hanno pagato il doppio. Quando è bello eccitato mi fa alzare e mi lancia sulla branda più bassa. Mi fa togliere gli slip ed indossare le autoreggenti; si diverte a mettermi il rossetto, ne mette tantissimo, e mentre lo fa il suo cazzo diventa ancora più duro ed un filo di bava viscida comincia a colargli dalla punta. Gli ci strofino il dito e lui, preso da un raptus, mi fa allargare le gambe e mi penetra. Mi scopa violento, trattenendo l’urlo di piacere, per non farsi sgamare dalle guardie ed i vicini di cella.
Quando tornai per la terza volta nella cella di Don G, avvertii subito un’atmosfera volutemente meno amichevole. «Vedi» cominciò serio «pensavo che eri diverso, un bravo ragazzetto rispettoso» e visto che cercavo di parlare «mo statte zitto e fatte servi’ da chi c’ha li capelli bianchi. Noi t’avemo rispettato, ma tu? Come ci hai ringraziato? Toni è il mio braccio destro è uno che je fumano, ce lo sapevi no? Come hai potuto permette’ che lo umiliassi così, davanti a te?» «Mi deve scusare Don, ma non capisco proprio cosa intende» «Bhe dovresti comincia’ a capi’ no? Me lo dovevi impedì, provacce. Dimme Don nun ve preoccupate, vado de là e lo faccio pe’ voi e io lo avrei impedito comunque» intanto Toni mi aveva messo una mano nelle mutande e mi palpava il culo «Che belle chiappone lisce che c’hai» diceva. Don G. fece un segno con la testa e Toni mi portò in stanza. Mi fece denudare e mi si mise sopra, con il cazzo duro tra le mie chiappe «ammazza come sei stretto. Nun l’hai mai preso in culo vero? Dai che te faccio divertì puttanella»
Il secondo è meno atletico, un po’ più appesantito. Cerca di infilarmelo in gola, ma è troppo grosso, sto per vomitare. Poi mi mette a pecora e mi penetra. Mi sbatte lentamente, se la gode, lo infila fino in fondo e lo toglie, poi lo rimette. “Troia senti che cazzo che ho” vorrebbe dirmi vuole che apprezzi tutta la sua virilità. Poi qualcosa lo disturba, perde la concentrazione e comincia a sborrare, stringendomi i fianchi quasi a farmi male. Mi indica il secchio con l’acqua; mi ci siedo e mi lavo il culo.
«Devi capi’ qual è er posto tuo» disse Don G., dopo che i suoi tirapiedi mi ebbero sverginato per bene «e quello che è mejo pe’ te» e, mentre mi parlava, si era scoperto il cazzo ed aveva preteso che lo masturbassi. «Devi da decide’ te si ritornà qui o sparì. Qui devi fa quello che te dimo noi e rispettacce». Dopo averlo fatto sborrare ero scappato dalla cella senza dire una parola, tra le loro risatine. Non ci sarei più tornato, era stato troppo per me; e poi quello che mi avevano fatto, come mi avevano trattato; ma non riuscivo a provare quella sana rabbia o desiderio di vendetta nei loro confronti, né ripugnanza. Anzi, se ci riflettevo, se ripensavo a quei due maiali, come mi avevano toccato, costretto e violentato; se ripensavo alle loro pance flaccide e sudate, ai loro cazzi mi eccitavo e dovevo correre al bagno a masturbarmi
L’ultimo è un marocchino. Odore pungente, corpo atletico e forte. Mi sbatte come se fossi sua moglie o la sua ragazza, è contento di svuotarsi le palle e, quando viene non smette, continua, finché non sborra di nuovo. Non mi danno nemmeno il tempo di lavarmi e gli altri due mi sono subito sopra. Uno in bocca ed uno nel culo. Si danno il cambio un paio di volte, ridono di me, mi sfottono un po’, ma in fondo mi piace stare al loro gioco, sentirmi usato. Uno alla volta mi vengono in bocca, ingoio il loro seme, sono clienti di prima classe, possono pretenderlo. Si aggiunge anche il marocchino, si maneggia un po’ il suo grosso uccello e subito sborra, nella mia bocca. Mi chiede se mi è piaciuto, in un italiano stentato, dico di sì. Mi mollano un po’ di pacche sulle spalle e mi fanno rivestire. La guardia arriva immediatamente ed in un attimo sono fuori dal carcere.
«Questi so’ bestie, ce lo so, e te considerano solo una troia, un buco da riempì. Ce lo sai pure te e ce sei ritornato apposta» mi disse Don G quando ricomparvi «Io t’ho capito subito a te. Tu sei femmina e puttana nella testa e devi sta’ ar posto tuo, sotto a ‘ste bestie, a pijiallo in culo. E’ questo che te piace. Oggi dopo che hai scopato co’ loro parli co’ ‘na guardia amica mia, un certo Casimiro, che te spiega. Te faccio diventà una puttana professionista, te faccio scopà da tutto Regina Coeli».
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