La consistenza del fico
di
samas2
genere
tradimenti
- Quando son duri, non vanno bene, quando diventano morbidi, allora son buoni.- Così sta sentenziando, con una conoscente, la mia nuova vicina, Martina: parla dei frutti del fico appesi al suo albero e in via di maturazione. Da quando si è stabilita qui, la sottopongo a una corte discreta, ma assidua. Sta rientrando in casa, accomiatatasi dall’amica, quando la incrocio.
- Non hai mica enunciato un assioma! Non è sempre vero il sostenere che quando son duri, non son buoni.
Sfoggia un sorriso stupendo, impreziosito da graziose fossette. Ma io lo noto appena: sto guardando le sue tette, bellissime fino all’arroganza, che premono attraverso la stoffa, mettendo a dura prova la tenuta dei bottoni e delle asole della camicetta e calamitando inesorabilmente il mio sguardo.
- Dai, stupido, parlavo di fichi.
Sornione: - Ma va.
Poi, greve: - Buoni i fichi, ma le loro femmine….
- Siamo caldi, oggi, eh?
- Quando ti vedo, sono al calor bianco.
- Non l’avevo mai notato - ride con voce cristallina. - Però non dimenticarti che ho un compagno.
- Guarda, che io non son, di certo, geloso.
- Stupidone.
Questo accrescitivo di “stupido”, mi fa sperare in uno sviluppo positivo della situazione.
Mi guarda enigmaticamente e un’espressione maliziosa le si disegna fugacemente sul viso, mentre sta inseguendo un’idea.
- Ti va un caffè, vicino? - Le circostanze, stanno prendendo sempre più, una piega favorevole.
- Anche un veleno, se sei tu a offrirmelo.
Scuote la testa. Non posso fare a meno di notare che bella bocca abbia e che meraviglioso uso potrei farne. Sospiro.
Dopo essere entrati in casa, seduti al tavolo della cucina, ci gustiamo un caffè. Sogno di assaggiare qualcosa d’altro; guardando la sensualissima Martina, che mi siede di fronte, so per certo, che per le donne, non sia necessario disporre degli incantesimi di Circe per trasformare, noi maschi, in porci.
Così per sgranchirmi e saggiare il terreno, le faccio piedino, mentre conversiamo del più e del meno.
- Ci stai provando?
Con la faccia del bambino accusato ingiustamente di aver rubato le caramelle:
- Ma che dici? Non mi permetterei mai; con una donna sposata, poi!
Circe-Martina sta già osservando la mia trasformazione nel simpatico suide e si sta divertendo. Gli occhi le ridono prima ancora del viso.
Il mio amico che sta fra le mie gambe ha già dato segni di risveglio e vorrebbe prendere aria. Gli dico di star a cuccia, di mantenersi calmo, ma quello, non mi dà ascolto: è proprio quello che si dice, una testa di cazzo!
- Desidererei da te, un parere professionale.
- Sono a tua completa disposizione.
Anzi, penso: “Vorrei poterti avere a mia completa disposizione”.
- Sento un dolorino strano qui, all’ addome.
- Potresti darmi un’occhiata?
- Vediamo un po’.
La faccio accomodare sul divano. Martina, si stende, lascia scivolare a terra le ciabattine, si slaccia la gonna, la abbassa un po’ e nel contempo solleva la camicetta sino alla radice dei seni. Non mi è facile rimanere professionale: mi appello a Ippocrate. Inspiro con forza e inizio l’esame obbiettivo. Palpo con sapienza quella pancia soffice.
Mi calo nel mio ruolo di medico.
Martina al mio tocco geme: - Che male, ma non lì, si, no. - Le mie mani si spostano sempre più nel basso addome, delicate ma decise, seguendo l’insegnamento del mio Professore di Semeiotica.
- Più giù-ù-ù! Cogli…! Voglio dire: - Cogli… il sintomo, stai attento. -
Non riesco a comprendere quel suo dolore così misterioso, incapace a diagnosticarlo.
Se la mente è ottenebrata, mentre son tutto compreso nel mio ruolo di medico alle prese con una misteriosa patologia, i sensi sono all’erta e il mio amico non sta più nelle mutande avendo fiutato la preda. Ma, se non avessi ancora capito, un piedino di Martina si appoggia alla patta dei miei pantaloni, l’altro mi carezza sensualmente il volto.
Avendo, colpevolmente in ritardo, fatta la diagnosi, le mie mani, edotte, si affrettano a intraprendere la terapia. Martina si lascia spogliare completamente e posso contemplarla eccitato e pieno di meraviglia: ora è mia, anzi, ad essere sinceri, sono suo.
Le mie dita esplorano la fessura e la trovano calda, umida, accogliente.
- Si, finalmente hai capito: è proprio lì il punto. -
Mi inzuppo di quell’ambrosia che porto alla mia bocca e, altruisticamente, alla sua. La mia bocca viene attirata da quella figa dai riccioli neri, rugiadosi di piacere: lecco e succhio senza ritegno, mugolando. La mia trasformazione nell’animale sacro alla dea Maia è completa. Le mani di Martina mi schiacciano il volto e lo serrano con le cosce. Mantengo la posizione eroicamente, a costo di soffocare.
Se devo morire voglio il meglio di quell’ostrica deliziosa e mi lavoro di gusto il clitoride. Il suo corpo si inarca affermando il suo piacere e incoraggiando il mio orgoglio.
La mia verga è dentro di lei, come risucchiata, e prende possesso del suo caldo, piacevole anfratto. La mia bocca esplora insaziabile, il magnifico seno di Martina tante volte oggetto dei miei sogni, ne saggia la consistenza e la vellutata morbidezza della pelle. Vorrei prolungare a lungo questa chiavata, ma esplodo: il mio seme la inonda.
Indugiamo abbracciati e rilassati dolcemente mentre già le ombre di un’incipiente oscurità invadono la stanza. Devo andarmene ormai, si è fatto tardi.
Potrei essere orgogliosamente soddisfatto per aver raggiunto il mio scopo, ma non so. Nel parco le prime brume serali mi inducono a rialzare il bavero della mia giacca; scivolo coi miei pensieri incontro alla notte.
- Non hai mica enunciato un assioma! Non è sempre vero il sostenere che quando son duri, non son buoni.
Sfoggia un sorriso stupendo, impreziosito da graziose fossette. Ma io lo noto appena: sto guardando le sue tette, bellissime fino all’arroganza, che premono attraverso la stoffa, mettendo a dura prova la tenuta dei bottoni e delle asole della camicetta e calamitando inesorabilmente il mio sguardo.
- Dai, stupido, parlavo di fichi.
Sornione: - Ma va.
Poi, greve: - Buoni i fichi, ma le loro femmine….
- Siamo caldi, oggi, eh?
- Quando ti vedo, sono al calor bianco.
- Non l’avevo mai notato - ride con voce cristallina. - Però non dimenticarti che ho un compagno.
- Guarda, che io non son, di certo, geloso.
- Stupidone.
Questo accrescitivo di “stupido”, mi fa sperare in uno sviluppo positivo della situazione.
Mi guarda enigmaticamente e un’espressione maliziosa le si disegna fugacemente sul viso, mentre sta inseguendo un’idea.
- Ti va un caffè, vicino? - Le circostanze, stanno prendendo sempre più, una piega favorevole.
- Anche un veleno, se sei tu a offrirmelo.
Scuote la testa. Non posso fare a meno di notare che bella bocca abbia e che meraviglioso uso potrei farne. Sospiro.
Dopo essere entrati in casa, seduti al tavolo della cucina, ci gustiamo un caffè. Sogno di assaggiare qualcosa d’altro; guardando la sensualissima Martina, che mi siede di fronte, so per certo, che per le donne, non sia necessario disporre degli incantesimi di Circe per trasformare, noi maschi, in porci.
Così per sgranchirmi e saggiare il terreno, le faccio piedino, mentre conversiamo del più e del meno.
- Ci stai provando?
Con la faccia del bambino accusato ingiustamente di aver rubato le caramelle:
- Ma che dici? Non mi permetterei mai; con una donna sposata, poi!
Circe-Martina sta già osservando la mia trasformazione nel simpatico suide e si sta divertendo. Gli occhi le ridono prima ancora del viso.
Il mio amico che sta fra le mie gambe ha già dato segni di risveglio e vorrebbe prendere aria. Gli dico di star a cuccia, di mantenersi calmo, ma quello, non mi dà ascolto: è proprio quello che si dice, una testa di cazzo!
- Desidererei da te, un parere professionale.
- Sono a tua completa disposizione.
Anzi, penso: “Vorrei poterti avere a mia completa disposizione”.
- Sento un dolorino strano qui, all’ addome.
- Potresti darmi un’occhiata?
- Vediamo un po’.
La faccio accomodare sul divano. Martina, si stende, lascia scivolare a terra le ciabattine, si slaccia la gonna, la abbassa un po’ e nel contempo solleva la camicetta sino alla radice dei seni. Non mi è facile rimanere professionale: mi appello a Ippocrate. Inspiro con forza e inizio l’esame obbiettivo. Palpo con sapienza quella pancia soffice.
Mi calo nel mio ruolo di medico.
Martina al mio tocco geme: - Che male, ma non lì, si, no. - Le mie mani si spostano sempre più nel basso addome, delicate ma decise, seguendo l’insegnamento del mio Professore di Semeiotica.
- Più giù-ù-ù! Cogli…! Voglio dire: - Cogli… il sintomo, stai attento. -
Non riesco a comprendere quel suo dolore così misterioso, incapace a diagnosticarlo.
Se la mente è ottenebrata, mentre son tutto compreso nel mio ruolo di medico alle prese con una misteriosa patologia, i sensi sono all’erta e il mio amico non sta più nelle mutande avendo fiutato la preda. Ma, se non avessi ancora capito, un piedino di Martina si appoggia alla patta dei miei pantaloni, l’altro mi carezza sensualmente il volto.
Avendo, colpevolmente in ritardo, fatta la diagnosi, le mie mani, edotte, si affrettano a intraprendere la terapia. Martina si lascia spogliare completamente e posso contemplarla eccitato e pieno di meraviglia: ora è mia, anzi, ad essere sinceri, sono suo.
Le mie dita esplorano la fessura e la trovano calda, umida, accogliente.
- Si, finalmente hai capito: è proprio lì il punto. -
Mi inzuppo di quell’ambrosia che porto alla mia bocca e, altruisticamente, alla sua. La mia bocca viene attirata da quella figa dai riccioli neri, rugiadosi di piacere: lecco e succhio senza ritegno, mugolando. La mia trasformazione nell’animale sacro alla dea Maia è completa. Le mani di Martina mi schiacciano il volto e lo serrano con le cosce. Mantengo la posizione eroicamente, a costo di soffocare.
Se devo morire voglio il meglio di quell’ostrica deliziosa e mi lavoro di gusto il clitoride. Il suo corpo si inarca affermando il suo piacere e incoraggiando il mio orgoglio.
La mia verga è dentro di lei, come risucchiata, e prende possesso del suo caldo, piacevole anfratto. La mia bocca esplora insaziabile, il magnifico seno di Martina tante volte oggetto dei miei sogni, ne saggia la consistenza e la vellutata morbidezza della pelle. Vorrei prolungare a lungo questa chiavata, ma esplodo: il mio seme la inonda.
Indugiamo abbracciati e rilassati dolcemente mentre già le ombre di un’incipiente oscurità invadono la stanza. Devo andarmene ormai, si è fatto tardi.
Potrei essere orgogliosamente soddisfatto per aver raggiunto il mio scopo, ma non so. Nel parco le prime brume serali mi inducono a rialzare il bavero della mia giacca; scivolo coi miei pensieri incontro alla notte.
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