Notte di guardia
di
samas2
genere
sentimentali
Affondo il viso fra le sue tette, massa gelatinosa ondeggiante, che mi avviluppa quasi a soffocarmi piacevolmente. La sua figa, incredibilmente gonfia, calda e odorosa, famelico divoro e ne sono divorato. Le sue natiche burrose si aprono ai miei colpi, ora che la sto prendendo da dietro. Per Sonia non sono un cliente qualsiasi, ma uno molto speciale: ci concediamo tutto ciò che vogliamo.
- Sonia, mi vuoi sposare?
- Ma se sei già sposato! Poi, sposare te? Non sono mica matta! Insieme ci divertiamo, è bellissimo giocare e scopare con te, ma manca sempre qualcosa: la tua mente fluttua, sei altrove.
Il pomeriggio è trascorso veloce ed ora mi dirigo in ospedale per svolgere il mio turno di notte in terapia intensiva.
“In questo mestiere, dopo i 50 anni o diventi primario o diventi matto…”
Così sentenziava il mio carissimo e simpaticissimo collega Pietro, rivolgendosi al nostro Direttore di quel tempo.
Sono pazzo da un po’ di anni e non me ne sto rendendo conto: forse si vede, però.
Ho parcheggiato l’auto e cammino nella fredda sera ovattata dalla nebbia che viene dal mare, a qualche chilometro più in là, ad est, e avvolge e occulta le cose. Desidererei essere in una dimora accogliente circondato dal calore delle mie cose e dei miei affetti.
Già, gli affetti…Ne ho fatto strame con la mia stupidità.
Marca-schede. Dialoghi
- Dottore ancora di guardia ? (“alla sua età”, pensano senza dirlo)
- Arrivi o vai?
- Buona notte. - Poi pensi : “Come mai le infermiere sono sempre più giovani e belle?”
Passo davanti alla cappella, mi affaccio: è deserta. Lui non riesco a guardarlo, sono troppo indegno. Mi rivolgo a Sua madre, vorrei piangere davanti alla sua dolcezza e irrorare l’aridità che mi consuma, ma i miei occhi non hanno lacrime.
Butto alla rinfusa gli abiti nell’armadietto metallico e indosso la mia divisa azzurrina: ecco che inizia un nuovo turno di guardia.
Gli anni passano e guardi alla vita con disincanto senza progettualità, scompare nel tempo l’emozione esaltante del lavoro notturno delle prime guardie, ma ne rimane l’ansia in questi periodi così conflittuali. E poi, sei li nella “gabbia” dove i monitor e la strumentazione sembrano prevalere per importanza e per imponenza sui pazienti, chiusi in sogni che non possiamo sondare, muti nella loro claustrofobica condizione. Come è facile desiderare di fuggire da quella situazione contraddittoria che grida silenziosamente un bisogno di senso, che è anche il nostro, ma lo fa più acutamente e drammaticamente.
Sono stanco, a volte mi sento inadeguato al mio compito e vorrei porre fine a tutto questo e scappare ma, son qui, e ci sono loro, i pazienti che mi sono affidati.
Mi stacco dalla cartella elettronica, dai dati e mi avvicino ai letti. Dove non c’è nulla di nuovo da fare e la condizione del paziente appare stabile, guardo e magari accarezzo un volto, un capo.
So cosa passa per la testa dei miei giovani colleghi, che non hanno più professionalmente bisogno di me, e sono, ormai, molto più bravi: "Il vecchio si è rammollito, è diventato sentimentale."
Per loro la tecnologia è la soluzione di tutto. Forse un domani, quando nulla resterà di quello che abbiamo fatto e detto, quella carezza rimarrà.
Guardo Kathy, una mia dolcissima infermiera: lei capisce, approva e mi sorride.
Finito il turno mi osservo allo specchio, mentre mi rado: il mio volto è percorso da due profondi solchi verticali, la fronte è stempiata, solcata da rughe, (“Mi fanno ridere quando dicono che non son cambiato”), gli occhi hanno un'espressione fra il cinico e il malinconico.
Esco, mi sorprende che l'aria sia calda e carica di pioggia. Incontro, all’uscita, Mario, un mio vecchio conoscente, che mi vuol molto bene, perchè, dice lui, che ho salvato sua figlia; mi saluta ed esclama:
- Dutòr, e tira la curéna, incó e piov ( Dottore, spira vento di libeccio, oggi pioverà).
Scendo le scale che mi conducono al parcheggio.
Inizia a piovere, il mio vecchio iPod fa risuonare nelle cuffie le note di "Let it all Go" di Birdy,Rhodes…".... È vero, perchè dobbiamo soffrire così duramente?
Ora fa sul serio, e le gocce di pioggia son fitte, scorrono sul mio volto, dove le mie lacrime da tempo non hanno più dimora, e ne prendono il posto.
- Silvia, quanto mi manchi?
- Sonia, mi vuoi sposare?
- Ma se sei già sposato! Poi, sposare te? Non sono mica matta! Insieme ci divertiamo, è bellissimo giocare e scopare con te, ma manca sempre qualcosa: la tua mente fluttua, sei altrove.
Il pomeriggio è trascorso veloce ed ora mi dirigo in ospedale per svolgere il mio turno di notte in terapia intensiva.
“In questo mestiere, dopo i 50 anni o diventi primario o diventi matto…”
Così sentenziava il mio carissimo e simpaticissimo collega Pietro, rivolgendosi al nostro Direttore di quel tempo.
Sono pazzo da un po’ di anni e non me ne sto rendendo conto: forse si vede, però.
Ho parcheggiato l’auto e cammino nella fredda sera ovattata dalla nebbia che viene dal mare, a qualche chilometro più in là, ad est, e avvolge e occulta le cose. Desidererei essere in una dimora accogliente circondato dal calore delle mie cose e dei miei affetti.
Già, gli affetti…Ne ho fatto strame con la mia stupidità.
Marca-schede. Dialoghi
- Dottore ancora di guardia ? (“alla sua età”, pensano senza dirlo)
- Arrivi o vai?
- Buona notte. - Poi pensi : “Come mai le infermiere sono sempre più giovani e belle?”
Passo davanti alla cappella, mi affaccio: è deserta. Lui non riesco a guardarlo, sono troppo indegno. Mi rivolgo a Sua madre, vorrei piangere davanti alla sua dolcezza e irrorare l’aridità che mi consuma, ma i miei occhi non hanno lacrime.
Butto alla rinfusa gli abiti nell’armadietto metallico e indosso la mia divisa azzurrina: ecco che inizia un nuovo turno di guardia.
Gli anni passano e guardi alla vita con disincanto senza progettualità, scompare nel tempo l’emozione esaltante del lavoro notturno delle prime guardie, ma ne rimane l’ansia in questi periodi così conflittuali. E poi, sei li nella “gabbia” dove i monitor e la strumentazione sembrano prevalere per importanza e per imponenza sui pazienti, chiusi in sogni che non possiamo sondare, muti nella loro claustrofobica condizione. Come è facile desiderare di fuggire da quella situazione contraddittoria che grida silenziosamente un bisogno di senso, che è anche il nostro, ma lo fa più acutamente e drammaticamente.
Sono stanco, a volte mi sento inadeguato al mio compito e vorrei porre fine a tutto questo e scappare ma, son qui, e ci sono loro, i pazienti che mi sono affidati.
Mi stacco dalla cartella elettronica, dai dati e mi avvicino ai letti. Dove non c’è nulla di nuovo da fare e la condizione del paziente appare stabile, guardo e magari accarezzo un volto, un capo.
So cosa passa per la testa dei miei giovani colleghi, che non hanno più professionalmente bisogno di me, e sono, ormai, molto più bravi: "Il vecchio si è rammollito, è diventato sentimentale."
Per loro la tecnologia è la soluzione di tutto. Forse un domani, quando nulla resterà di quello che abbiamo fatto e detto, quella carezza rimarrà.
Guardo Kathy, una mia dolcissima infermiera: lei capisce, approva e mi sorride.
Finito il turno mi osservo allo specchio, mentre mi rado: il mio volto è percorso da due profondi solchi verticali, la fronte è stempiata, solcata da rughe, (“Mi fanno ridere quando dicono che non son cambiato”), gli occhi hanno un'espressione fra il cinico e il malinconico.
Esco, mi sorprende che l'aria sia calda e carica di pioggia. Incontro, all’uscita, Mario, un mio vecchio conoscente, che mi vuol molto bene, perchè, dice lui, che ho salvato sua figlia; mi saluta ed esclama:
- Dutòr, e tira la curéna, incó e piov ( Dottore, spira vento di libeccio, oggi pioverà).
Scendo le scale che mi conducono al parcheggio.
Inizia a piovere, il mio vecchio iPod fa risuonare nelle cuffie le note di "Let it all Go" di Birdy,Rhodes…".... È vero, perchè dobbiamo soffrire così duramente?
Ora fa sul serio, e le gocce di pioggia son fitte, scorrono sul mio volto, dove le mie lacrime da tempo non hanno più dimora, e ne prendono il posto.
- Silvia, quanto mi manchi?
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