Frocetto per pastori

di
genere
dominazione

La prima volta che dovetti farlo con Gaetano, il pastore più anziano, quello che più mi sorprese non fu l’oltraggio di esserci stato costretto o i suoi modi volgari da dominatore, ma il fatto che non avessi provato alcun disgusto. Mi aveva chiamato col fischio con cui radunava le pecore, e con la mano mi aveva indicato di entrare nel capanno. Spogliati nudo, mi aveva detto in dialetto, poi si era abbassato i pantaloni luridi e mi aveva infilato il suo cazzo lungo e grosso in bocca. «Stè ferme…» diceva mentre con l’uccello andava su e giù fino in gola stringendomi la testa con le sue mani dure come morse; «’te ammazze si nu’ ste ferme!» urlava quando venivo preso dalla tosse e doveva levare il cazzo per farmi respirare, «puttana te ammazze!» e giù uno schiaffone, poi me lo rinfilava in bocca senza pietà.
Questi tre pastori li incontravo regolarmente ogni giorno ormai da un mesetto. In vacanza in abruzzo, come ogni anno, li avevo conosciuti al bar in paese e uno di loro mi aveva chiesto se volevo salire qualche volta in montagna da loro per scattargli delle foto. «Aè, ma sulu ddà 'u pomeriggio» mi aveva interrotto Gaetano, il più anziano e padrone, «che chisti devono faticà» e poi aveva aggiunto qualcosa che non avevo capito. Già dal pomeriggio successivo avevo iniziato a salire su da loro, quando avevano già mangiato e, sistemate le pecore, se ne stavano in panciolle a fumare o bere un po’ di vino.
Giovanni, il più gentile, mi aveva fatto fare il giro dell’allevamento, fatto vedere i boschi, i ruscelli e nel mentre si era sfogato con me «So' masciu, hò li mè bisogni. Scopë sóle cu le pèccore». Aveva quarantasei anni e, a dirla tutta, era considerato il matto del paese, senza famiglia, senza una donna, viveva di pastorizia stagionale e di espedienti. Era solo, con i suoi bisogni di maschio, e quando poteva, mi raccontava ogni volta, legava una pecora e se la faceva. No che non avessi capito le sue intenzioni, ma pensavo che fossero solo fantasie. Un giorno nel fitto del bosco, nascosti in un tronco, mi mostrò la sua sterminata collezione di fumetti erotici che usava per sfogarsi un po’. Ne vedemmo qualcuno, quando all’improvviso mi chiese qualcosa in dialetto che non capii, poi si avvicinò con gli occhi iniettati di sangue e mi mise il suo cazzo in mano. Impaurito riuscii a biascicare «Va bene, ma non lo dici a nessuno» e mentre lui aveva già chiuso gli occhi per godersi la sega «non c’è nulla di male» continuavo, più per me che per lui che smaniava per venire, «lo faccio per aiutarti, solo per te come amico, ma non sono frocio». Il suo cazzo era durissimo e non ci volle molto per farlo esplodere. «Me dispiace» aveva detto, pensavo perché uno schizzo di sperma mi era caduto sulle gambe sporcandomi. Invece, preso da un raptus, mi aveva afferrato con tutta la sua forza e, tenendomi a terra con una mano, con l’altra mi aveva abbassato i pantaloncini da tennis e mi era salito sopra. Furioso strofinava il cazzo di nuovo duro tra le mie natiche, senza riuscire a penetrarmi, finché non sborrò, schizzandomi fin sulla schiena.
Dopo essersi un po’ divertito con la mia bocca Gaetano mi fece distendere sul tavolaccio, a gambe aperte. Prese un dito di burro rancido dal secchio e me lo spalmò nell’ano; poi con tutta calma me lo mise dentro, spingendo finché le sue palle non si schiacciarono sulle mie natiche. Mi scopava come fossi una delle sue pecore, o la sua brutta moglie, violento ma esperto, controllando di non venirsene troppo presto. Avrei dovuto avere paura di lui, era un uomo con un passato violento, ormai sulla sessantina e il suo fiato irrespirabile e la puzza di pecora mi avrebbero dovuto far venire il vomito; avrei dovuto detestarlo, ribellarmi invece me ne stavo lì buono buono, col suo grosso uccello duro nel culo, cercando di capire se gli piacesse quello che mi stava facendo. E quando si avvicinò l’ondata del suo piacere, cominciai a carezzargli le natiche secche e muscolose al ritmo delle sue bordate. Sborrò con calma nel mio culo, tenendomi fermo per il collo, fino l’ultima goccia del suo seme. «Puliscilu» e fattomi scendere dal tavolo, mi fece inginocchiare e me lo rimise in bocca per farselo pulire. Poi si tirò su le braghe e se ne andò senza una parola.
Quella prima volta con Giovanni non ci aveva visto nessuno e quando ebbe finito ero scappato come un matto giù in paese, tra le sue risate. “Lassù non ci salgo più manco morto” dicevo tra me e me mentre mi lavavo “storia finita”. Ma la notte ripensai a cosa era successo e mi sentii colpevolmente eccitato, in fondo nessuno lo avrebbe saputo, cosa c’era di male? E fui costretto a masturbarmi. Il giorno dopo ero di nuovo in montagna. Giovanni mi portò di nuovo al suo rifugio, tra le risatine di Giuseppe, a cui aveva raccontato tutto. «Lo sapeva che jè na puttàna» diceva ridendo mentre mi spingeva la testa sul suo cazzo duro.
Giuseppe per qualche giorno ci ignorò. Non gli interessava un frocio, diceva, «Nu me ne 'mporta nènt' 'e nu froce», lui aveva la donna giù in pianura. Ma poi pensò bene che aveva bisogno anche lui di svuotarsi le palle e, il terzo giorno, venne anche lui nel bosco. Era coetaneo di Giovanni ma più alto, muscoloso con un bel viso tutto rosso, cotto dal sole. Quando Giovanni ebbe finito lui rimase con me un paio d’ore, senza mostrare alcuna empatia ma solo un’insopportabile aria di superiorità morale. Era tanto che non lo faceva, ecco perché era lì, altrimenti… bisogna divertirsi pure un po’, un maschio ha diritto… «Nu maschje tène ddiritte». Parlava solo lui, come volesse giustificarsi per il suo atto e se provavo a rispondere «Stai zitte!». Gli dispiaceva ma «u gioco 'u tene 'u masch» e io dovevo fare tutto ciò che lui voleva perchè era «Megliu purè pe tè» e poi «T’piace!». Prima in bocca, poi nel culo, poi di nuovo in bocca. Dopo aver sborrato tre volte mi spinse lontano da lui e si alzò. Mi si parò nudo davanti, tenendomi a terra con un piede accendendosi una sigaretta con aria soddisfatta, col cazzo che pendeva grosso tra le sue gambe muscolose. Poi con il cazzo ancora scappellato mi pisciò in faccia, prendendo bene la mira, ridendo della sua bravata.
Gaetano, il capo, ci beccò solo dopo una ventina di giorni giù al laghetto, dietro una roccia molto alta, che ci nascondeva. Non trovava i suoi lavoranti ed era andato a cercarli sapendo bene cosa stavano facendo. Giovanni era sdraiato nudo sull’erba, con il cazzo penzoloni e la sigaretta in bocca. Io ero sopra a Giuseppe, tutto rosso, col suo cazzo nel culo mentre lui mi stringeva i fianchi e mi faceva andare su e giù.
«Tè si 'na fèmmene, l'ài da capì. Devi sta mut. Faje chelle che te dicemè» «Ma mi fate male…» e giù un colpo di frustino sul culo o un ceffone poi Giuseppe me lo rimetteva in bocca e Giovanni nel culo. Gli piaceva farlo insieme, li faceva sentire più forti e spavaldi. Il loro desiderio non finiva mai, sempre di più orgasmi e crudeltà gratuite tento per aumentare l’eccitazione, insieme ad un disprezzo platealmente esibito ma che non mi offendeva affatto. Non vi vado più, è troppo mi dicevo ogni volta, poi il pomeriggio successivo ero di nuovo lì a farmi violentare. Quando arrivò Gaetano Giovanni aveva appena ejaculato nella mia bocca e Giuseppe invece mi stava facendo fare uno smorzacandele, ma lo strillo del capo li interruppe.
Ci fu un bel cazziatone per i due ed anche per me, ma Gaetano sapeva bene che una valvola di sfogo per i suoi uomini ci voleva. Fu per questo che quando se ne andò, Giuseppe infuriato, mi riportò dietro la roccia e finì quello che aveva incominciato.
Quello lo racconta a tutti, meglio che lo fai anche con lui, così sta zitto, mi diceva uno. Sì, a lui pure gli piace, ci devi andare «lo devi fà!». Non so se Gaetano li avesse spinti a chiedermi quella cosa o lo avessero pensato loro, tanto per farlo stare buono, fatto sta che quando mi chiamò non rimasi sorpreso. Non divenne un amante regolare, come gli altri due, ma di tanto in tanto pretendeva dei servizi. Lui non parlava mai, se non per darmi ordini ed il suo piacere era l’unico obbiettivo su cui dovevo concentrarmi. Non aveva bisogno di pratiche particolari; gli dovevo solo far indurire il cazzo, pi lo sapeva lui cosa doveva fare.
Quando l’estate cominciò a rovinarsi, ad arrivare le prime piogge, si stava meno all’aperto e il lavoro si svolgeva nell’ovile. Tra poco sarei partito e loro pure avrebbero terminato la stagione. «Vénne su da la matina!» mi disse Gaetano un giorno «Che teng' amici…» Anche il secondo gregge di Gaetano, infatti, era tornato e con le pecore i cani ed due pastori che le avevano curate durante l’estate, Adil e Zamir, due uomini dell’est. Il lavoro ora era ed impegnativo; pulire, mungere, accudire. «Sulu pe' poche jurne… dopo 'ndamo via» aveva seguitato Gaetano.
In un capanno un po’ isolato mi avevano messo una branda con un materasso vecchio, dell’acqua per lavarmi, ed un po’ di stracci vecchi. Gli uomini venivano uno alla volta, mentre gli altri rimanevano al lavoro, chiudevano il paletto e rimanevamo da soli. La prima mattina avevano cominciato a venire molto presto. Zamir era stato il primo. Era entrato con la sigaretta tra le labbra e subito mi aveva spinto in ginocchio davanti a lui; si era abbassato i pantaloni e mi aveva sorriso soddisfatto, mostrandomi i suoi incisivi d’oro, con un occhio chiuso per il fumo della cicca. Aveva un cazzo molto grosso, odoroso e senza parlare me lo aveva messo in bocca. Un paio di botte ed era subito venuto, tenendomi la testa ferma, perché ingoiassi il suo seme. Parlava poco italiano, ma sembrava come se volesse scusarsi di qualcosa, con ancora la sigaretta da finire. Cercai di capirlo ma non ci fu verso. Si rivestì ed uscì.
Adil invece si fermò un bel po’. Aveva un’aria odiosa di chi la sa lunga ed ora te la farà pagare. Mi fece spogliare nudo e mi prese a pecora, compiaciuto della sua mascolinità. Mi parlava nella sua lingua incomprensibile, ridacchiando eccitato ogni volta che mi faceva male col cazzo. Ci mise un po’ a venire, si divertiva e, quando non resistette più, sborrò a più riprese, col cazzo ben infilato fino in fondo e la pancia muscolosa che spingeva bollente sul mio culo. Quando lo sfilò dal culo e potei guardarlo mi resi conto di che tipo disgustoso fosse; il viso cotto dal sole, i denti radi e quel mezzo sorriso arrogante con cui mi palesava tutto il suo disprezzo. Ma lui era un maschio ed io ero li per fare la troia; aprii la bocca e lasciai che si divertisse ancora un po’.
Gaetano prima mi fece lavare. Quei maiali chissà che ti hanno fatto, mi diceva ridacchiando, avevano le palle belle piene eh? Poi se lo fece un po’ succhiare ma, evidentemente eccitato da tutto quello che stava succedendo, non riuscì a controllarsi ed ejaculò subito. Quando ebbero finito anche gli altri due si fece ora di pranzo. Mangiammo qualcosa poi, subito, a turno mi riscoparono tutti, eccetto Gaetano.

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scritto il
2024-10-15
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