Le avventure di Roxanne. cap.3: Il Marchese
di
Joe Cabot
genere
prime esperienze
AVVERTENZA: Il racconto "Le avventure di Roxanne: La confessione" pubblicata con la dicitura di cap.3 su EROTICIRACCONTI è in realtà l'episodio numero 4. L'età avanza e anche il vecchio Joe perde colpi. Buona lettura.
Le avventure di Roxanne. cap.3: Il Marchese
Il Marchese Denis d’Erot arrivò alla Magione con quello che apparve a tutti il suo schiavo negro, se non che pareva che questi fosse l’unica persona di cui avesse rispetto. Roxanne non l’aveva mai visto ordinare al suo negro alcunché, e sempre l’avrebbe visto rivolgersi a lui con affettuosa deferenza, chiamandolo “prince Koutou” e parlandogli, in una loro lingua primitiva, come se gli spiegasse gli usi ed i costumi locali di cui, non di rado, pareva ironizzare. In quelle occasioni, il colossale negro, apriva le sue labbra carnose rivelando una fila di denti bianchissimi, e rideva con la sua voce profonda, senza perdere una naturale grazia che, così pensò Roxanne, doveva essere propria della sua specie. Per il resto, tanto il negro che il suo padrone, vestivano all’ultima moda parigina: più formale Koutou, più eccentrico e sgargiante il d’Erot.
Con gli altri, invece, il Marchese d’Erot pareva costantemente intento a provocarli con la propria aria supponente e con le sue battutine a volte sagaci a volte persino elegantemente volgari. Il Conte pareva adorarlo e rideva di cuore alle sue sconsiderate frecciatine alla morale delle dame presenti, alla religione e finanche alla politica di Re Luigi. Si batteva le mani sulle grasse cosce e si divertiva ad aizzargli contro Baptiste, il giovane cappellano della Magione, che il più delle volte si limitava ad arrossire e balbettare.
Al tavolo del Conte erano ammesse poche persone. C’era la Contessa Annette, la sua seconda moglie, poco più che ventenne, e zia Claude, la sorella del Conte, che, ormai trentenne, poteva ormai dirsi zitella, nonostante fosse di aspetto ancora avvenente. Poi c’erano naturalmente i figli minori del Conte, François, coetaneo della giovane moglie del padre, e la piccola Giselle che sedeva accanto a Roxanne. Il fratello maggiore, Jean, era ufficiale di cavalleria e di lui Roxanne aveva visto solo un ritratto in alta uniforme. Poi c’erano il cappellano Baptiste e zio August, il fratello minore della defunta Contessa. Non è quindi difficile immaginare il trambusto che scatenò il Marchese d’Erot quando si presentò a cena con il suo negro. Si era presentato con un lieve ritardo e, vedendo che era stato preparato un solo posto a tavola, vi aveva fatto accomodare il suo negro dicendo al Conte che si considerava offeso perché, evidentemente, la servitù aveva ritenuto che non ci fosse posto per un Marchese squattrinato alla tavola di un Conte. Il Conte aveva dato un’ennesima dimostrazione della potenza della sua risata e aveva ordinato alla servitù: “presto, piatti per il Marchese squattrinato”.
Mentre le dame si erano limitate a distogliere imbarazzate lo sguardo, François aveva dato evidenti segni di fastidio per quell’intrusione. Aveva fissato il negro a bocca aperta, poi aveva squadrato il padre deluso dal suo contegno. A quel punto si era alzato da tavola sbattendo a terra il tovagliolo che aveva posato sulle ginocchia. Quindi se ne era andato quasi sbattendo contro la domestica che stava arrivando con le stoviglie per il Marchese.
«Non serve più, dolce Marie» disse il Marchese che evidentemente aveva già avuto modo di conoscere il nome della servetta «il Contessino è stato così gentile di cedermi il suo posto a tavola.»
Stavolta neanche il Conte, rise, più che altro umiliato dalla disobbedienza del figlio. Koutou invece disse qualcosa al Marchese nella sua lingua barbara e questi gli rispose, al solito, con cortese deferenza.
«Marchese, volete parlare una lingua cristiana, almeno a tavola!» intervenne zia Claude seccata.
«Avete ragione… signorina. Koutou mi stava dicendo che conosce l’usanza francese di sfidarsi a duello per risolvere le questioni d’onore. Voleva sapere se aveva per qualche ragione offeso il Contessino, ed in quel caso era disposto a dargli soddisfazione».
«E’ inaudito!» ribattè scandalizzata zia Claude.
«Infatti, gli ho spiegato che non è cortese sfidare il proprio ospite e lui ha capito. Per la gente di Koutou» concluse il Marchese con il suo sorrisetto ambiguo «l’ospitalità è sacra».
«E chi sarebbe, di grazia, la “gente” di Koto?» intervenne zio August.
«Koutou, caro August» lo corresse amabilmente il Marchese. «Anzi, principe Koutou, perché questo lui è».
«E dove l’avete trovato questo… principe».
«Beh…, in effetti lui ha trovato me. Mi trovavo nelle colonie, in Côte d’Ivoire, e mi persi nella foresta con pochi portatori. Vagammo a lungo ed alla fine, senza avvedercene, finimmo nel territorio del padre di Koutou. Fu proprio lui a catturarci. Per noi sarebbe stata morte certa, ma Koutou convinse il padre a regarmi a lui. Mi insegnò la loro lingua ed alla fine volle che lo portassi in Europa. Per conoscere i nostri usi e costumi.»
«Ma, come?» sbottò zia Cloude «voi sareste il servo di un negro.»
«Sono la guida di un principe, madamigella.» Ogni volta calcava l’accento sull’appellativo “madamigella”, ben sapendo quanto potesse infastidire la zitella.
«Che assurdità! E’ solo un selvaggio. Padre Baptiste sostiene che non hanno l’anima. Cioè sono animali, non uomini.»
Il Marchese sorrise.
«Che esseri soavi, le donne: così graziose e delicate, ma capaci anche di trovare energie insospettabili. E contrariamente a quanto dicono i più, possono essere intelligenti, non solo astute. Vedendo le loro labbra, così morbide e soavi, non si può credere che, quando sono consigliate oda un prete, da quelle bocche possa uscire una tale quantità di merda.»
Stavolta sentirono le risate del Conte fino alle stalle, mentre padre Baptiste per poco non si strozzava con il vinello che stava sorseggiando. Dalle labbra di zia Claude non uscì altro che un “ma…” senza seguito. Giselle e Roxanne seguivano il discorso impietrite.
«Eppure» insistette lo zio August, la cui mancanza di spirito gli impedì di capire l’offesa, «Eppure i negri sono di una specie diversa, è evidente».
«Lei conosce il cavaliere Thomas Dumas, August? No?, bene. Ed il Marchese de la Pailletterie?»
«Sì, è Generale d’artiglieria, se non erro» affermò orgoglioso lo zio August che si teneva tanto aggiornato sulle vicende militari quanto lontano dai campi di battaglia.
«Molto bene: Thomas Dumas, è suo figlio. Ha preso il cognome dalla madre, una schiava negra conosciuta ad Haiti.»
«Ma sarà sterile, come…, come un mulo».
«Non credo abbia figli, ma per come lo conosco io» e qui il Marchese fece l’occhiolino al Conte «non tarderà ad averne. Le donne parigine lo adorano».
«Bell’esempio,» intervenne infastidita zia Claude «un uomo che giace con una schiava negra. È immorale!»
«E poi» si intromise zio August «se questi negri sono come noi, perché vivono come scimmie, senza nessuna delle istituzioni che stanno facendo grande l’impero Francia?»
Il Marchese d’Erot si mise a sghignazzare, poi si represse quel tanto da tradurre la discussione a beneficio di Koutou, ed infine risero entrambi. Roxanne, vide che Zia Claude era rossa di rabbia e pareva sul punto di esplodere, e temeva che tra poco lei e Giselle sarebbero state congedate. Il Marchese però anticipò la sfuriata di zia Claude in modo bonario.
«Suvvia, suvvia. Parlate di morale? Di istituzioni? Beh, volete che vi racconti un bel paradosso? Io sono convinto che la specie umana può essere veramente felice solo in uno stato sociale nel quale non vi siano né re, né magistrati, né preti, né leggi, né tuo, né mio, né proprietà mobiliare, né proprietà fondiaria, né vizi, né virtù.»
Zia Claude aprì la bocca e poi la richiuse, come un pesce. Fu zio August a rispondere.
«Ma quindi state dicendo che nelle terre del vostro principe Koutou, prima dell’arrivo della civiltà, i selvaggi erano felici?»
«No, perché tra loro ci sono gli stessi uomini avidi, gelosi e violenti che altrove hanno costruito Roma dopo aver scavato un confine ed assassinato il proprio fratello.»
Giselle quella sera proprio non voleva dormire. Roxanne la sentiva bisbigliare commenti eccitati sul Marchese e su come aveva stuzzicato l’austera zia Claude. Poi sghignazzava su come François se l’era presa per la presenza del principe negro a tavola e tornava a sussurrare sulle parole immorali di d’Erot. Roxanne, non si sentiva così agitata da quando aveva visto il figlio del fattore (“Robert…”) spaccare legna del bosco e sapeva che c’era un’unica cosa che poteva calmarla. Nelle ombre della camera, quando Giselle li nominava, vedeva il sorriso di scherno e la bocca increspata del Marchese, oppure le mani grandi del principe Koutou che dentro erano era bianche e che avevano colpito particolarmente la cugina. Il pensiero di quelle mani sul suo corpo, per un attimo prese Roxanne dal di dentro e, senza accorgersene, la sua manina si era già infilata nel suo favo di miele, le sue dita già stringevano un capezzolo.
«Nanette, stai male?» le chiese Giselle sollevandosi su un gomito allarmata da un suo gemito.
Roxanne, colta in fallo, emerse dai suoi sogni spalancando gli occhi. Cercò di controllare il proprio respiro.
«Non è niente, Giselle, ora facciamo nanna.»
Nel buio percepiva che la cugina era ancora sul gomito e la stava guardando.
«Io lo so che fai» sussurrò. Poi riprese, dopo una pausa titubante «lo faccio anch’io, a volte.»
Roxanne rimase in silenzio, immobile, con le braccia rigide lungo i fianchi. Avrebbe voluto negare, ma non riusciva a fare altro che trattenere il respiro e sperare che il suo cuore smettesse di cavalcarle nel petto.
Giselle si chinò e le baciò una guancia. «Non preoccuparti, Annette, non dirò niente. Nemmeno a padre Baptiste.»
Poi Roxanne la sentì sorridere nel buio.
«Guarda, io faccio così.»
Roxanne, tesa come la corda di un violino, sentì che Giselle le posava una manina sul ventre, poi le scendeva fino alla coscia ed iniziava a sollevarle la camicia da notte. Quando ebbe finito, la sua manina delicata trovò con facilità il suo favo.
«Ecco, senti?, non c’è niente di male.»
Roxanne sentì le dita della cugina farsi largo in lei, e si vergognò perché ben sapeva di essere tutta viscida la sotto, di un viscido odoroso che le restava appiccicato alle dita quando si toccava, ed ora le scendeva fino a dietro, fino al suo buchetto. Pensò che la cugina ne avrebbe avuto schifo, eppure, inconsciamente, allargò un pochino le gambe.
«Ecco, brava. Anche in te è scesa la rugiada. Anche in me, senti?» Dicendo così Giselle le aveva preso un mano, e se l’era infilata sotto la veste, a contatto con il suo di favo. Anche lei era piena di miele, ed anche lei era calda.
Giselle iniziò a muovere le proprie dita nel favo di Roxanne e ben presto Roxanne fece altrettanto per la cugina.
«Brava, Nanette» mugugnò la cugina «così è bellissimo.»
Lo fecero a quel modo, Roxanne con le gambe sempre più aperte, Giselle su un fianco, per molti frenetici sospiri. Roxanne, con la mano libera, si aprì la camicia da notte per far uscire i capezzoli che, strusciandosi contro il tessuto erano ormai in fiamme. Giselle si chinò e ne afferrò uno tra la lingua e i dentini.
«Giselle…» gemette forte Roxanne prima di venire con un grido appena strozzato.
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Le avventure di Roxanne. cap.3: Il Marchese
Il Marchese Denis d’Erot arrivò alla Magione con quello che apparve a tutti il suo schiavo negro, se non che pareva che questi fosse l’unica persona di cui avesse rispetto. Roxanne non l’aveva mai visto ordinare al suo negro alcunché, e sempre l’avrebbe visto rivolgersi a lui con affettuosa deferenza, chiamandolo “prince Koutou” e parlandogli, in una loro lingua primitiva, come se gli spiegasse gli usi ed i costumi locali di cui, non di rado, pareva ironizzare. In quelle occasioni, il colossale negro, apriva le sue labbra carnose rivelando una fila di denti bianchissimi, e rideva con la sua voce profonda, senza perdere una naturale grazia che, così pensò Roxanne, doveva essere propria della sua specie. Per il resto, tanto il negro che il suo padrone, vestivano all’ultima moda parigina: più formale Koutou, più eccentrico e sgargiante il d’Erot.
Con gli altri, invece, il Marchese d’Erot pareva costantemente intento a provocarli con la propria aria supponente e con le sue battutine a volte sagaci a volte persino elegantemente volgari. Il Conte pareva adorarlo e rideva di cuore alle sue sconsiderate frecciatine alla morale delle dame presenti, alla religione e finanche alla politica di Re Luigi. Si batteva le mani sulle grasse cosce e si divertiva ad aizzargli contro Baptiste, il giovane cappellano della Magione, che il più delle volte si limitava ad arrossire e balbettare.
Al tavolo del Conte erano ammesse poche persone. C’era la Contessa Annette, la sua seconda moglie, poco più che ventenne, e zia Claude, la sorella del Conte, che, ormai trentenne, poteva ormai dirsi zitella, nonostante fosse di aspetto ancora avvenente. Poi c’erano naturalmente i figli minori del Conte, François, coetaneo della giovane moglie del padre, e la piccola Giselle che sedeva accanto a Roxanne. Il fratello maggiore, Jean, era ufficiale di cavalleria e di lui Roxanne aveva visto solo un ritratto in alta uniforme. Poi c’erano il cappellano Baptiste e zio August, il fratello minore della defunta Contessa. Non è quindi difficile immaginare il trambusto che scatenò il Marchese d’Erot quando si presentò a cena con il suo negro. Si era presentato con un lieve ritardo e, vedendo che era stato preparato un solo posto a tavola, vi aveva fatto accomodare il suo negro dicendo al Conte che si considerava offeso perché, evidentemente, la servitù aveva ritenuto che non ci fosse posto per un Marchese squattrinato alla tavola di un Conte. Il Conte aveva dato un’ennesima dimostrazione della potenza della sua risata e aveva ordinato alla servitù: “presto, piatti per il Marchese squattrinato”.
Mentre le dame si erano limitate a distogliere imbarazzate lo sguardo, François aveva dato evidenti segni di fastidio per quell’intrusione. Aveva fissato il negro a bocca aperta, poi aveva squadrato il padre deluso dal suo contegno. A quel punto si era alzato da tavola sbattendo a terra il tovagliolo che aveva posato sulle ginocchia. Quindi se ne era andato quasi sbattendo contro la domestica che stava arrivando con le stoviglie per il Marchese.
«Non serve più, dolce Marie» disse il Marchese che evidentemente aveva già avuto modo di conoscere il nome della servetta «il Contessino è stato così gentile di cedermi il suo posto a tavola.»
Stavolta neanche il Conte, rise, più che altro umiliato dalla disobbedienza del figlio. Koutou invece disse qualcosa al Marchese nella sua lingua barbara e questi gli rispose, al solito, con cortese deferenza.
«Marchese, volete parlare una lingua cristiana, almeno a tavola!» intervenne zia Claude seccata.
«Avete ragione… signorina. Koutou mi stava dicendo che conosce l’usanza francese di sfidarsi a duello per risolvere le questioni d’onore. Voleva sapere se aveva per qualche ragione offeso il Contessino, ed in quel caso era disposto a dargli soddisfazione».
«E’ inaudito!» ribattè scandalizzata zia Claude.
«Infatti, gli ho spiegato che non è cortese sfidare il proprio ospite e lui ha capito. Per la gente di Koutou» concluse il Marchese con il suo sorrisetto ambiguo «l’ospitalità è sacra».
«E chi sarebbe, di grazia, la “gente” di Koto?» intervenne zio August.
«Koutou, caro August» lo corresse amabilmente il Marchese. «Anzi, principe Koutou, perché questo lui è».
«E dove l’avete trovato questo… principe».
«Beh…, in effetti lui ha trovato me. Mi trovavo nelle colonie, in Côte d’Ivoire, e mi persi nella foresta con pochi portatori. Vagammo a lungo ed alla fine, senza avvedercene, finimmo nel territorio del padre di Koutou. Fu proprio lui a catturarci. Per noi sarebbe stata morte certa, ma Koutou convinse il padre a regarmi a lui. Mi insegnò la loro lingua ed alla fine volle che lo portassi in Europa. Per conoscere i nostri usi e costumi.»
«Ma, come?» sbottò zia Cloude «voi sareste il servo di un negro.»
«Sono la guida di un principe, madamigella.» Ogni volta calcava l’accento sull’appellativo “madamigella”, ben sapendo quanto potesse infastidire la zitella.
«Che assurdità! E’ solo un selvaggio. Padre Baptiste sostiene che non hanno l’anima. Cioè sono animali, non uomini.»
Il Marchese sorrise.
«Che esseri soavi, le donne: così graziose e delicate, ma capaci anche di trovare energie insospettabili. E contrariamente a quanto dicono i più, possono essere intelligenti, non solo astute. Vedendo le loro labbra, così morbide e soavi, non si può credere che, quando sono consigliate oda un prete, da quelle bocche possa uscire una tale quantità di merda.»
Stavolta sentirono le risate del Conte fino alle stalle, mentre padre Baptiste per poco non si strozzava con il vinello che stava sorseggiando. Dalle labbra di zia Claude non uscì altro che un “ma…” senza seguito. Giselle e Roxanne seguivano il discorso impietrite.
«Eppure» insistette lo zio August, la cui mancanza di spirito gli impedì di capire l’offesa, «Eppure i negri sono di una specie diversa, è evidente».
«Lei conosce il cavaliere Thomas Dumas, August? No?, bene. Ed il Marchese de la Pailletterie?»
«Sì, è Generale d’artiglieria, se non erro» affermò orgoglioso lo zio August che si teneva tanto aggiornato sulle vicende militari quanto lontano dai campi di battaglia.
«Molto bene: Thomas Dumas, è suo figlio. Ha preso il cognome dalla madre, una schiava negra conosciuta ad Haiti.»
«Ma sarà sterile, come…, come un mulo».
«Non credo abbia figli, ma per come lo conosco io» e qui il Marchese fece l’occhiolino al Conte «non tarderà ad averne. Le donne parigine lo adorano».
«Bell’esempio,» intervenne infastidita zia Claude «un uomo che giace con una schiava negra. È immorale!»
«E poi» si intromise zio August «se questi negri sono come noi, perché vivono come scimmie, senza nessuna delle istituzioni che stanno facendo grande l’impero Francia?»
Il Marchese d’Erot si mise a sghignazzare, poi si represse quel tanto da tradurre la discussione a beneficio di Koutou, ed infine risero entrambi. Roxanne, vide che Zia Claude era rossa di rabbia e pareva sul punto di esplodere, e temeva che tra poco lei e Giselle sarebbero state congedate. Il Marchese però anticipò la sfuriata di zia Claude in modo bonario.
«Suvvia, suvvia. Parlate di morale? Di istituzioni? Beh, volete che vi racconti un bel paradosso? Io sono convinto che la specie umana può essere veramente felice solo in uno stato sociale nel quale non vi siano né re, né magistrati, né preti, né leggi, né tuo, né mio, né proprietà mobiliare, né proprietà fondiaria, né vizi, né virtù.»
Zia Claude aprì la bocca e poi la richiuse, come un pesce. Fu zio August a rispondere.
«Ma quindi state dicendo che nelle terre del vostro principe Koutou, prima dell’arrivo della civiltà, i selvaggi erano felici?»
«No, perché tra loro ci sono gli stessi uomini avidi, gelosi e violenti che altrove hanno costruito Roma dopo aver scavato un confine ed assassinato il proprio fratello.»
Giselle quella sera proprio non voleva dormire. Roxanne la sentiva bisbigliare commenti eccitati sul Marchese e su come aveva stuzzicato l’austera zia Claude. Poi sghignazzava su come François se l’era presa per la presenza del principe negro a tavola e tornava a sussurrare sulle parole immorali di d’Erot. Roxanne, non si sentiva così agitata da quando aveva visto il figlio del fattore (“Robert…”) spaccare legna del bosco e sapeva che c’era un’unica cosa che poteva calmarla. Nelle ombre della camera, quando Giselle li nominava, vedeva il sorriso di scherno e la bocca increspata del Marchese, oppure le mani grandi del principe Koutou che dentro erano era bianche e che avevano colpito particolarmente la cugina. Il pensiero di quelle mani sul suo corpo, per un attimo prese Roxanne dal di dentro e, senza accorgersene, la sua manina si era già infilata nel suo favo di miele, le sue dita già stringevano un capezzolo.
«Nanette, stai male?» le chiese Giselle sollevandosi su un gomito allarmata da un suo gemito.
Roxanne, colta in fallo, emerse dai suoi sogni spalancando gli occhi. Cercò di controllare il proprio respiro.
«Non è niente, Giselle, ora facciamo nanna.»
Nel buio percepiva che la cugina era ancora sul gomito e la stava guardando.
«Io lo so che fai» sussurrò. Poi riprese, dopo una pausa titubante «lo faccio anch’io, a volte.»
Roxanne rimase in silenzio, immobile, con le braccia rigide lungo i fianchi. Avrebbe voluto negare, ma non riusciva a fare altro che trattenere il respiro e sperare che il suo cuore smettesse di cavalcarle nel petto.
Giselle si chinò e le baciò una guancia. «Non preoccuparti, Annette, non dirò niente. Nemmeno a padre Baptiste.»
Poi Roxanne la sentì sorridere nel buio.
«Guarda, io faccio così.»
Roxanne, tesa come la corda di un violino, sentì che Giselle le posava una manina sul ventre, poi le scendeva fino alla coscia ed iniziava a sollevarle la camicia da notte. Quando ebbe finito, la sua manina delicata trovò con facilità il suo favo.
«Ecco, senti?, non c’è niente di male.»
Roxanne sentì le dita della cugina farsi largo in lei, e si vergognò perché ben sapeva di essere tutta viscida la sotto, di un viscido odoroso che le restava appiccicato alle dita quando si toccava, ed ora le scendeva fino a dietro, fino al suo buchetto. Pensò che la cugina ne avrebbe avuto schifo, eppure, inconsciamente, allargò un pochino le gambe.
«Ecco, brava. Anche in te è scesa la rugiada. Anche in me, senti?» Dicendo così Giselle le aveva preso un mano, e se l’era infilata sotto la veste, a contatto con il suo di favo. Anche lei era piena di miele, ed anche lei era calda.
Giselle iniziò a muovere le proprie dita nel favo di Roxanne e ben presto Roxanne fece altrettanto per la cugina.
«Brava, Nanette» mugugnò la cugina «così è bellissimo.»
Lo fecero a quel modo, Roxanne con le gambe sempre più aperte, Giselle su un fianco, per molti frenetici sospiri. Roxanne, con la mano libera, si aprì la camicia da notte per far uscire i capezzoli che, strusciandosi contro il tessuto erano ormai in fiamme. Giselle si chinò e ne afferrò uno tra la lingua e i dentini.
«Giselle…» gemette forte Roxanne prima di venire con un grido appena strozzato.
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