Senza titolo

di
genere
comici

Dove si racconta di due signorine con lo stesso nome, di due galantuomini con lo stesso nome e cognome, di un giovanotto dallo strano nome e di uno zotico dal brutto soprannome.

Una volta esistevano i bordelli, le "case chiuse". Si trovavano nei centri più grandi, in palazzi spesso anonimi, e ogni quartiere aveva il suo casino di riferimento. Nei piccoli paesi non si tolleravano simili scandali e gli scapoli, i giovani sempre infoiati, i forestieri che si trovavano sul posto per lavoro come i carabinieri o i pubblici impiegati, e anche gli onesti padri di famiglia che non disdegnavano di evitare ogni tanto la solita onesta serata in famiglia, non avevano altra soluzione che rivolgersi a qualche contadina vedova o con il marito lontano che arrotondava i magri guadagni della terra facendo da sfogo ai loro assalti virili. Spesso erano donne di estrema bruttezza e va bene che al buio tutti i gatti sono neri e va anche bene che a un certo punto prevaleva la filosofia di chi dice:" a quest'ora cosa vuoi, mi va bene pure lei", come avrebbe cantato qualcuno anni dopo, ma non tutti sono disposti a chiudere gli occhi e far finta di stare con una diva del cinema. L'unica alternativa erano le ragazze itineranti, prostitute che si spostavano da un posto all'altro, senza fermarsi mai più di pochi giorni, in modo da evitare l'interessamento della legge e l'ira delle comari. Qualcuna arrivava a una data fissa, ogni mese, oppure alcuni amici, dopo una colletta, ne facevano venire una apposta dalla città.
Don Ciccio Serravalle amava la compagnia degli amici e si atteggiava a protettore dei giovani. Aspirava a diventare sindaco del suo paese e uno dei modi per accattivarsi le simpatie dei compaesani era di farli divertire un po'. Così scrisse a una sua amica che faceva la tenutaria in una grande città e le chiese di mandargli per un paio di settimane una delle sue ragazze più belle. Roba di lusso, raccomandò, una bellezza che dalle sue parti non si era vista mai. La signora, dopo una breve corrispondenza di argomento soprattutto economico, gli promise che gli avrebbe mandato una ragazza di nome Lucia le cui doti erano dimostrate dal soprannome che le avevano dato i clienti: Rizzona. A don Ciccio vennero comunicati il giorno e l'ora del suo arrivo.
Certe cose, si sa, a raccontarle sono inverosimili ma poi nella vita capitano più spesso di quanto si pensi. Il fatto è che Lucia, all'epoca più di oggi, era un nome comune; e al sud era d'obbligo chiamare il primo figlio maschio con il nome del nonno. Così se quel nonno aveva avuto, mettiamo, cinque figli maschi, questi battezzavano tutti il loro primogenito come lui. Nella famiglia Serravalle si faceva lo stesso, così circolavano in paese diversi don Ciccio e fra questi uno, che chiameremo don Ciccio secondo per distinguerlo dal cugino, che di professione era notaio, il che ne faceva uno dei personaggi più importanti del paese e anche più boriosi e pretenziosi.
Così una sera di marzo, nella piccola stazione di *, Pasquale Belviso, uomo di fiducia di don Ciccio primo, aspettava l'arrivo del treno della sera. Don Ciccio aveva tenuto nascosta la sorpresa ai suoi compaesani e futuri elettori e aveva mandato qualcuno al suo posto a ricevere la ragazza soprannominata Rizzona. Pasquale era il suo tuttofare, uomo di fatica e di poco cervello, come il resto della storia ci insegna. Il treno arrivò puntuale e tra la poca gente che scese una sola poteva essere la viaggiatrice attesa: Pasquale vide una creatura vestita in modo che persino uno zotico come lui intuiva elegante e soprattutto una testa piena di capelli ricci che avvolgevano un nasino all'insù e due guance piene di fossette.
"La signorina Lucia?" chiese Pasquale con tutta la grazia di cui era capace.
"Sì" rispose la viaggiatrice.
"Mi manda don Ciccio Serravalle. Se volete seguirmi".
Prese le valigie della ragazza e la accompagnò a un calesse fuori della stazione.
"E' lontana la casa del suo padrone?" chiese la signorina accomodandosi sulla vettura.
A Pasquale sembrò strana quella domanda e si chiese se davvero quella pensava di poter andare a casa di don Ciccio dove c'erano la moglie e le figlie.
"No, don Ciccio ha dato disposizione di alloggiarvi in una casa tranquilla, fuori del paese".
"Ah, capisco" rispose la ragazza chiamata Lucia ma in realtà non aveva capito nulla, come del resto il suo interlocutore. Pensò che dopo il lungo viaggio che aveva fatto per arrivare in quel posto sperduto avessero avuto la creanza di farla riposare per la notte, per poi portarla il giorno dopo a destinazione, in un posto ancora più sperduto.
"Immagino che non ci siano locande in questo paese" pensò ad alta voce.
"No, ci sono" rispose Pasquale, "ma, capite, non è il caso...troppa confusione e la gente, i fastidi..."
Dopo un po' di silenzio Pasquale pensò che quella era la più bella ragazza che avesse mai visto e si fece ardito.
"Scusate la domanda ma è molto tempo che fate questo mestiere?"
"Da quando ho lasciato il convento, sì".
"Siete stata in convento?" chiese sbalordito Pasquale.
"Certo, le suore mi hanno insegnato tutto".
Pasquale si chiese che conventi ci fossero nelle città e divertito, le domandò se le piacesse quel mestiere.
"Certo che ni piace, lo so fare bene. Finora tutti sono rimasti contenti di me".
Lo credo, pensò Pasquale, però chi lo direbbe: con quella faccia da santarellina...
Giunsero alla casa. Pasquale la guidò dentro, posò le valigie, spiegò che in cucina avrebbe trovato da mangiare e che ogni cosa era stata predisposta per la sua pulizia personale. Una donna sarebbe venuta a servirla. A questo punto avrebbe dovuto andarsene ma in fondo la ragazza era venuta per un certo scopo e non c'era nulla di male se ne approfittava lui per primo.
"Ehm, scusate, non potreste cominciare subito a...lavorare?"
"Che intendete?"
"Voglio dire...mi capite".
"Vorreste una lezione?" chiese stupita e divertita la ragazza. "Non sapete leggere e scrivere?"
"So leggere ma non tanto scrivere...ma che c'entra questo?"
"Sono stanca, ne riparleremo domani se proprio ci tenete".
"Via, su, una cosa svelta, non fare la difficile".
Pasquale si avvicinò e cominciò a baciarle il collo e a toccarla dappertutto. Lucia, che non era la Rizzona come avrebbe capito uno meno idiota, rimase talmente stupita che non riuscì a dire una parola. Intanto Pasquale si era sbottonato e le mostrava i gioielli di famiglia.
"Che ne dici? L'hai mai visto più grosso?"
La risposta fu un urlo lancinante che provocò in risposta i latrati di tutti i cani del vicinato.
"Ma che ti prende?" chiese Pasquale che per far terminare quell'urlo non trovò niente di meglio che tapparle la bocca. La ragazza reagì con calci e graffi che scorticarono la faccia del suo aggressore e ne moltiplicarono la rabbia.
"Porca troia, perché io no e tutti gli altri sì?"
Un morso alla mano gli fece bestemmiare tutti i santi e, esauriti quelli, tutti i diavoli.
La porca, come l'aveva chiamata lui, aveva aperto la finestra e gridava aiuto.
Già molti erano scesi per strada e si chiedevano che stesse succedendo in quella casa di solito disabitata; se lo chiesero anche i due carabinieri di ronda che, fattisi largo, irruppero e trovarono Pasquale con i calzoni abbassati, la faccia graffiata e una mano sanguinante e una ragazza sconosciuta che piangeva abbandonata su una sedia.

Il giorno dopo tutto il paese si sganasciava dalle risate. Don Ciccio primo quanto a bestemmie aveva superato il suo sottoposto, aggiungendo un interminabile rosario di insulti a quel grandissimo imbecille. Ad accrescere la rabbia fu un telegramma giunto in mattinata: la sua amica tenutaria gli annunciava che la Rizzona aveva perso il treno e che sarebbe arrivata quella sera. La Lucia che Pasquale aveva scambiato per una cocotte era l'istitutrice che don Ciccio secondo aveva fatto venire per le sue figlie. Abbiamo accennato alle manie di grandezza del notaio e tra queste vi era quella di educare le sue figlie come se fossero principesse. Solo che la signorina Lucia, munita di lettere di raccomandazione e presentazione di un barone, di un magistrato e di una madre superiora, era arrivata due giorni prima del previsto, non si sa se per un errore di scrittura nella lettera che ne comunicava l'arrivo o per un errore di lettura del notaio che era famoso per la vista difettosa. Tra i due cugini non correva buon sangue per vecchie questioni di eredità e di rivalità familiari e quello spiacevole episodio peggiorò la situazione. Non parliamo poi della situazione in cui si trovò Pasquale Belviso, sbeffeggiato dai compaesani e costretto a subire l'ira e forse anche le botte della grassissima moglie.

Il pomeriggio di quel giorno un giovanotto andò a bussare alla porta della signorina Lucia che si era trasferita nella locanda del paese. Alla risposta "Avanti" entrò e si ritrovò davanti lo sguardo ostile della istitutrice. "E voi chi siete?" chiese con voce ancora indignata, convinta che in quel paese fossero tutti degli zotici prepotenti.
"Il mio nome è Potito Serravalle, sono il nipote di don Ciccio, cioè del signor Francesco Serravalle" rispose con dignità il giovanotto.
"Quale don Ciccio? Quello che ha mandato l'animale alla stazione scambiandomi per una...di quelle o quell'altro selvaggio che mi ha dato il benservito dicendo che non ha più bisogno di me in quanto non è opportuno che mi avvicini alle sue angeliche figliole? In questo paese siete abituati a scaricare le colpe della libidine maschile sulle donne? Sono molto contenta di non restare qui".
"Non vi posso dare torto, è un paese molto arretrato e io che ci son nato a volte ne provo disgusto. Per rispondere alla vostra domanda, sono nipote di entrambi i don Ciccio, così come sono parente dell'altra mezza dozzina di compaesani che portano lo stesso nome e cognome".
Il doppio nipote era un gran bel ragazzo, il suo tono e i suoi modi erano da persona civile e tutto questo ammansì la vittima di quello spiacevole equivoco.
"Sedete. Avete uno strano nome".
"Sì, è un'altra condanna per essere nato da queste parti. Potito era il nome di uno zio morto giovane, in guerra".
"E non vivete qui?"
"Grazie al cielo no, ci torno solo a trovare mia madre, vivo in città dove scrivo sui giornali, cronache, novelle e cose così".
"Mi sembrava che foste diverso da questi...maiali, da ieri mi sento tutti gli sguardi addosso, sono convinti che quell'animale mi abbia stuprata addirittura".
"E' per questo che sono qui. Quanto vi è accaduto è veramente angoscioso e imperdonabile, mio zio, don Ciccio...primo, diciamo, è costernato per avere causato, senza volerlo, un simile baccano. Come avete detto, avete perso il lavoro e questa è un'ingiustizia bella e buona. Per tali motivi sono incaricato di offrirvi una somma di denaro che vi sia giusto risarcimento degli affanni che vi ha causato la vostra venuta da noi. In cambio vi si chiede di ritirare la denuncia contro quell'animale di Pasquale".
La ragazza avvampò. "Dovrei fargliela passare liscia?" chiese indignata.
"Pensateci. Il processo si farà chissà quando e voi sareste costretta a tornare qui per testimoniare. Sarebbe molto sgradevole e lo sarebbe anche per mio zio. Non pensiate che egli sia interessato a salvare quell'animale ma il processo finirebbe con il tirare in ballo la sua bella idea di far venire qui quell'altra...signorina e questo nuocerebbe alla sua speranza di diventare sindaco".
Dopo un momento di riflessione la ragazza domandò: "E quanto sarebbe disposto a pagare, vostro zio?"
"Quanto avreste guadagnato dall'altro mio zio?"
Saputo quale sarebbe stato il suo salario mensile, Potito fece un rapido calcolo mentale, moltiplicò per dodici la cifra e si ritrovò con un totale che era di poco superiore alla metà della somma che suo zio era disposto a sborsare. Intravvedendo la possibilità di fare una vantaggiosa cresta, le disse: "Vi offriamo un anno di salario".
"Va bene ma è appena sufficiente per quello che ho passato e per le umiliazioni sopportate" disse Lucia con la massima dignità.
"Se mio zio avesse mandato me a ricevervi mi sarei subito reso conto dell'errore".
"Oh, con voi sarebbe stato diverso" rispose la ragazza, divertita.
"Posso incontrarvi quando tornerò in città?" chiese il giovane.
Scoprirono che abitavano a poche strade di distanza.
"Se non vi dispiace, fra qualche ora tornerò con il denaro e vi accompagnerò dal maresciallo a ritirare la denuncia".
"Vi aspetto, non tardate" rispose lei con una nuova intonazione di voce e una nuova luce nello sguardo.
"No, non me la dai a bere" pensava Potito uscendo e avviandosi alla casa dove il giorno prima era accaduto il dramma. "Scommetto che nelle case in cui hai prestato servizio non hai lavorato soltanto con le allieve ma anche con i padri e i fratelli".
Lucia la Rizzona era una ragazzona in cui tutto sembrava esagerato: la statura, il seno, le forme del corpo, le gambe, le labbra. Accolse il visitatore non meno imbronciata della sua omonima.
"Così, dopo il viaggio sfiancante che ho fatto mi volete rimandare indietro!"
"Dovete capire che dopo lo scandalo che c'è stato la vostra permanenza non è opportuna, per tanti altri motivi. Sarete ricompensata per il disturbo".
"Sempre meno di quello che avrei guadagnato in due settimane".
"Quanto avreste guadagnato, se è lecito?"
Sentendo la cifra, Potito fece altri calcoli e arrivò alla conclusione che un'altra piccola cresta era possibile.
"Vi daremo quello che avreste guadagnato in due settimane" disse infine.
Rassicurata dalla promessa Lucia seconda (o prima, a seconda dell'ordine con cui si vogliono mettere le due ragazze), fissò con interesse il giovane.
"Va bene, ma io non sono abituata a guadagnare il denaro senza sudarmelo. Sono una ragazza leale e onesta, capisci? Sei bellino, sai? Spogliati". E detto questo, cominciò lei stessa a spogliare Potito, ed era impossibile sottrarsi alla tempesta di baci che si vide piovere sulla bocca, sulla fronte, sulle guance, su tutto il viso, e quando le sue robuste braccia finirono di svestirlo, anche sulle altre parti del corpo. Dimostrò di meritare in pieno il soprannome che le era stato dato e del resto quando Potito vide il suo imponente corpo nudo non ci sarebbe stato nessun bisogno di manipolazioni per eccitarlo. Mentre si rivestiva, sfinito, la donna gli disse: "Ti aspetto stasera con i soldi. Sento di non essermeli ancora guadagnati, quindi rimettiti in forze".
"Incredibile," pensò Potito andando via, "una puttana davvero onesta, non vuole pane a sbafo".
"Incredibile," commentò don Ciccio primo, contando i denari con cui liquidare Lucia prima e Lucia seconda, "tutto per colpa di quell'animale di Pasquale".

La mattina dopo Potito accompagnò la maestrina alla stazione.
"Verrete a trovarmi in città?" chiese lei con aria soave.
"Verrò senz'altro" rispose lui.
La ragazza era appena salita in carrozza che arrivò trafelata la sua omonima che aveva un talento speciale, evidentemente, per arrivare tardi alle stazioni. Potito l'aiutò a salire e a caricare i bagagli, lei gli schioccò un gran bacio e gli disse: "Verrai a trovarmi, vero?"
"Verrò senz'altro" rispose lui.
Il treno partì. Le due ragazze si trovarono nello stesso scompartimento e si guardarono con ostilità. Lucia la maestrina cercò il capotreno e lo pregò di non lasciarla assieme a quell'altra.
"Capite, è una di quelle".
"Capisco, signorina, sono un padre di famiglia".
Sei mesi dopo don Ciccio primo venne eletto sindaco e festeggiò l'avvenimento facendo arrivare addirittura tre ragazze dalla città, per la gioia dei suoi elettori; don Ciccio secondo trovò un'altra istitutrice per le figlie; Potito frequentò in città Lucia prima e Lucia seconda; Pasquale Belviso si trascinò per tutta la vita il soprannome di "animale".
scritto il
2017-11-19
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