Frocetto sottomesso. Storia vintage
di
Boomer 3000
genere
gay
«Viè va, annamo de dietro» disse Pasquale mentre abbassava la saracinesca «che se dovemo fa’ ‘na bella svotata de palle e te insegnamo pure a campà». Lo seguii nel magazzino dietro il bancone, un piccolo locale con una finestrella alta che faceva luce, delle sedie, una scrivania e un piccolo bagno senza porta. Ennio, il suo socio, stava già lì dietro, seduto sul tavolo a fumarsi una Marlboro. «E’ arivata la puttanella va, mo se divertimo un po’» disse grattandosi le palle «Daje spojate che te vergogni?» proseguì Pasquale dandomi una spintarella. «Oggi è l’ultima?» provai a chiedere prima di spogliarmi «Nu rompe era cazzo regazzì, lo dimo noantri quanno è l’urtima».
Qualche mese prima, di ritorno a casa, non avevo salutato nessuno ed ero corso in bagno. Tirato fuori il fazzoletto dalla tasca avevo cominciato ad osservarlo attentamente, dopo averlo aperto per bene. Due macchie giallastre estese ed ancora umide ne ricoprivano il centro, mentre verso i bordi si diradavano fino a scomparire. Lo avevo avvicinato al naso ed avevo riconosciuto distintamente l’odore del cazzo di Marco, mentre il mio si era indurito all’improvviso, fino a farmi male. Mi ero infilato tutto il fazzoletto in bocca ed avevo cominciato a succhiarlo, mentre con la mano libera mi facevo una sega.
«Che te piace?» mi aveva detto quella mattina in classe il mio compagno di banco, Marco, il ripetente, mostrandomi il suo grosso uccello. A lui della scuola non fregava nulla, era già quattro anni indietro, si era già beccato qualche denuncia ed un po’ di riformatorio ed avrebbero comunque dovuto promuoverlo. Per questo, durante le lezioni, era solito menarsi il cazzo, cercando di non farsi vedere. «Copreme…» mi diceva ed io dovevo mettermi in modo che i professori non lo vedessero e, anche se lo vedevano, visto il tipo facevano finta di nulla. Un paio di seghe, a volte tre, sborrando tranquillamente sotto il banco. «Che te piace?» mi aveva detto all’improvviso «fammela una te daje, che ce lo so che te piace ma te vergogni» «Ma no sei matto» «Fammela daje, nu rompe er cazzo! Lo sai che se no so cazzi tua…» allora avevo allungato la mano, gli avevo stretto il cazzo duro ed ero andato un po’ su e giù finché non aveva ejaculato. «Le fai bene» mi aveva detto «mo damme er fazzoletto che te faccio un regalo» e strappatomi il fazzoletto dalla tasca ci si era asciugato il cazzo per bene e me lo aveva ridato.
Al cantiere abbandonato Pasquale ed Ennio non so se ci fossero capitati per caso o li avesse avvertiti Marco. Ci andavo di solito con lui il pomeriggio, quasi tutti i giorni, da un bel po’. «Sei una brava puttanella» mi diceva «hai fatto bene a venì qui co me, io te proteggo, hai visto che te rispetteno tutti? Nun te pieno più in giro? Basta che fai il bravo e me fai divertì». In quel periodo era molto nervoso; non mi parlava dei suoi problemi, ma doveva averne di seri; non osavo mai contraddirlo, in fondo non era un cattivo ragazzo, aveva solo bisogno di sfogarsi su qualcuno. Mi stava cavalcando carponi, col cazzo duro nel culo, schiaffeggiandomi le natiche mentre i due porci erano arrivati. Si erano goduti la scena fino alla fine e, quando Marco aveva finito di sborrarmi nel culo erano comparsi all’improvviso, tenendomi fermo sul materasso lercio e, uno alla volta, avevano goduto tra le mie chiappe.
Marco, dopo quella prima sega, non mi aveva più lasciato in pace. «E’ che io c’ho bisogno. Quarcuna me la faccio pure da solo, ma se ce sei tu me le fai tu!» e la sua necessità era dalle quattro alle otto volte al giorno. «Sei frocio, te faccio pure un piacere, che cazzo voi…» «Ma si dai, non ti devi vergognare, nun c’è niente de male, daje» mi aveva detto anche un tipo losco, amico di Marco, che una volta ci aveva ospitati nel suo furgoncino «è natura, godemo tutti così» e si era fatto masturbare anche lui. Durante la ricreazione mi portava in bagno tra le risatine dei miei compagni «succhialo dai che so pieno» poi appena finito ci sbrigavamo a fare merenda e appena trovato un altro cesso libero si faceva fare una sega. Il pomeriggio lo passavo con lui, nel cantiere abbandonato, vicino casa sua, di nuovo a soddisfarlo finché non ne poteva più. «Ti prego basta, facciamola finita» gli dicevo ogni volta, ma era come se parlassi ad un sordo e quando insistevo troppo mi beccavo anche qualche sganassone. “Ci sono costretto, devo farlo” mi dicevo tra me e me “chissà cosa potrebbe fare se smetto. È un delinquente…” ma gradualmente avevo cominciato a sentirmi attratto dalla sua brutalità, e più mi umiliava più la cosa mi eccitava, fino ad arrivare al punto di provocarlo per farmi picchiare e poi violentare.
Anche i due lo sapevano che non creavo mai problemi, anche se erano due vecchi maiali maneschi. «’Ste cose è mejo che nun se sanno in giro, se dimo che te piace er pisello sei rovinato, la gente nun capisce» mi avevano detto all’inizio e me lo ripetevano ogni volta «bravo frocetto, ma devi da esse’ più collaborativo e rispettoso. Noi semo gente seria e soprattutto semo omini…» «Te devi fa scopà pure da noiartri» mi avevano detto chiaramente nella loro bottega «pe’ un po’ de tempo. Marco ce lo sa e je va bene, tanto mo’ c’ha pure la regazzetta e quarche pippetta je la fa lei» «Ma siete matti?» «Nun te lo sto a chiede» e giù uno schiaffone «qui ce venghi e basta, pe’ un po’, si no te vengo a cercà a casa» ed intanto mi spingeva in ginocchio «che c’avemo li cazzi nostra e nun avemo tempo da perde» e mentre ancora parlava, tutto impaurito, gli stavo già succhiando il cazzo.
Il primo a scoparmi è Ennio, un cinquantenne panciuto, con delle braccia poderose forgiate dal lavoro. Ha un cazzo bello grosso, maleodorante e sembra fiero di questo; si diverte un po’ nella mia bocca poi, quando è duro mi butta sul tavolo, mi fa allargare le gambe e mi penetra. Ci mette un po’ a venire, se la gode, si diverte a farmi male con suo arnese duro come pietra. Di colpo chiude gli occhi, si indurisce tutto e comincia a sborrarmi dentro; svuota lentamente tutto, come volesse ingravidarmi. Quando ha finito lo sfila e si tira su i pantaloni e le mutande. «Grazie Signore» dico a Pasquale, mentre mi riempie «Devi da esse ripettoso» mi ha sempre detto «perché noi semo omini e tu sei una troia e stai solo facendo il tuo dovere». Quando vado da loro ho paura, non lo nascondo; sono violenti, pericolosi, mi considerano una loro proprietà. Ma quando torno a casa e trovo negli slip tutto il loro piacere, con il culo che brucia e tutta quell’umiliazione che mi hanno fatto sopportare, provo un’eccitazione incontrollabile.
Marco prese la licenza media e non lo vidi più. In fondo ero contento di essergli stato vicino in quell’anno per lui così orribile ed averlo tenuto lontano dai guai. I due invece continuai a vederli, anche più spesso. «Mo’ che nun c’è più quello stronzo potemo stai tranquillo. Fallo a scola nun è una bona idea. E poi un regazzino che te po’ insegnà? Qui co’ noi stai bene, hai imparato quale è er posto tuo. E poi c’avemo un sacco de amici che nun vedeno l’ora de mettetelo ar culo. Fidate de noi!»
Qualche mese prima, di ritorno a casa, non avevo salutato nessuno ed ero corso in bagno. Tirato fuori il fazzoletto dalla tasca avevo cominciato ad osservarlo attentamente, dopo averlo aperto per bene. Due macchie giallastre estese ed ancora umide ne ricoprivano il centro, mentre verso i bordi si diradavano fino a scomparire. Lo avevo avvicinato al naso ed avevo riconosciuto distintamente l’odore del cazzo di Marco, mentre il mio si era indurito all’improvviso, fino a farmi male. Mi ero infilato tutto il fazzoletto in bocca ed avevo cominciato a succhiarlo, mentre con la mano libera mi facevo una sega.
«Che te piace?» mi aveva detto quella mattina in classe il mio compagno di banco, Marco, il ripetente, mostrandomi il suo grosso uccello. A lui della scuola non fregava nulla, era già quattro anni indietro, si era già beccato qualche denuncia ed un po’ di riformatorio ed avrebbero comunque dovuto promuoverlo. Per questo, durante le lezioni, era solito menarsi il cazzo, cercando di non farsi vedere. «Copreme…» mi diceva ed io dovevo mettermi in modo che i professori non lo vedessero e, anche se lo vedevano, visto il tipo facevano finta di nulla. Un paio di seghe, a volte tre, sborrando tranquillamente sotto il banco. «Che te piace?» mi aveva detto all’improvviso «fammela una te daje, che ce lo so che te piace ma te vergogni» «Ma no sei matto» «Fammela daje, nu rompe er cazzo! Lo sai che se no so cazzi tua…» allora avevo allungato la mano, gli avevo stretto il cazzo duro ed ero andato un po’ su e giù finché non aveva ejaculato. «Le fai bene» mi aveva detto «mo damme er fazzoletto che te faccio un regalo» e strappatomi il fazzoletto dalla tasca ci si era asciugato il cazzo per bene e me lo aveva ridato.
Al cantiere abbandonato Pasquale ed Ennio non so se ci fossero capitati per caso o li avesse avvertiti Marco. Ci andavo di solito con lui il pomeriggio, quasi tutti i giorni, da un bel po’. «Sei una brava puttanella» mi diceva «hai fatto bene a venì qui co me, io te proteggo, hai visto che te rispetteno tutti? Nun te pieno più in giro? Basta che fai il bravo e me fai divertì». In quel periodo era molto nervoso; non mi parlava dei suoi problemi, ma doveva averne di seri; non osavo mai contraddirlo, in fondo non era un cattivo ragazzo, aveva solo bisogno di sfogarsi su qualcuno. Mi stava cavalcando carponi, col cazzo duro nel culo, schiaffeggiandomi le natiche mentre i due porci erano arrivati. Si erano goduti la scena fino alla fine e, quando Marco aveva finito di sborrarmi nel culo erano comparsi all’improvviso, tenendomi fermo sul materasso lercio e, uno alla volta, avevano goduto tra le mie chiappe.
Marco, dopo quella prima sega, non mi aveva più lasciato in pace. «E’ che io c’ho bisogno. Quarcuna me la faccio pure da solo, ma se ce sei tu me le fai tu!» e la sua necessità era dalle quattro alle otto volte al giorno. «Sei frocio, te faccio pure un piacere, che cazzo voi…» «Ma si dai, non ti devi vergognare, nun c’è niente de male, daje» mi aveva detto anche un tipo losco, amico di Marco, che una volta ci aveva ospitati nel suo furgoncino «è natura, godemo tutti così» e si era fatto masturbare anche lui. Durante la ricreazione mi portava in bagno tra le risatine dei miei compagni «succhialo dai che so pieno» poi appena finito ci sbrigavamo a fare merenda e appena trovato un altro cesso libero si faceva fare una sega. Il pomeriggio lo passavo con lui, nel cantiere abbandonato, vicino casa sua, di nuovo a soddisfarlo finché non ne poteva più. «Ti prego basta, facciamola finita» gli dicevo ogni volta, ma era come se parlassi ad un sordo e quando insistevo troppo mi beccavo anche qualche sganassone. “Ci sono costretto, devo farlo” mi dicevo tra me e me “chissà cosa potrebbe fare se smetto. È un delinquente…” ma gradualmente avevo cominciato a sentirmi attratto dalla sua brutalità, e più mi umiliava più la cosa mi eccitava, fino ad arrivare al punto di provocarlo per farmi picchiare e poi violentare.
Anche i due lo sapevano che non creavo mai problemi, anche se erano due vecchi maiali maneschi. «’Ste cose è mejo che nun se sanno in giro, se dimo che te piace er pisello sei rovinato, la gente nun capisce» mi avevano detto all’inizio e me lo ripetevano ogni volta «bravo frocetto, ma devi da esse’ più collaborativo e rispettoso. Noi semo gente seria e soprattutto semo omini…» «Te devi fa scopà pure da noiartri» mi avevano detto chiaramente nella loro bottega «pe’ un po’ de tempo. Marco ce lo sa e je va bene, tanto mo’ c’ha pure la regazzetta e quarche pippetta je la fa lei» «Ma siete matti?» «Nun te lo sto a chiede» e giù uno schiaffone «qui ce venghi e basta, pe’ un po’, si no te vengo a cercà a casa» ed intanto mi spingeva in ginocchio «che c’avemo li cazzi nostra e nun avemo tempo da perde» e mentre ancora parlava, tutto impaurito, gli stavo già succhiando il cazzo.
Il primo a scoparmi è Ennio, un cinquantenne panciuto, con delle braccia poderose forgiate dal lavoro. Ha un cazzo bello grosso, maleodorante e sembra fiero di questo; si diverte un po’ nella mia bocca poi, quando è duro mi butta sul tavolo, mi fa allargare le gambe e mi penetra. Ci mette un po’ a venire, se la gode, si diverte a farmi male con suo arnese duro come pietra. Di colpo chiude gli occhi, si indurisce tutto e comincia a sborrarmi dentro; svuota lentamente tutto, come volesse ingravidarmi. Quando ha finito lo sfila e si tira su i pantaloni e le mutande. «Grazie Signore» dico a Pasquale, mentre mi riempie «Devi da esse ripettoso» mi ha sempre detto «perché noi semo omini e tu sei una troia e stai solo facendo il tuo dovere». Quando vado da loro ho paura, non lo nascondo; sono violenti, pericolosi, mi considerano una loro proprietà. Ma quando torno a casa e trovo negli slip tutto il loro piacere, con il culo che brucia e tutta quell’umiliazione che mi hanno fatto sopportare, provo un’eccitazione incontrollabile.
Marco prese la licenza media e non lo vidi più. In fondo ero contento di essergli stato vicino in quell’anno per lui così orribile ed averlo tenuto lontano dai guai. I due invece continuai a vederli, anche più spesso. «Mo’ che nun c’è più quello stronzo potemo stai tranquillo. Fallo a scola nun è una bona idea. E poi un regazzino che te po’ insegnà? Qui co’ noi stai bene, hai imparato quale è er posto tuo. E poi c’avemo un sacco de amici che nun vedeno l’ora de mettetelo ar culo. Fidate de noi!»
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