Pastori d'abruzzo
di
Boomer 3000
genere
gay
1.
Quando Gaetano, il pastore più anziano, mi chiamò la prima volta, con quel fischio con cui radunava le pecore mi sentii morire dalla vergogna. Era un uomo ultrasessantenne, molto rozzo, ma non era solo per questo; mi vergognavo perché conosceva molto bene i miei genitori e doverlo fare con lui era troppo per me. Tuttavia sapevo bene che non potevo rifiutarmi dopo tutto quello che era successo.
Dopo il fischio, al suo cenno, mi avvicinai all’entrata dell’ovile tutto mogio mogio, sperando che si trattasse solo di uno scherzo; invece lui, imperterrito e serio, mi spinse dentro e socchiuse la porta. Le pecore a quell’ora erano tutte fuori al pascolo ma la puzza era comunque fortissima. Mi indicò un angoletto in disparte, dove c’era una panca lurida di legno. Intimorito, prima che lui me lo chiedesse, mi tolsi la maglietta ed i pantaloncini da tennis e rimasi in slip.
«Pure le mutande che aggia chiavà!» strillò, senza alcun imbarazzo e, quando me le tolsi mi fece girare e mi tastò con forza le chiappe, per saggiarne la bontà, come fossi un animale in vendita. Poi, con calma mi fece inginocchiare, si abbassò i pantaloni luridi alle ginocchia e mi infilò il suo grosso cazzo sporco in bocca. Era duro come un sasso, caldo, smanioso e non appena avvertì il piacere del contatto con la mia lingua, cominciò a mugolare con gli occhi chiusi. Lo sentii subito fragile sotto la sua scorza da duro, bisognoso di venirsene; non era una violenza, lui mi desiderava e io mi sentii immediatamente lusingato di poterlo compiacere.
«Stè ferme…» urlava di continuo mentre con l’uccello andava su e giù fino in gola stringendomi la testa con le sue mani dure come morse; «’te ammazze si nu’ ste ferme!» diceva quando cominciavo a dibattermi perché non riuscivo a respirare col suo cazzo in gola. Ma non avevo paura, lo trovavo normale che si dovesse comportare così, era solo colpa mia se non lo riuscivo a prendere tutto. «Puttana te ammazze!» e giù uno schiaffone, quando venivo preso dalla tosse e doveva levare il cazzo per farmi riprendere fiato. “Me la sono cercata” pensavo “devo prenderglielo meglio” e più mi maltrattava e più lo desideravo.
Insieme a Gaetano, in montagna, c’erano altri due pastori, molto più giovani di lui, due suoi dipendenti. Li frequentavo da un po’, tutti i pomeriggi, da quando ci avevo preso confidenza una sera al bar di Montescoparolo, un paesino abruzzese dove passavo le vacanze estive da ragazzo. Parlando del più e del meno, gli avevo chiesto se fossi potuto salire qualche volta da loro per fare delle foto. Si erano mostrati subito entusiasti della cosa, quasi eccitati, «Cert, dai, veni! Che ce divertim!» aveva detto uno sottovoce, mentre l’altro mi carezzava le cosce nude. «Aè, ma sulu ddà 'u pomeriggio» li aveva interrotti Gaetano sentendo la conversazione di spalle, il più anziano e loro datore di lavoro, «che chisti devono faticà» e poi aveva aggiunto qualcosa che non avevo capito. Già il pomeriggio successivo ero salito su da loro, quando dopo aver mangiato e sistemato le pecore, se ne stavano in panciolle a fumare o bere un po’ di vino.
Giovanni, il più vivace, mi aveva fatto fare il giro dell’allevamento, fatto vedere i boschi, i ruscelli e nel mentre si era sfogato con me «So' masciu, hò li mè bisogni. Scopë sóle cu le pèccore». Aveva quarantasei anni e, a dirla tutta, era considerato il matto del paese, senza famiglia, senza una donna, viveva di pastorizia stagionale e di espedienti. Delle volte, mi raccontava, legava una pecora e se la faceva, altrimenti utilizzava la sua collezione di fumetti erotici. «Le vòi vedè?» mi aveva detto e accompagnatomi presso un grosso tronco cavo, mi aveva mostrato la sua collezione. Ne vedemmo qualcuno, quando all’improvviso mi chiese qualcosa in dialetto che non capii, poi si avvicinò e con molta naturalezza mi prese la mano e se la mise sul cazzo. Mi spaventai un po’; era un tipo poco raccomandabile e lì, da soli, avrebbe potuto facilmente farmi del male. «Va bene, basta che non lo dici a nessuno» dissi senza pensarci troppo, anche un po’ incuriosito da questa cosa, ma lui noncurante delle mie parole, tenendomi stretta la mano, tirò fuori il cazzo e mi fece capire che dovevo fargli una sega. «Non c’è nulla di male» continuai a biascicare, più per me che per lui che smaniava per venire, «lo faccio per aiutarti, solo per te come amico, ma non sono frocio». Andavo su e giù sul suo uccello duro quando, ad un tratto, mi afferrò con tutta la sua forza e, tenendomi a terra con una mano, con l’altra mi abbassò i pantaloncini da tennis e mi salì sopra. Sentii il suo cazzo duro tra le natiche andare su e giù, tentando di penetrarmi, finché non sborrò schizzandomi sulla schiena.
Dopo essersi un po’ divertito con la mia bocca Gaetano mi fece distendere sul tavolaccio, a gambe aperte. Prese un dito di burro rancido dal secchio e me lo spalmò nell’ano; poi con tutta calma me lo mise dentro, spingendo finché le sue palle non si schiacciarono sulle mie natiche. Mi scopava come fossi una delle sue pecore, o la sua brutta moglie, con esperienza, controllando di non venirsene troppo presto. Qualsiasi altro ragazzo avrebbe avuto paura di lui, almeno disgusto di un uomo anziano e violento, con un alito irrespirabile e la puzza di pecora che faceva venire il vomito; sarebbe scappato o ribellato. Invece io me ne stavo lì buono buono, col suo grosso uccello duro nel culo, attendendo al suo piacere. Gli carezzavo le natiche secche e muscolose ammirato della sua potente virilità. Sborrò con calma nel mio culo, tenendomi fermo per il collo, fino l’ultima goccia del suo seme. «Puliscilu» e fattomi scendere dal tavolo, mi fece inginocchiare e me lo rimise in bocca per farselo pulire. Poi si tirò su le braghe e se ne andò senza una parola.
Quella prima volta con Giovanni non ci aveva visto nessuno e quando ebbe finito ero scappato come un matto giù in paese, tra le sue risate. “Lassù non ci salgo più manco morto” mi ero promesso tra me e me mentre a casa mi lavavo, “storia finita”. Ma la notte ripensando a cosa era successo… Forse se Giovanni fosse stato lì… In fondo nessuno lo avrebbe saputo, cosa c’era di male? E mi feci una sega. Il giorno dopo ero di nuovo in montagna. Giovanni mi portò di nuovo al suo rifugio, tra le risatine di Giuseppe, a cui aveva raccontato tutto. «Lo sapeve che jè na puttàna» diceva ridendo mentre mi spingeva la testa sul suo cazzo duro.
Giuseppe invece per qualche giorno ci ignorò. Non gli interessava un frocio, diceva, «Nu me ne 'mporta nènt' 'e nu froce», lui aveva la donna giù in pianura. Ma poi ci ripensò, perchè aveva bisogno anche lui di svuotarsi le palle e, il terzo giorno, si unì a noi nel bosco. Era coetaneo di Giovanni ma più alto, muscoloso con un bel viso tutto rosso, cotto dal sole. Quando Giovanni ebbe finito venne lui, con la faccia da ebete, ed un’aria di superiorità come stesse li solo per farmi un favore, senza nessuna empatia. Era tanto che non lo faceva, ecco perché era lì diceva, altrimenti… bisogna divertirsi pure un po’, un maschio ha diritto… «Nu maschje tène ddiritte no?». Parlava di continuo, come volesse giustificarsi con me e se provavo a rispondere «Stai zitte!». Gli dispiaceva, diceva, ma «u gioco 'u tene 'u masch» e io dovevo accontentarlo in tutto perché era «Megliu purè pe tè» e poi «T’piace! No?». Prima in bocca, poi nel culo, poi di nuovo in bocca. Dopo aver sborrato tre volte mi spinse lontano da lui con una pedata nel culo e si alzò in piedi. Mi si parò davanti ancora nudo, tenendomi a terra con un piede sul petto, la sigaretta tra le labbra e l’aria soddisfatta; il cazzo pendeva grosso tra le sue gambe pelose, ancora tutto scappellato. Poi «mo sta ferme!» e cominciò a pisciarmi addosso, prima in bocca «Apre la bocca!», prendendo bene la mira, poi su tutto il viso, godendo della sua bravata.
La cosa divenne subito ogni giorno più impegnativa. «Tè si 'na fèmmene, l'ài da capì. Devi sta mut. Faje chelle che te dicemè» «Ma mi fate male…» e giù un colpo di frustino sul culo o un ceffone «devi sta mut!» ogni volta che provavo a lamentarmi. Le vessazioni erano all’ordina del giorno e sempre più estreme, «beve tutto, forza, nun fa' storie» mi dicevano dopo aver riempito un bicchiere con la loro urina calda e schiumosa. Ogni giorno ce ne voleva di più per eccitarsi e divertirsi e più mi sottomettevano più i loro cazzi diventavano duri. Lo prendevo nel culo anche sette o otto volte a pomeriggio e la sera non potevo sedermi per il dolore. “Non ci vado più, è troppo, sono degli stronzi maiali” mi dicevo ogni volta, poi il pomeriggio successivo ero di nuovo lì a farmi chiavare come una puttana.
Gaetano li beccò dopo un po’, giù al laghetto, dietro una roccia dove ci nascondevamo. Non trovava i suoi lavoranti ed era andato a cercarli, ma sapeva bene cosa stessero facendo. Giovanni era sdraiato nudo sull’erba, con il cazzo penzoloni e la sigaretta in bocca, avendo da poco ejaculato nella mia gola. Io ero sopra a Giuseppe, tutto rosso, col suo cazzo nel culo mentre lui mi stringeva i fianchi e mi faceva andare su e giù, ma lo strillo del capo interruppe si suo smorzacandela. Ci fu un bel cazziatone per i due ed anche per me, ma Gaetano sapeva bene che una valvola di sfogo per i suoi uomini ci voleva. Fu per questo che quando se ne andò, Giuseppe infuriato, mi riportò dietro la roccia e finì quello che aveva incominciato, bestemmiando.
Quello lo racconta a tutti, pure a tuo padre, meglio che lo fai anche con lui, così sta zitto, mi dicevano. Sì, a lui pure gli piace, ci devi andare «lo devi fà!». Non so se Gaetano li avesse spinti a chiedermi quella cosa o lo avessero pensato loro, tanto per farlo stare buono, fatto sta che quando mi chiamò la prima volta, come ho già detto, non rimasi sorpreso. Non fu mai un amante regolare, come gli altri due, solo di tanto in tanto pretendeva dei servizi. Lui non parlava mai, se non per darmi ordini ed il suo piacere era l’unico obbiettivo su cui dovevo concentrarmi. Non aveva bisogno di pratiche particolari; gli dovevo solo far indurire il cazzo, poi decideva lui cosa fare.
Quando l’estate cominciò a rovinarsi, e arrivarono le prime piogge, si stava meno all’aperto e il lavoro si svolgeva nell’ovile. Tra poco sarei partito e loro pure avrebbero terminato la stagione. «Vénne su da la matina!» mi disse Gaetano un giorno «Che teng' pure amici…» Anche il secondo gregge di Gaetano, infatti, era tornato e con le pecore i cani e due pastori che le avevano curate durante l’estate, Adil e Zamir, due uomini stranieri. Il lavoro ora era più impegnativo; pulire, mungere, accudire. «Sulu pe' poche jurne… dopo 'ndamo via» aveva seguitato Gaetano.
Nel capanno un po’ isolato, quello sotto la duna erbosa, ci aveva piazzato una branda con due vecchi materassi sfondati, un paio di secchi con acqua e sapone, ed un po’ di stracci vecchi. «Quisti te fanno divertì!» mi aveva detto sicuro, come mi stesse facendo un favore. Poi lui era uscito ed era immediatamente entrato Zamir. Con ancora la sigaretta tra le labbra mi si era avventato addosso e, spintomi con forza in ginocchio davanti a lui, si era abbassato i pantaloni. Aveva sorriso compiaciuto, scoprendo gli incisivi d’oro, tirando fuori il cazzo grosso e duro come a dire “guarda che ti do”. Io avevo aperto subito la bocca senza fiatare, preoccupato di rovinare il suo desiderio. Un paio di botte ed era subito venuto, tenendomi la testa ferma, per farmi ingoiare il suo seme. Parlava poco italiano, ma sembrava come volesse scusarsi di qualcosa, con ancora la sigaretta da finire. Cercai di capirlo ma non ci fu verso. Si rivestì ed uscì.
Adil arrivò subito dopo. Non riuscii nemmeno a vederlo bene in viso che mi spinse carponi e subito il suo uccello cominciò a spingere tra le mie chiappe. Faceva male e lo sapeva, ridacchiava sadicamente ogni volta che sobbalzavo per le fitte lancinanti che mi provocava. Si tratteneva, ci sapeva fare e spingeva sempre di più fino in fondo, con la pancia muscolosa e le palle bollenti schiacciate sulle mie natiche. Contai i fiotti di sborra quando venne; due, tre, quattro… su e giù lentamente, godendo come un maiale, cinque, sei… Quando me lo sfilò dal culo potei finalmente vederlo in viso; un uomo terrificante, i denti radi e neri e con quell’aria arrogante di chi ti palesa tutto il suo disprezzo. Ti odio, pensai d’acchito, ma poi mi resi conto che lui stava solo recitando il suo ruolo ed io ero li per essere la sua troia; allora aprii la bocca e lasciai che si divertisse ancora un po’ con me.
Quando rientrò Gaetano mi disse serio «lavati bene! Che te hanno fatt' chellù maiali? Tenevano le palle belle piene, eh?» ridacchiando. Poi se lo fece un po’ succhiare ma, evidentemente eccitato da tutto quello che stava succedendo, non riuscì a controllarsi ed ejaculò subito. Quando ebbero finito anche gli altri due si fece ora di pranzo. Mangiammo qualcosa poi, subito, a turno mi riscoparono tutti, eccetto Gaetano.
2
Fadil mi teneva stretto per il collo, come al suo solito, controllando la presa per permettermi di respirare solo quando ubbidivo ai suoi ordini. Impossibile liberarsi, era un uomo forte e brutale che pretendeva un’assoluta sottomissione al suo piacere. Il suo cazzo era come un grosso serpente squamoso che possedeva il mio ventre con prepotenza. Mi guardava fisso negli occhi per controllare la mia paura, con lo sguardo truce e gli occhi iniettati di sangue; e ad ogni colpo del suo bacino faceva una smorfia di soddisfazione, come a dire “senti che macho che sono”, con l’aria arrogante di chi sta dando una lezione a qualcuno che se l’è cercata.
Quando l’anno successivo ero salito da Gaetano, per salutarlo, i suoi vecchi lavoranti non c’erano più. «Li tempi cagnano» mi aveva detto ed ora sono arrivati dall’est queste persone, che hanno bisogno di starsene un po’ nascoste, lontani dal consorzio civile. «Piglianu nu pocu e stanne bonu» mi aveva detto «sòne pòveri Criste» e vogliono solo che nessuno gli rompa i «cuglione». Poi mi aveva portato dietro una roccia e con molta naturalezza, continuando a parlare lo aveva tirato fuori. «Che mo vò' l’invito?» aveva detto un po’ ironico, «Vène ccà!» e spintomi a terra me lo aveva messo in bocca, tutto soddisfatto. Quando ebbe finito si ricompose e si accese una sigaretta e, tra un tiro e l’altro, mi spiegò confusamente la storia di Fadil e Klevi, due uomini fuggiti dall’Albania e ricercati in Italia per certi reati. «Ma però nun hànne fattë gnente. So' bravi… Ti diverti no?». «Non so, non li conosco, poi… mi hai detto sono pericolosi», «Sì, sò genti periculose ma a te non te fanno ninte, t'ê lo vonno mette sulu 'ndó lu culu, famme stu favore!».
Gaetano era molto strano quell’anno, sembrava come fosse sotto scacco con quei due. Stavo per andarmene quando si era avvicinato all’improvviso Fadil. «Conosco te» mi disse «tu voi questo» e afferratami la mano se l’era messa sul pacco duro, tra le risatine di Gaetano. «Falle divertì 'nu poco, dai! Ha 'n' bisogn' assaj che te costa!» disse verso di me e «portatelo ne lu capanne» verso di lui. Fadil non se lo fece ripetere due volte e, incurante della mia volontà, mi trascinò nel capanno. «Fa vedere nudo! Troia!» aveva ordinato mentre chiudeva il chiavistello e siccome ero rimasto fermo, non avendo alcuna intenzione di rimanere con lui «Fa vedere nudo, ho detto! Troia!» riurlò dandomi uno schiaffone. Intimorito non me lo feci ripetere due volte e mi spogliai velocemente. Fadil prese a girarmi intorno minaccioso, studiando attentamente il mio corpo glabro, un po’ in sovrappeso; se la rise un po’, indicando il mio cazzetto moscio «ma hai bel culo, mi piace, sali su tavolo che ti faccio fare femmina, dai». Il suo pacco scoppiava sotto i pantaloni da lavoro un po’ stretti; era arrapato in modo molto pericoloso e dopo un altro paio di schiaffi che mi predisposero al suo servizio completo «nu perde tempo!» mi sedetti sul tavolaccio ed allargai le cosce. Lui si abbassò i pantaloni fino ai piedi e, tenendomi fermo, si leccò il medio e me lo infilò nel culo, facendomi sobbalzare. Poi tolse il dito e me lo mise in bocca e mentre glielo succhiavo mi infilò la cappella dentro. Spinse un po’ ed in un attimo me lo mise tutto nel culo. Prese a chiavarmi a ritmo lento, tirandolo fuori quasi tutto ogni volta e ripenetrandomi dolorosamente, madido di sudore, con delle bordate secche e decise che facevano tremare le mie tettine come dei budini. Mi teneva fermo con la mano su collo, a sua disposizione e quando cominciò a venire infilò il cazzo più in profondità che poteva, come volesse fecondarmi e non sprecare nemmeno una goccia del suo sperma.
«Nun te vestì!» mi aveva detto Klevi entrando con calma nel capanno e chiudendo il paletto. Fadil si era fatto succhiare un po’ l’uccello per farselo pulire prima di andarsene, si era tranquillizzato e poi si era tirato su i pantaloni ed era uscito lasciando la porta aperta per Klevi che aspettava impaziente. Klevi era un uomo, di poche parole. Voleva solo farsi una scopata con una troia, tutto qui, diceva. Ma quando se lo tirò fuori, per mettermelo in bocca, una zaffata maleodorante ci investì ambedue e lo mise in evidente imbarazzo. Il cazzo duro, grosso e voglioso si ammosciò platealmente.
Sapevo bene che Klevi era lì solo per violentarmi che non avrebbe meritato alcuna comprensione da parte mia. Ti si è ammosciato? Cazzi tuoi! Ma non ci riuscii. Non volevo che si sentisse umiliato da questa défaillance, che dovesse rinunciare ad una scopata appagante. Per questo presi l’iniziativa, aprii la bocca e cominciai a succhiarglielo con passione, finché non divenne di nuovo aggressivo e maschio, di nuovo sicuro di sè. «Sono ancora sporco» gli dissi mostrandogli lo sperma del suo amico tra le cosce. «Zuske! troia…» urlò tirandomi due manate sulle chiappe dopo avermi fatto girare carponi, ed infilando subito dopo il suo cazzo bagnato nel mio culo.
Sapevo che non essere stato il primo lo avrebbe umiliato, non aver potuto marcare il suo territorio, ma nello stesso tempo la sborrata del suo amico lo eccitava e gli fece perdere subito il controllo. La prima fu molto veloce poi continuò, col cazzo un po’ più morbido, finché non se ne fece un’altra.
«Quisti ànno da scopà. So’ nervusi» mi disse Gaetano giorni dopo, quando finalmente tornai in montagna. “Non ci vado più, è troppo pericoloso”, mi ero detto, “sono stato un pazzo!”. Oltretutto mi faceva così male il culo. «Quì ci vènni e zìtt. Se nu' so' cazzi tuoje» aveva continuato Gaetano dandomi uno schiaffetto, e per il culo non dovevo preoccuparmi, era normale, perché era da un anno che non mi chiavavano e mi ero disabituato. «Lu culu deve fà male, è cchiù bellu… po' te ‘mbiuti. Fai vedé!» e per vedere mi abbassò i pantaloncini da tennis e mi mise un dito dentro al culo, dopo averlo unto nel burro. Rimasi fermo a farmi sditalinare un po’ poi, eccitato, mi sedetti sul suo cazzo duro e lo feci venire. «Porte 'u burre!» portati il burro, mi disse, spedendomi dai due aguzzini.
Benchè Klevi e Fadil non fossero più così giovani la loro virilità era incredibile, almeno secondo me che dovevo subirla. Quando salivo su mi chiavavano un paio di volte per uno ma poteva capitare anche di più. Per quei due ero solo un buco dove mettere i loro cazzi arrapati, un frocetto da usare per svuotarsi le palle. Non c’era mai complicità, loro erano i duri, i maschi, gli adulti ed io un ragazzetto da comandare e sfottere con ostentato disprezzo per quello che mi lasciavo fare senza ribellarmi. Ciò nonostante, sebbene spesso ci rimanessi male, risalivo ogni volta da loro e continuavo a subire ogni umiliazione e angheria che ritenessero necessaria per rendere più piacevole il loro orgasmo. Era proprio quel momento che aspettavo ogni volta con ansia, quando al culmine della mia degradazione e sofferenza arrivava il loro piacere e finalmente percepivo la loro inconfessabile gratitudine. Finché i due albanesi non erano completamente soddisfatti non andavo mai via, aspettavo anche ore, fino l’ultima goccia di sperma e di piacere.
«Lo sacc' che sim' strunz! Ma te dev' 'mparà che è accussì che funziona. Ce sta chi mette e chi prende, nun ce pozz' fa' nient’» mi diceva Gaetano ogni volta che mi vedeva un po’ indeciso «E’normàle, tu si' natu pe' piglià 'na botta, che ce vò fà. Loro te lo mettono e tu li devi solo ringrazià, da retta a me! Pèchè nun vèd' l'ora che te s' ingroppene, di ‘o vero!». Non sopportavo le sue parole così dirette ma sapevo bene che erano vere ed ogni volta risalivo da loro, senza che nessuno mi ci costringesse, ansioso di sentirmi un oggetto di piacere. «Te piace li maschi veri, belli tosti, ch’ te fanno fà la troia, verè?» mi aveva detto un certo Gianni, un tipo di passaggio, a cui mi avevano prestato per un paio d’ore.
Le ultime due notti dell’estate le passai in montagna, nel capanno dell’anno precedente. Oltre a Klevi e Fadil, Gaetano aveva fatto venire altri uomini a cui aveva promesso il mio culo. «Li fai scopà tutti, accussì finimè 'n bellezza» mi aveva detto «Te faccio portà na bella rimembranza giù! Cu tutti sti cazzi te stai bbone pe' n’annu!». Per due notti uno entrava e l’altro usciva, ognuno con i suoi tempi, ognuno con i suoi modi, ognuno con la sua saggezza e la sua esperienza, ognuno con i suoi dolori e le sue gioie. Loro si svuotavano ed io mi riempivo di vita ed energia.
PS graditi commenti, critiche, suggerimenti per il seguito
Quando Gaetano, il pastore più anziano, mi chiamò la prima volta, con quel fischio con cui radunava le pecore mi sentii morire dalla vergogna. Era un uomo ultrasessantenne, molto rozzo, ma non era solo per questo; mi vergognavo perché conosceva molto bene i miei genitori e doverlo fare con lui era troppo per me. Tuttavia sapevo bene che non potevo rifiutarmi dopo tutto quello che era successo.
Dopo il fischio, al suo cenno, mi avvicinai all’entrata dell’ovile tutto mogio mogio, sperando che si trattasse solo di uno scherzo; invece lui, imperterrito e serio, mi spinse dentro e socchiuse la porta. Le pecore a quell’ora erano tutte fuori al pascolo ma la puzza era comunque fortissima. Mi indicò un angoletto in disparte, dove c’era una panca lurida di legno. Intimorito, prima che lui me lo chiedesse, mi tolsi la maglietta ed i pantaloncini da tennis e rimasi in slip.
«Pure le mutande che aggia chiavà!» strillò, senza alcun imbarazzo e, quando me le tolsi mi fece girare e mi tastò con forza le chiappe, per saggiarne la bontà, come fossi un animale in vendita. Poi, con calma mi fece inginocchiare, si abbassò i pantaloni luridi alle ginocchia e mi infilò il suo grosso cazzo sporco in bocca. Era duro come un sasso, caldo, smanioso e non appena avvertì il piacere del contatto con la mia lingua, cominciò a mugolare con gli occhi chiusi. Lo sentii subito fragile sotto la sua scorza da duro, bisognoso di venirsene; non era una violenza, lui mi desiderava e io mi sentii immediatamente lusingato di poterlo compiacere.
«Stè ferme…» urlava di continuo mentre con l’uccello andava su e giù fino in gola stringendomi la testa con le sue mani dure come morse; «’te ammazze si nu’ ste ferme!» diceva quando cominciavo a dibattermi perché non riuscivo a respirare col suo cazzo in gola. Ma non avevo paura, lo trovavo normale che si dovesse comportare così, era solo colpa mia se non lo riuscivo a prendere tutto. «Puttana te ammazze!» e giù uno schiaffone, quando venivo preso dalla tosse e doveva levare il cazzo per farmi riprendere fiato. “Me la sono cercata” pensavo “devo prenderglielo meglio” e più mi maltrattava e più lo desideravo.
Insieme a Gaetano, in montagna, c’erano altri due pastori, molto più giovani di lui, due suoi dipendenti. Li frequentavo da un po’, tutti i pomeriggi, da quando ci avevo preso confidenza una sera al bar di Montescoparolo, un paesino abruzzese dove passavo le vacanze estive da ragazzo. Parlando del più e del meno, gli avevo chiesto se fossi potuto salire qualche volta da loro per fare delle foto. Si erano mostrati subito entusiasti della cosa, quasi eccitati, «Cert, dai, veni! Che ce divertim!» aveva detto uno sottovoce, mentre l’altro mi carezzava le cosce nude. «Aè, ma sulu ddà 'u pomeriggio» li aveva interrotti Gaetano sentendo la conversazione di spalle, il più anziano e loro datore di lavoro, «che chisti devono faticà» e poi aveva aggiunto qualcosa che non avevo capito. Già il pomeriggio successivo ero salito su da loro, quando dopo aver mangiato e sistemato le pecore, se ne stavano in panciolle a fumare o bere un po’ di vino.
Giovanni, il più vivace, mi aveva fatto fare il giro dell’allevamento, fatto vedere i boschi, i ruscelli e nel mentre si era sfogato con me «So' masciu, hò li mè bisogni. Scopë sóle cu le pèccore». Aveva quarantasei anni e, a dirla tutta, era considerato il matto del paese, senza famiglia, senza una donna, viveva di pastorizia stagionale e di espedienti. Delle volte, mi raccontava, legava una pecora e se la faceva, altrimenti utilizzava la sua collezione di fumetti erotici. «Le vòi vedè?» mi aveva detto e accompagnatomi presso un grosso tronco cavo, mi aveva mostrato la sua collezione. Ne vedemmo qualcuno, quando all’improvviso mi chiese qualcosa in dialetto che non capii, poi si avvicinò e con molta naturalezza mi prese la mano e se la mise sul cazzo. Mi spaventai un po’; era un tipo poco raccomandabile e lì, da soli, avrebbe potuto facilmente farmi del male. «Va bene, basta che non lo dici a nessuno» dissi senza pensarci troppo, anche un po’ incuriosito da questa cosa, ma lui noncurante delle mie parole, tenendomi stretta la mano, tirò fuori il cazzo e mi fece capire che dovevo fargli una sega. «Non c’è nulla di male» continuai a biascicare, più per me che per lui che smaniava per venire, «lo faccio per aiutarti, solo per te come amico, ma non sono frocio». Andavo su e giù sul suo uccello duro quando, ad un tratto, mi afferrò con tutta la sua forza e, tenendomi a terra con una mano, con l’altra mi abbassò i pantaloncini da tennis e mi salì sopra. Sentii il suo cazzo duro tra le natiche andare su e giù, tentando di penetrarmi, finché non sborrò schizzandomi sulla schiena.
Dopo essersi un po’ divertito con la mia bocca Gaetano mi fece distendere sul tavolaccio, a gambe aperte. Prese un dito di burro rancido dal secchio e me lo spalmò nell’ano; poi con tutta calma me lo mise dentro, spingendo finché le sue palle non si schiacciarono sulle mie natiche. Mi scopava come fossi una delle sue pecore, o la sua brutta moglie, con esperienza, controllando di non venirsene troppo presto. Qualsiasi altro ragazzo avrebbe avuto paura di lui, almeno disgusto di un uomo anziano e violento, con un alito irrespirabile e la puzza di pecora che faceva venire il vomito; sarebbe scappato o ribellato. Invece io me ne stavo lì buono buono, col suo grosso uccello duro nel culo, attendendo al suo piacere. Gli carezzavo le natiche secche e muscolose ammirato della sua potente virilità. Sborrò con calma nel mio culo, tenendomi fermo per il collo, fino l’ultima goccia del suo seme. «Puliscilu» e fattomi scendere dal tavolo, mi fece inginocchiare e me lo rimise in bocca per farselo pulire. Poi si tirò su le braghe e se ne andò senza una parola.
Quella prima volta con Giovanni non ci aveva visto nessuno e quando ebbe finito ero scappato come un matto giù in paese, tra le sue risate. “Lassù non ci salgo più manco morto” mi ero promesso tra me e me mentre a casa mi lavavo, “storia finita”. Ma la notte ripensando a cosa era successo… Forse se Giovanni fosse stato lì… In fondo nessuno lo avrebbe saputo, cosa c’era di male? E mi feci una sega. Il giorno dopo ero di nuovo in montagna. Giovanni mi portò di nuovo al suo rifugio, tra le risatine di Giuseppe, a cui aveva raccontato tutto. «Lo sapeve che jè na puttàna» diceva ridendo mentre mi spingeva la testa sul suo cazzo duro.
Giuseppe invece per qualche giorno ci ignorò. Non gli interessava un frocio, diceva, «Nu me ne 'mporta nènt' 'e nu froce», lui aveva la donna giù in pianura. Ma poi ci ripensò, perchè aveva bisogno anche lui di svuotarsi le palle e, il terzo giorno, si unì a noi nel bosco. Era coetaneo di Giovanni ma più alto, muscoloso con un bel viso tutto rosso, cotto dal sole. Quando Giovanni ebbe finito venne lui, con la faccia da ebete, ed un’aria di superiorità come stesse li solo per farmi un favore, senza nessuna empatia. Era tanto che non lo faceva, ecco perché era lì diceva, altrimenti… bisogna divertirsi pure un po’, un maschio ha diritto… «Nu maschje tène ddiritte no?». Parlava di continuo, come volesse giustificarsi con me e se provavo a rispondere «Stai zitte!». Gli dispiaceva, diceva, ma «u gioco 'u tene 'u masch» e io dovevo accontentarlo in tutto perché era «Megliu purè pe tè» e poi «T’piace! No?». Prima in bocca, poi nel culo, poi di nuovo in bocca. Dopo aver sborrato tre volte mi spinse lontano da lui con una pedata nel culo e si alzò in piedi. Mi si parò davanti ancora nudo, tenendomi a terra con un piede sul petto, la sigaretta tra le labbra e l’aria soddisfatta; il cazzo pendeva grosso tra le sue gambe pelose, ancora tutto scappellato. Poi «mo sta ferme!» e cominciò a pisciarmi addosso, prima in bocca «Apre la bocca!», prendendo bene la mira, poi su tutto il viso, godendo della sua bravata.
La cosa divenne subito ogni giorno più impegnativa. «Tè si 'na fèmmene, l'ài da capì. Devi sta mut. Faje chelle che te dicemè» «Ma mi fate male…» e giù un colpo di frustino sul culo o un ceffone «devi sta mut!» ogni volta che provavo a lamentarmi. Le vessazioni erano all’ordina del giorno e sempre più estreme, «beve tutto, forza, nun fa' storie» mi dicevano dopo aver riempito un bicchiere con la loro urina calda e schiumosa. Ogni giorno ce ne voleva di più per eccitarsi e divertirsi e più mi sottomettevano più i loro cazzi diventavano duri. Lo prendevo nel culo anche sette o otto volte a pomeriggio e la sera non potevo sedermi per il dolore. “Non ci vado più, è troppo, sono degli stronzi maiali” mi dicevo ogni volta, poi il pomeriggio successivo ero di nuovo lì a farmi chiavare come una puttana.
Gaetano li beccò dopo un po’, giù al laghetto, dietro una roccia dove ci nascondevamo. Non trovava i suoi lavoranti ed era andato a cercarli, ma sapeva bene cosa stessero facendo. Giovanni era sdraiato nudo sull’erba, con il cazzo penzoloni e la sigaretta in bocca, avendo da poco ejaculato nella mia gola. Io ero sopra a Giuseppe, tutto rosso, col suo cazzo nel culo mentre lui mi stringeva i fianchi e mi faceva andare su e giù, ma lo strillo del capo interruppe si suo smorzacandela. Ci fu un bel cazziatone per i due ed anche per me, ma Gaetano sapeva bene che una valvola di sfogo per i suoi uomini ci voleva. Fu per questo che quando se ne andò, Giuseppe infuriato, mi riportò dietro la roccia e finì quello che aveva incominciato, bestemmiando.
Quello lo racconta a tutti, pure a tuo padre, meglio che lo fai anche con lui, così sta zitto, mi dicevano. Sì, a lui pure gli piace, ci devi andare «lo devi fà!». Non so se Gaetano li avesse spinti a chiedermi quella cosa o lo avessero pensato loro, tanto per farlo stare buono, fatto sta che quando mi chiamò la prima volta, come ho già detto, non rimasi sorpreso. Non fu mai un amante regolare, come gli altri due, solo di tanto in tanto pretendeva dei servizi. Lui non parlava mai, se non per darmi ordini ed il suo piacere era l’unico obbiettivo su cui dovevo concentrarmi. Non aveva bisogno di pratiche particolari; gli dovevo solo far indurire il cazzo, poi decideva lui cosa fare.
Quando l’estate cominciò a rovinarsi, e arrivarono le prime piogge, si stava meno all’aperto e il lavoro si svolgeva nell’ovile. Tra poco sarei partito e loro pure avrebbero terminato la stagione. «Vénne su da la matina!» mi disse Gaetano un giorno «Che teng' pure amici…» Anche il secondo gregge di Gaetano, infatti, era tornato e con le pecore i cani e due pastori che le avevano curate durante l’estate, Adil e Zamir, due uomini stranieri. Il lavoro ora era più impegnativo; pulire, mungere, accudire. «Sulu pe' poche jurne… dopo 'ndamo via» aveva seguitato Gaetano.
Nel capanno un po’ isolato, quello sotto la duna erbosa, ci aveva piazzato una branda con due vecchi materassi sfondati, un paio di secchi con acqua e sapone, ed un po’ di stracci vecchi. «Quisti te fanno divertì!» mi aveva detto sicuro, come mi stesse facendo un favore. Poi lui era uscito ed era immediatamente entrato Zamir. Con ancora la sigaretta tra le labbra mi si era avventato addosso e, spintomi con forza in ginocchio davanti a lui, si era abbassato i pantaloni. Aveva sorriso compiaciuto, scoprendo gli incisivi d’oro, tirando fuori il cazzo grosso e duro come a dire “guarda che ti do”. Io avevo aperto subito la bocca senza fiatare, preoccupato di rovinare il suo desiderio. Un paio di botte ed era subito venuto, tenendomi la testa ferma, per farmi ingoiare il suo seme. Parlava poco italiano, ma sembrava come volesse scusarsi di qualcosa, con ancora la sigaretta da finire. Cercai di capirlo ma non ci fu verso. Si rivestì ed uscì.
Adil arrivò subito dopo. Non riuscii nemmeno a vederlo bene in viso che mi spinse carponi e subito il suo uccello cominciò a spingere tra le mie chiappe. Faceva male e lo sapeva, ridacchiava sadicamente ogni volta che sobbalzavo per le fitte lancinanti che mi provocava. Si tratteneva, ci sapeva fare e spingeva sempre di più fino in fondo, con la pancia muscolosa e le palle bollenti schiacciate sulle mie natiche. Contai i fiotti di sborra quando venne; due, tre, quattro… su e giù lentamente, godendo come un maiale, cinque, sei… Quando me lo sfilò dal culo potei finalmente vederlo in viso; un uomo terrificante, i denti radi e neri e con quell’aria arrogante di chi ti palesa tutto il suo disprezzo. Ti odio, pensai d’acchito, ma poi mi resi conto che lui stava solo recitando il suo ruolo ed io ero li per essere la sua troia; allora aprii la bocca e lasciai che si divertisse ancora un po’ con me.
Quando rientrò Gaetano mi disse serio «lavati bene! Che te hanno fatt' chellù maiali? Tenevano le palle belle piene, eh?» ridacchiando. Poi se lo fece un po’ succhiare ma, evidentemente eccitato da tutto quello che stava succedendo, non riuscì a controllarsi ed ejaculò subito. Quando ebbero finito anche gli altri due si fece ora di pranzo. Mangiammo qualcosa poi, subito, a turno mi riscoparono tutti, eccetto Gaetano.
2
Fadil mi teneva stretto per il collo, come al suo solito, controllando la presa per permettermi di respirare solo quando ubbidivo ai suoi ordini. Impossibile liberarsi, era un uomo forte e brutale che pretendeva un’assoluta sottomissione al suo piacere. Il suo cazzo era come un grosso serpente squamoso che possedeva il mio ventre con prepotenza. Mi guardava fisso negli occhi per controllare la mia paura, con lo sguardo truce e gli occhi iniettati di sangue; e ad ogni colpo del suo bacino faceva una smorfia di soddisfazione, come a dire “senti che macho che sono”, con l’aria arrogante di chi sta dando una lezione a qualcuno che se l’è cercata.
Quando l’anno successivo ero salito da Gaetano, per salutarlo, i suoi vecchi lavoranti non c’erano più. «Li tempi cagnano» mi aveva detto ed ora sono arrivati dall’est queste persone, che hanno bisogno di starsene un po’ nascoste, lontani dal consorzio civile. «Piglianu nu pocu e stanne bonu» mi aveva detto «sòne pòveri Criste» e vogliono solo che nessuno gli rompa i «cuglione». Poi mi aveva portato dietro una roccia e con molta naturalezza, continuando a parlare lo aveva tirato fuori. «Che mo vò' l’invito?» aveva detto un po’ ironico, «Vène ccà!» e spintomi a terra me lo aveva messo in bocca, tutto soddisfatto. Quando ebbe finito si ricompose e si accese una sigaretta e, tra un tiro e l’altro, mi spiegò confusamente la storia di Fadil e Klevi, due uomini fuggiti dall’Albania e ricercati in Italia per certi reati. «Ma però nun hànne fattë gnente. So' bravi… Ti diverti no?». «Non so, non li conosco, poi… mi hai detto sono pericolosi», «Sì, sò genti periculose ma a te non te fanno ninte, t'ê lo vonno mette sulu 'ndó lu culu, famme stu favore!».
Gaetano era molto strano quell’anno, sembrava come fosse sotto scacco con quei due. Stavo per andarmene quando si era avvicinato all’improvviso Fadil. «Conosco te» mi disse «tu voi questo» e afferratami la mano se l’era messa sul pacco duro, tra le risatine di Gaetano. «Falle divertì 'nu poco, dai! Ha 'n' bisogn' assaj che te costa!» disse verso di me e «portatelo ne lu capanne» verso di lui. Fadil non se lo fece ripetere due volte e, incurante della mia volontà, mi trascinò nel capanno. «Fa vedere nudo! Troia!» aveva ordinato mentre chiudeva il chiavistello e siccome ero rimasto fermo, non avendo alcuna intenzione di rimanere con lui «Fa vedere nudo, ho detto! Troia!» riurlò dandomi uno schiaffone. Intimorito non me lo feci ripetere due volte e mi spogliai velocemente. Fadil prese a girarmi intorno minaccioso, studiando attentamente il mio corpo glabro, un po’ in sovrappeso; se la rise un po’, indicando il mio cazzetto moscio «ma hai bel culo, mi piace, sali su tavolo che ti faccio fare femmina, dai». Il suo pacco scoppiava sotto i pantaloni da lavoro un po’ stretti; era arrapato in modo molto pericoloso e dopo un altro paio di schiaffi che mi predisposero al suo servizio completo «nu perde tempo!» mi sedetti sul tavolaccio ed allargai le cosce. Lui si abbassò i pantaloni fino ai piedi e, tenendomi fermo, si leccò il medio e me lo infilò nel culo, facendomi sobbalzare. Poi tolse il dito e me lo mise in bocca e mentre glielo succhiavo mi infilò la cappella dentro. Spinse un po’ ed in un attimo me lo mise tutto nel culo. Prese a chiavarmi a ritmo lento, tirandolo fuori quasi tutto ogni volta e ripenetrandomi dolorosamente, madido di sudore, con delle bordate secche e decise che facevano tremare le mie tettine come dei budini. Mi teneva fermo con la mano su collo, a sua disposizione e quando cominciò a venire infilò il cazzo più in profondità che poteva, come volesse fecondarmi e non sprecare nemmeno una goccia del suo sperma.
«Nun te vestì!» mi aveva detto Klevi entrando con calma nel capanno e chiudendo il paletto. Fadil si era fatto succhiare un po’ l’uccello per farselo pulire prima di andarsene, si era tranquillizzato e poi si era tirato su i pantaloni ed era uscito lasciando la porta aperta per Klevi che aspettava impaziente. Klevi era un uomo, di poche parole. Voleva solo farsi una scopata con una troia, tutto qui, diceva. Ma quando se lo tirò fuori, per mettermelo in bocca, una zaffata maleodorante ci investì ambedue e lo mise in evidente imbarazzo. Il cazzo duro, grosso e voglioso si ammosciò platealmente.
Sapevo bene che Klevi era lì solo per violentarmi che non avrebbe meritato alcuna comprensione da parte mia. Ti si è ammosciato? Cazzi tuoi! Ma non ci riuscii. Non volevo che si sentisse umiliato da questa défaillance, che dovesse rinunciare ad una scopata appagante. Per questo presi l’iniziativa, aprii la bocca e cominciai a succhiarglielo con passione, finché non divenne di nuovo aggressivo e maschio, di nuovo sicuro di sè. «Sono ancora sporco» gli dissi mostrandogli lo sperma del suo amico tra le cosce. «Zuske! troia…» urlò tirandomi due manate sulle chiappe dopo avermi fatto girare carponi, ed infilando subito dopo il suo cazzo bagnato nel mio culo.
Sapevo che non essere stato il primo lo avrebbe umiliato, non aver potuto marcare il suo territorio, ma nello stesso tempo la sborrata del suo amico lo eccitava e gli fece perdere subito il controllo. La prima fu molto veloce poi continuò, col cazzo un po’ più morbido, finché non se ne fece un’altra.
«Quisti ànno da scopà. So’ nervusi» mi disse Gaetano giorni dopo, quando finalmente tornai in montagna. “Non ci vado più, è troppo pericoloso”, mi ero detto, “sono stato un pazzo!”. Oltretutto mi faceva così male il culo. «Quì ci vènni e zìtt. Se nu' so' cazzi tuoje» aveva continuato Gaetano dandomi uno schiaffetto, e per il culo non dovevo preoccuparmi, era normale, perché era da un anno che non mi chiavavano e mi ero disabituato. «Lu culu deve fà male, è cchiù bellu… po' te ‘mbiuti. Fai vedé!» e per vedere mi abbassò i pantaloncini da tennis e mi mise un dito dentro al culo, dopo averlo unto nel burro. Rimasi fermo a farmi sditalinare un po’ poi, eccitato, mi sedetti sul suo cazzo duro e lo feci venire. «Porte 'u burre!» portati il burro, mi disse, spedendomi dai due aguzzini.
Benchè Klevi e Fadil non fossero più così giovani la loro virilità era incredibile, almeno secondo me che dovevo subirla. Quando salivo su mi chiavavano un paio di volte per uno ma poteva capitare anche di più. Per quei due ero solo un buco dove mettere i loro cazzi arrapati, un frocetto da usare per svuotarsi le palle. Non c’era mai complicità, loro erano i duri, i maschi, gli adulti ed io un ragazzetto da comandare e sfottere con ostentato disprezzo per quello che mi lasciavo fare senza ribellarmi. Ciò nonostante, sebbene spesso ci rimanessi male, risalivo ogni volta da loro e continuavo a subire ogni umiliazione e angheria che ritenessero necessaria per rendere più piacevole il loro orgasmo. Era proprio quel momento che aspettavo ogni volta con ansia, quando al culmine della mia degradazione e sofferenza arrivava il loro piacere e finalmente percepivo la loro inconfessabile gratitudine. Finché i due albanesi non erano completamente soddisfatti non andavo mai via, aspettavo anche ore, fino l’ultima goccia di sperma e di piacere.
«Lo sacc' che sim' strunz! Ma te dev' 'mparà che è accussì che funziona. Ce sta chi mette e chi prende, nun ce pozz' fa' nient’» mi diceva Gaetano ogni volta che mi vedeva un po’ indeciso «E’normàle, tu si' natu pe' piglià 'na botta, che ce vò fà. Loro te lo mettono e tu li devi solo ringrazià, da retta a me! Pèchè nun vèd' l'ora che te s' ingroppene, di ‘o vero!». Non sopportavo le sue parole così dirette ma sapevo bene che erano vere ed ogni volta risalivo da loro, senza che nessuno mi ci costringesse, ansioso di sentirmi un oggetto di piacere. «Te piace li maschi veri, belli tosti, ch’ te fanno fà la troia, verè?» mi aveva detto un certo Gianni, un tipo di passaggio, a cui mi avevano prestato per un paio d’ore.
Le ultime due notti dell’estate le passai in montagna, nel capanno dell’anno precedente. Oltre a Klevi e Fadil, Gaetano aveva fatto venire altri uomini a cui aveva promesso il mio culo. «Li fai scopà tutti, accussì finimè 'n bellezza» mi aveva detto «Te faccio portà na bella rimembranza giù! Cu tutti sti cazzi te stai bbone pe' n’annu!». Per due notti uno entrava e l’altro usciva, ognuno con i suoi tempi, ognuno con i suoi modi, ognuno con la sua saggezza e la sua esperienza, ognuno con i suoi dolori e le sue gioie. Loro si svuotavano ed io mi riempivo di vita ed energia.
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