La spina

di
genere
prime esperienze

In settembre lasciai casa per iniziare la mia esperienza di universitario fuori sede. Abitavo un bilocale in un’elegante palazzina. L’appartamento era di proprietà di un cugino, che impegnato per un lungo periodo di lavoro all’estero, me lo aveva lasciato a disposizione per quell’anno. Non avendo ancora amici, e in attesa che i corsi iniziassero, passavo le giornate preda della noia. Veramente qualcosa che sollecitava alquanto il mio interesse c’era: si chiamava Deborah, la mia vicina trentenne. Volto anonimo, ma fisico prorompente: un culo sodo, due tette che per essere contenute richiedevano almeno un bella quarta. Talvolta, complice la stagione ancora estiva, soleva prendere il sole su un balcone che potevo dominare dalla mia finestra. Si era accorta del mio interesse, nonostante le mie precauzioni, e mi provocava. Utilizzava bikini ridottissimi che lasciavano poco all’immaginazione, spingeva le mani sotto lo slip e simulava masturbazioni, oppure i seni facevano talvolta capolino, fuori dal reggiseno in tutta la loro arrogante abbondanza. Si accarezzava le gambe e il dorso del piede sensualmente inarcato. L’unico sfogo era masturbarmi, mi consumavo di pugnette.
Erano le due del pomeriggio di una giornata afosa, quando sentii squillare il campanello. Alla porta , il mio sogno erotico, Deborah. Indossava una vestaglietta estiva appena sopra il ginocchio. Con voce cinguettante esordì. “Necessiterei di un favore da parte tua. Penso di avere infissa nel mio piede destro una piccola spina che mi tormenta tanto. Ah il mio vizio di stare scalza! Con i tuoi occhi aguzzi (sorrise maliziosa) la troverai di certo.” Ci accomodammo sul divano, io timido, seduto rigidamente, impettito, lei sdraiata accanto a me, disinvolta. Mi porse il piedino terribilmente ferito, appoggiandomi l’altro sulle cosce. Presi la cosa sul serio ed effettivamente notai un puntino scuro alla base del secondo dito.
“Si, la vedo. E’ questa?” Così dicendo toccai la zona. Lanciò uno strillo, fingendo grande dolore.
“Ma come la tolgo?”
“Ma con i denti, caro. Mordi attorno la zona in modo da far fuoriuscire la spina.”
Mi accinsi alla delicata operazione. Il mio naso, a contatto della pelle plantare, inalava quel piacevole odore speziato, distillato di sudore e tessuti che mi intrigava. Le mie labbra e la mia lingua gustavano la sapidità di quella pelle.
Deborah, continuava nella sua sceneggiata, fingendo grande sofferenza per i miei piccoli morsi e lanciava graziosi strilli e si dimenava.
“Oltre agli occhi aguzzi, anche i denti lo sembrano”. Il suo piede sinistro si era posizionato sul mio sesso che frizionava al di sopra dei pantaloni. La vestaglia si era sollevata e mi consentiva una visione di un foltissimo boschetto bruno. Ipnotizzato dalla visione di quella figa pelosissima, avevo interrotto le operazioni di sminamento e ciucciavo golosamente il grazioso piedino, quello con la bua.
“Hai bisogno di un invito scritto?” Provocò, e proruppe in una risata cristallina.
All’attacco: mi gettai su quella figa, la prima che gustavo in vita mia e la divorai, la bevvi. Lei gradiva visibilmente. Credo che per noi maschi il sapore di vagina non abbia pari. Deborah si era tolta quella vestaglietta e mi mostrava in tutto il loro splendore i gioielli del suo torace: che razza di tette! Me le gustai nella loro consistente morbidezza, contemporaneamente introdussi il cazzo, prossimo alla deflagrazione, in quella fessura paradisiaca, per la prima esplorazione della mia vita. L’eccitazione e la poca esperienza non mi fecero fare un figurone, ed eiaculai, nonostante disperatamente cercassi di resistere. Ci rimasi un po’ male.
”Ma dai carino, che sei stato bravo. Adesso ti rimetto in sesto”. Con i piedini effettuò un abile footjob, e il mio omino inguinale da sdraiato si sedette; poi me lo prese in bocca nettandolo dai residui di sperma e umori vaginali e lo succhiò; allora l’omino da seduto si mise in piedi, lapideo come consistenza. Stavolta mi feci onore e Deborah sotto i miei colpi ansimò e gemette fino a godere pienamente. “Impari alla svelta, mi hai dato molto piacere”. Notando che l’erezione persisteva sussurrò:
“Sei stanco, ciccino?” “Perchè se non lo sei, ho qualcos’altro per te” . Si mise in ginocchio e, allargandosi, con le mani, i glutei, mise in mostra la corolla scura del suo buchetto.
“ Magari non ti piace, se non vuoi…”
Risposi con una leccata e una penetrazione di lingua assaporando tutte quelle delizie prodotte sia in loco, sia colate dalla passera.
Quel culetto era abituato a quel gioco, e la introduzione del mio pene non provocò particolare dolore a Deborah. Su e giù, dentro le sue viscere: mi sentivo un dominatore.
“Carino, dai, che sei proprio bravo, spingi, fammelo sentire più in fondo che puoi.” Gemendo e ansimando, accolse i miei schizzi caldi. Ero orgoglioso e soddisfatto di aver perso la mia verginità, quel caldo pomeriggio.
Deborah si rivestì, rinfoderando così le sue armi.
“Ciao carino, magari ci rivediamo, visto che la spina è ancora lì. A proposito, perché poi ti sei fermato?”
Se ne andò scoccandomi un sorriso così birichino, da farmi desiderare di ricominciare tutto da capo.
Iniziava bene l’università. Se il buon giorno si vede dal mattino…



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scritto il
2017-02-10
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