Il Capo 2 - Un weekend lungo

di
genere
etero

Papà voleva accompagnarmi addirittura a Fiumicino ma gli ho detto che non era il caso che si rovinasse la mattinata. Però ha insistito per portarmi almeno al trenino per l’aeroporto. Ok, quando si mette una cosa in testa non c’è nulla da fare. E poi in fondo mi fa allo stesso tempo comodo e piacere. Salgo in macchina avvolta in una specie di spolverino blu lungo fin sotto il ginocchio, mi chiede se abbia intenzione di viaggiare così e dice che morirò di caldo. Ma a parte il fatto che sono le sei e mezza di mattina e tutto sto caldo ancora non lo fa, gli rispondo che ho paura dell’aria condizionata in aeroporto e sull’aereo, che però sotto ho dei bermuda e una maglietta. Annuisce.

Se potesse vedere che razza di bermuda e che razza di maglietta indosso forse annuirebbe molto meno. Ho degli shorts di jeans che aiutatemi a dire inguinali, di quelli che indosso al mare e che mia madre definisce “a mezza chiappa”, nel senso che mi coprono solo fino a metà delle natiche. Esagera, ma non troppo. La vita è bassissima, non mi piace la moda di quest’anno con i pantaloncini a vita alta. Quanto alla maglietta, be’ è vero che ce l’ho. Bianca, con uno scollo sia davanti che sulla schiena, e soprattutto sottilissima. Di quelle che se le porti senza reggiseno lasciano liberamente intuire tutto e vedere la sporgenza dei capezzoli. E infatti il reggiseno non me lo sono messo.

A metà del viaggio in treno inizio effettivamente a sentire un po’ di caldo, mi tolgo lo spolverino e lo metto in valigia. Nel vagone non c’è molta gente ma mi sento comunque gli occhi addosso. E ci mancherebbe altro. Sul tapis roulant che dai treni porta all’aerostazione accentuo per quanto possibile lo sculettamento, trascinandomi dietro il trolley. Con i sandali dal tacco basso ai piedi mi viene un po’ meglio che con le solite adidas. Quando faccio l’ingresso in aeroporto l’aria condizionata mi aggredisce. Non è così forte come pensavo ma in pochi secondi il disegno delle mie tettine e dei capezzoli intirizziti sotto la maglietta è evidentissimo. Avanzo smignotteggiando verso la barriera dei controlli e sostenendo gli sguardi che mi riservano i maschi di età più svariate.

Al varco di frontiera c’è un po’ di fila, tiro fuori lo smartphone dalla borsa e apro la carta di imbarco elettronica. Gli sguardi verso di me si sprecano. Dai più timidi, di quelli che fanno finta di posare gli occhi su di te quasi per caso, ai più sfrontati. Il più indecente è quello di un tizio sulla quarantina, che mi osserva ostentatamente. Non è il mio tipo, tutt’altro, però gli sorrido e sostengo il suo sguardo finché non è lui a rompersi i coglioni.

Quando è il mio turno metto il trolley sui rotoli e la borsa in una vaschetta. Tiro fuori dalla tasca degli shorts delle monetine che farebbero scattare l’allarme e mi cadono per terra. Mi piego a raccoglierle senza nemmeno pensarci e solo dopo mi accorgo di essermi praticamente messa a novanta gradi davanti al tipo che mi osservava prima. Me ne fotto e avanzo. L’agente che controlla i raggi x mi guarda stranito, è obiettivamente un tipo decente e gli sorrido. Faccio un passo in avanti e l’allarme suona. Non capisco cosa cazzo possa suonare finché un altro tizio in divisa punta il dito sui miei sandali: cazzo, le borchie. Mi piego ancora una volta come prima per sganciare le fibbiette ma stavolta con la piena consapevolezza di offrire al tipo viscido di prima lo spettacolo dei miei shorts che si tendono e risalgono fino a scoprirmi ancora di più il culo e che si stringono tra le mie cosce. Poi sollevo un attimo lo sguardo e capisco perché il poliziotto seduto davanti allo schermo mi guardava in quel modo: stando così piegata, lo scollo della mia maglietta gli offre una comodissima vista delle mie tettine, e adesso che tengo la testa sollevata e che i capelli non fanno più da schermo la vista è ancora migliore, scommetto. Il nostro è un incrocio di sguardi che dura un istante, ma è un istante di quelli in cui si capisce tutto. Mi rialzo lentamente, mi scrutano anche la poliziotta in sovrappeso che mi attende al varco con il metal detector in mano e il suo collega che mi aveva fatto cenno di togliermi le scarpe. E’ impossibile che non si siano accorti di nulla. Metto i sandali nella vaschetta e ripasso il varco, non prima di essermi sistemata shorts e maglietta con dei gesti al limite del lascivo. So di essere sotto gli sguardi di un discreto pubblico che mi osserva, molto probabilmente mi desidera, e la cosa – lo ammetto – mi piace e mi scalda.

Stavolta non squilla nulla, ovviamente. La poliziotta fa una faccia un po’ schifata come a dire “sei nuda, che cazzo devo controllare?”. Poi però, a differenza di quello che ha fatto con tutti gli altri in fila prima di me, mi ferma e mi dice “ehi ragazzina, dammi un po’ il passaporto”. Tiro fuori la carta di identità dalla tasca posteriore e gliela mostro, mentre lei mi chiede se ho diciotto anni. Le rispondo “diciannove il mese prossimo”, ma allo stesso tempo mi sento davvero cretina, come se mi avesse smascherata. La cosa però dura un secondo. Prendo i sandali dalla vaschetta e ripeto la stessa scena di prima, stavolta a beneficio di un tipo lì presente, che deve essere un altro poliziotto anche se è vestito in borghese. Recupero le mie cose e mi allontano sorridendo anche a lui, mordendomi leggermente il labbro inferiore.

Cammino fantasticando di essere la protagonista di una di quelle situazioni improbabili che si vedono nei video porno, bloccata e portata nella stanzetta delle perquisizioni, spogliata completamente e intimamente frugata dalle mani dei due poliziotti, mentre la loro collega tira fuori dalla camicia della divisa una tetta prosperosa e morbida e mi ordina di succhiargliela prima di stringermi in un abbraccio e baciarmi. Lasciando che i due maschi si mettano alle nostre spalle e ci fottano senza pietà né riguardo alcuno. E che il quarantenne laido che mi guardava mentre ero in fila entri nella stanzetta e si goda la scena sparandosi una sega. Ok, mi arrendo, lo ammetto: ho troppo bisogno, troppa voglia, tra gambe sono fradicia.

Cerco il mio volo sul mega-display e all’inizio non lo trovo, anche perché lo cerco su quello degli arrivi. Potrete capire la mia distrazione, no? Poi finalmente lo vedo, è delayed di mezz’ora. Innalzo al cielo il primo vaffanculo della giornata, un po’ bofonchiato visto che sono in mezzo a un sacco di gente, e torno subito me stessa.

Ok, pazienza, ne approfitterò per fare colazione. Cerco un bar e poco prima della cassa respingo le avances del tipo che prima mi osservava. E’ un caso o mi ha seguita? Mi chiede se può offrirmi la colazione e io gli rispondo con un “no, grazie, faccio da me” che spero proprio lo mandi a stendere. Porto cornetto e cappuccino freddo ai tavolini rialzati e invece accetto la compagnia di un ragazzo che mi chiede se c’è posto anche per lui. Non solo gli faccio spazio ma gli chiedo anche se non voglia dello zucchero, visto che il mio cappuccino è già zuccherato. Il tipo di prima mi guarda dal tavolino accanto al nostro, e spero proprio che lo faccia con cattiveria. Mi diverte farlo incazzare.

Il ragazzo invece è interessante. Abbastanza alto, con i capelli ricci e la barba un po’ rada. Bel viso e bel fisico, anche se un po’ palestrato. E questo contrasta un po’ con il suo look “alternativo”. Avrà meno di trent’anni. Mi dice che sta andando a trovare i suoi che vivono a Bellinzona prima di farsi un paio di mesi come volontario in un ospedale da campo della Croce rossa ad Haiti. Gli chiedo come cazzo gli vada di fare una cosa del genere e lui mi dice che è un infermiere laureato e che gli fa curriculum. Ah, ok.

A sua volta vuole sapere di me e io gli dico che sto andando a Nizza per il compleanno di una mia amica, una compagna di corso, e che ho appena finito la mia sessione di esami: due trenta e due trenta e lode, non faccio per vantarmi. E’ la stessa cazzata che ho raccontato ai miei. E’ vero che vado a Nizza ma lì non mi aspetta nessuna amica che compie gli anni.

Le cose sono andate così: un pomeriggio tardi in palestra, prima di ritornare a casa, cenare e rimettermi sui libri, sento il ding del WhatsApp dalla mia borsa. Ero, tra l’altro, completamente nuda perché mi ero appena tolta l’accappatoio. Apro il messaggio e ci trovo un biglietto di aereo. Ci metto una trentina di secondi a capire di cosa si tratta e soprattutto di chi cazzo si tratti, visto che il numero non l’ho in rubrica. Poi un altro ding: “Dimmi solo sì o no, che in caso confermo. Partenza venerdì, ritorno la domenica sera. L’albergo è questo”. Segue un link e poi il nome del mittente. Per qualche secondo non capisco più un cazzo, riesco solo a calcolare mentalmente che il biglietto è per il 13 luglio, tre giorni dopo il mio ultimo esame. Sono scossa dai brividi, i capezzoli mi diventano duri come chiodi e la fica mi si squaglia e si contrae. Tremo tanto da dovermi sedere e da non riuscire quasi a digitare, senza nemmeno pensarci, il mio “sì”. Ecco perché questa mattina sono a Fiumicino.

Con il ragazzo, alla fine, ci scambiamo i numeri di telefono. Proprio mentre sto salvando il suo sotto il nome “Tiziano Haiti”, cosa che lo diverte particolarmente, arriva un messaggio di Serena. Lo apro e c’è scritto “Buon viaggio! ps. troia!”, segue uno smile. Serena sa, solo lei sa. Non so perché sia l’unica cui l’ho detto. Non posso impedire che Tiziano lo legga e si metta a ridere. Mi chiede perché la mia amica mi chiami troia e io gli rispondo “ahahahah, no è perché ieri sera ho limonato con un tipo che le piaceva”. “Lavori in corso per una storia?”, chiede. E questa punta di gelosa curiosità mi fa piacere. “Ma no, non so nemmeno come si chiama”, è la mia replica. Non è vero un cazzo, ovviamente, è solo la mia ben nota capacità di inventare stronzate all’impronta. Il pomeriggio e la sera di ieri li ho passati dall’estetista e poi in palestra per sfogarmi perché non stavo più nella pelle. E poi a casa a passarmi lo smalto verdolino sulle unghie delle mani e dei piedi.

Prima di andare gli dico “Tizià, fatti sentire quando torni, magari una sera ci vediamo”. Lui mi risponde “certo, senz’altro” e io aggiungo scherzando “mi piacerebbe controllare se sotto quella maglietta ci sono gli addominali che immagino”. Lo dico a voce abbastanza alta, in modo che mi senta non solo lui ma anche il quarantenne accanto a noi. Il ragazzo fa una faccia un po’ così, non sa se prendermi sul serio o meno. Mentre mi allontano il quarantenne mi sibila “puttana” e io gli regalo un sorriso smagliante. Mi piacerebbe anche dirgli “sì, come l’hai capito?”, ma non ho tempo.

Da un certo punto di vista lo stronzo ha ragione. Sto proprio mettendo in pratica un’idea che mi frulla in testa da un paio di giorni, un gioco di ruolo. Non è la prima volta che lo faccio, chi mi ha letto nei precedenti racconti lo sa. Una sera mi sono fatta portare a letto da un tipo convinto di essere riuscito a traviare e a chiavarsi una ragazzina timida e innocente, vergognosetta. Scopata a parte, buona ma nulla di che, la cosa mi aveva divertita e mi ero ripromessa di farla ancora. Stavolta però il ruolo che mi sono cucita addosso sarà completamente l’opposto. Ed è anche il momento che lui lo sappia. Mentre sono in attesa al gate tiro fuori l’iPhone e gli scrivo: “Devi fare conto che per stasera hai ordinato una puttana in camera”, poi gli aggiungo nel dettaglio quali saranno, per così dire, le regole d’ingaggio. L’ok di risposta mi arriva proprio mentre, sull’aereo, sto spegnendo il telefono. Pochi secondi dopo che un signore seduto accanto a me abbia fatto finta di sfiorare, per sbaglio, la mia coscia con la sua. Me ne fotto, lo lascio fare e mi addormento prima del decollo.

Dall’aeroporto di Nizza all’albergo il taxi ci mette molto meno di quanto avessi immaginato, forse un quarto d’ora. Alla reception consegno i documenti in cambio della tesserina e salgo in camera. La stanza è di un certo lusso, ampia. Osservo il lettone e penso che per le due prossime notti quello sarà il mio patibolo. Calore al ventre e una contrazione. Mi metto nuda e stringo nella mano le mie mutandine bagnate. Mi affaccio al piccolo balcone così, sono all’ottavo piano ed è veramente difficile che qualcuno mi veda. E anche se qualcuno mi vede sticazzi. La vista è uno spettacolo: sotto di me la Promenade des Anglais, poi la spiaggia, poi il mare. Apro la valigia e recupero infradito e costume. Anche quello è una cosa che difficilmente avrei potuto mostrare a mio padre, almeno al momento dell’acquisto (se poi un giorno mi ci vedrà se ne farà una ragione). E’ molto semplice, nero. Due triangolini a coprirmi, per così dire, le tette, un altro a celarmi il pube, assai poco sopra il punto dove una volta mi arrivava la mia già ridotta peluria. A separare le natiche una striscia larga non più di tre centimetri. Mi rimetto gli shorts e una canottierina molto smanicata e che non mi arriva nemmeno all’ombelico. Scopro che l’albergo mette a disposizione una borsa da mare con dei teli da bagno, ci ficco dentro creme solari, portafoglio, telefonino e tesserina della stanza. Scendo, mi faccio dire dal concierge come faccio a trovare ombrellone e lettino. Parla un inglese schifoso ma alla fine ci intendiamo. Vado in spiaggia.

Ora, voi dovete sapere che a me piace moltissimo il mare ma che ho un rapporto difficile con il sole. Mi scotto con grande facilità, anche sotto l’ombrellone e con qualsiasi crema. A meno che non sia una protezione totale ma di quelle vere. L’ideale sarebbe il grasso di foca, ma capite bene... Quindi ogni volta che sto sulla spiaggia il primo rito è quello dell’incrematura. E finché si tratta delle gambe e del davanti, poco male. Anche le spalle sono facili. Per la schiena, se sono da sola e non c’è nessuno che mi aiuta, be’, per la schiena è sempre un casino.

Sono lì, seduta a gambe incrociate sul lettino, che mi contorco in ogni modo cercando di proteggere la mia pelle quando sento alle mie spalle una voce: “Ti serve un’altra mano?”.

Mi volto e vedo un ragazzo. Un tipo normale, carino anche, capelli un po’ lunghi, castani, begli occhi. Un fisico che si intuisce niente di che sotto una t-shirt dei Radiohead. A rendere tutta la sua figura un po’ buffa, un cappello di simil-paglia, bianco. Complessivamente non male, peccato solo che non sia molto alto. Un metro e ottanta, probabilmente meno. Ovviamente mentre lo osservo penso ciò che qualunque ragazza al mio posto penserebbe: “Questo ci sta provando”. Un attimo dopo mi ricordo che sono in Francia.

- Sei italiano o parli italiano?

- Guarda che qui è pieno di italiani. E’ pieno di milanesi del cazzo con le loro seconde case del cazzo...

A dire il vero, avrei giurato che fosse milanese. Ma si sa, noi romani di fronte e certe inflessioni tendiamo a dare la patente di milanese un po’ a tutti.

- Tu di dove sei? – gli chiedo.

- Di Milano, Porta Romana. E tu?

- Ah, ecco... io sono di Roma.

- Che zona di Roma?

- La conosci?

- No, mai stato.

- E allora che cazzo te ne frega, scusa?

Ho cercato di accompagnare l’ultima domanda con un sorriso ma evidentemente non è stato sufficiente. Lui si irrigidisce un po’.

- Sei sempre così scorbutica? – mi dice.

- Io non sono per niente scorbutica – rispondo. Ma tra me e me so di essere stata inutilmente aggressiva. Anche al di là delle mie intenzioni.

Il ragazzo fa una smorfia come a dire “insomma...”.

- Comunque sì, se mi spalmi la schiena mi fai una cortesia – gli dico quasi per farmi perdonare.

Mi stendo e lo lascio fare. Mentre mi passa la crema in posti che non avrei mai raggiunto ci presentiamo. Si chiama Mario. Mi spalma la crema e basta, senza fare cazzate. Ha un bel tocco, discreto. Gli domando se anche lui è all’albergo e lui risponde che mp, che era andato a comprare le sigarette e che stava ritornando al suo asciugamano steso sulla sabbia. “Sai, qui a parte gli alberghi la spiaggia è libera”. Finisce il suo lavoro e mi chiede se voglio che me la spalmi anche sulle gambe, gli dico che lì ho già fatto. Risponde “be’, peccato” e mi saluta. Ammetto che resto un po’ interdetta. Dopo qualche secondo però smetto di pensarci, sposto il lettino e mi stendo all’ombra. So perfettamente che la metà maschile della spiaggia si soffermerà a guardarmi il sedere. E perché no, anche qualche rappresentante della metà femminile. Ne sono consapevole da qualche anno e la cosa non mi dispiace per nulla, tutt’altro. Nemmeno me ne rendo conto che chiudo gli occhi e mi addormento. Deve essere successo in un lampo.

Mi sento scuotere e mi tiro su di scatto. La prima cosa che vedo, con la coda dell’occhio, è qualcosa di bianco che cade sulla sabbia. Poi, davanti a me, quasi a contatto, una t-shirt dei Radiohead che all’inizio fatico a mettere a fuoco. Una voce che mi fa “e finalmente, stavo per andare a prendere un secchio d’acqua per svegliarti!”. Ma che cazzo c’è, ma che cazzo vuoi? Ma perché non mi lasci dormire? Tutte cose che sto per dire e che senza dubbio direi se lui non mi anticipasse: “Hai la testa e le spalle al sole, ho provato a svegliarti ma...”. Sì, ok ho il sonno pesante. E sì, ok, scusa per quello che stavo per dire, anzi grazie. Ma tu chi cazzo sei, l’angelo custode? Anche questo non glielo dico, eh? E’ come se glielo comunicasse il mio sguardo interrogativo, però. “Ero venuto a chiederti se vuoi fare un bagno”. Uh? Il bagno? Ho fame, ma che cazzo di ore sono?

- Che ore sono?

- Non lo so, sarà l’una e mezza.

L’una e mezza? Dovrei andare a mangiare al ristorante dell’albergo, o almeno a chiedere. Non lo so, mi sono dimenticata di chiedere come funziona... Glielo dico ancora un po’ intontita, mi risponde con un “ma-dàai-rinfrescati-un-po’-che-poi-magari-mangiamo-una-cosa-insieme”. Va bene, è ufficiale, questo ci sta provando. Quando poi mi dice che i suoi non ci sono ma che la madre gli ha lasciato il frigo pieno di roba non solo capisco che ci sta provando, ma che ci sta provando proprio di brutto. Mi viene quasi da ridere, però un bagno non è una cattiva idea. L’acqua è invitante e io sono accaldata. “Ok, facciamo il bagno”, gli dico alzandomi e iniziando a sculettare verso il bagnasciuga mentre lui si sfila la t-shirt e la lascia sul lettino. Sotto i piedi la sabbia non scotta nemmeno tanto. L’acqua però è fredda e, come faccio sempre in questi casi, mi ci butto quasi subito, correndoci dentro. Mentre tiro fuori la testa dall’acqua ho già deciso cosa fare di questo povero illuso che si sta tuffando.

- Sei qui in vacanza?

- No, per lavoro.

- Che lavoro fai?

- Io sono una escort – rispondo guardandolo dritto negli occhi.

Colpito, quasi affondato. Mi guarda a bocca aperta cercando di fare il disinvolto ma con l’espressione di uno che ha appena preso un pugno nello stomaco. Di uno che pensava di condurre un gioco di seduzione e invece ora si trova di fronte a una cosa che non sa gestire. Mi chiede se lo stia prendendo in giro e gli dico di no. Per un momento, giurerei che sta per dirmi “ok, scusa” girare i talloni e andarsene, invece si riprende abbastanza in fretta e mi dice “ah, ok, cioè, lo fai di mestiere?”. Gli spiego che non è così, che sono una studentessa di matematica ma che, sai com’è, i soldi fanno comodo. Non è che stiamo male in famiglia, anzi, però certi piccoli sfizi, soprattutto in vacanza... Cazzate così, insomma.

Chiarisco, non ne so un cazzo del mondo delle escort. So che ci sono delle agenzie di ragazze che fanno questo lavoro e stop. Tutto quello che gli dico è frutto della mia natura di generatrice automatica di cazzate. Che quello sì, se fosse un lavoro, sarei ricca.

Mi domanda se è tanto che lo faccio e io gli dico di no, non tanto. Che questa è la quarta volta, la prima all’estero, ma che un tipo ha sentito parlare di me da un cliente e mi ha voluta, tramite agenzia. Mi domanda anche quanto gli costerà, al tipo, avermi con sé per il week end e io gli sparo una cifra che non so nemmeno io, boh, mi pare esagerata ma comunque la sparo: cinquemila euro, “sai, in genere sono duemila a notte”. Lui non sembra nemmeno tanto impressionato, anche se fa una smorfia come a dire “bella sommetta”. Magari non sa un cazzo di escort nemmeno lui. “Ma a te non fa nessuna impressione? Voglio dire, e se non ti piace?”. “Be’, è lavoro”, rispondo, sorprendendomi anche io della risposta e rabbrividendo un po’ all’idea di dover farmi scopare da uno che non mi piace, immaginandomi un vecchio grasso, calvo e sudato.

- Senti io però adesso andrei a mangiare, ho una fame assurda – gli dico anche per darci un taglio.

- Eh? Ah sì, ma no, davvero, se vuoi ti invito a pranzo da me – risponde Mario con un tono di chi spera che l’offerta venga rifiutata.

Ormai non poteva tirarsi indietro, ma lo sento un po’ intimidito. Inizio a divertirmi tantissimo. Esco dall’acqua prima di lui, il costume mi si è attaccato addosso e sembra anche più piccolo. Gli sto sculettando davanti agli occhi. Mi volto verso di lui e sotto i suoi boxer bagnati vedo distintamente la sagoma di un pisello che sta decidendo se impennarsi o meno.

- Va bene, accetto, vediamo cosa hai in frigo. Abiti lontano?

- Eeeeh no... saranno trecento metri... credo ci sia dell’insalata di pollo... – risponde sempre più imbarazzato.

Trecento metri sì, ma di salita. Gli faccio portare la mia borsa da mare e mi godo il suo senso di spiazzamento. E’ quasi dolce. Puntava a rimorchiare una ragazzetta, non metteva minimamente nel conto di portarsi a casa una puttana.

L'insalata di pollo è buonissima. Forse un po' giù di sale ma me ne mangio ugualmente due porzioni. Mario mi dice che a vedermi non si direbbe che sia in grado di mangiare così tanto, ma non è una novità: quasi tutti quelli che mi vedono mangiare me lo dicono. Del resto se sei alta uno e settantasei e pesi poco più di quarantasei-quarantasette chili è normale. Durante tutto il viaggio verso casa ha progressivamente preso confidenza con il fatto che io sia una escort, mi ha fatto un sacco di domande. Quando ho cominciato? Come? Chi mi ha fatto cominciare? Ho il ragazzo? Se lo sapesse che direbbe? Che cazzo ne so, ti ho appena detto che non ce l'ho il ragazzo! Comunque, quando posso dico la verità, sennò invento.

Sarà il caldo della sua cucina, sarà il sole preso, sarà il bicchiere di vino bianco freddo che ho buttato giù quasi d'un sorso, appena finito di mangiare inizio ad avere i calori. No, non quelli. Ho proprio la pelle che sembra un termosifone a gennaio. Gli domando se posso fare una doccia per togliermi il sale perché voglio mettermi la crema dopo sole. Mi rinfresco ed esco dal bagno avvolta in un asciugamanone, con in mano il costume ancora bagnato dall'acqua di mare. Non me ne sono portata uno di ricambio, pensavo di tornare in albergo. La prospettiva di rimettermi gli shorts a pelle mi dà un po' fastidio, ma mi sa che dovrò adattarmi. Prima però la crema, ne ho bisogno.

In camera mi ritrovo Mario davanti, a torso nudo. Gli dico che però mi piaceva la maglietta dei Radiohead e lui dice “anche a me, ma fa troppo caldo”. Restiamo a guardarci in silenzio qualche secondo. Lo osservo e lo trovo carino, se fosse un po’ più alto sarebbe davvero un gran figo. Anche se avesse gli addominali più definiti, a dire il vero. E le gambe un po’ più muscolose.

- Ehm... io sotto sarei nuda – gli dico mostrandogli il costume che tengo in mano e il flacone.

- Vuoi che ti aiuti con la crema?

- Ma no, dai. Grazie – rispondo nemmeno tanto convinta.

E’ ovvio che non smette di provarci, che cerca il contatto fisico. Probabilmente ci avrebbe provato comunque, anzi il fatto che gli abbia detto di essere una sgualdrina credo che almeno all’inizio lo abbia inibito. Mi chiedo piuttosto io cosa avrei fatto se non indossassi la mia maschera da zoccoletta e se non avessi un appuntamento questa sera. Non lo so. Probabilmente a quest’ora mi starei già facendo montare sul divano o sul letto dei suoi. O forse no. Chi lo può dire.

In questo momento però è una ipotesi da escludere. Me lo ripeto un paio di volte. L’ultima volta che me lo ripeto, dico a me stessa “al massimo un pompino”. Lo dico per allontanare il desiderio che mi sta salendo lentissimo, ma non faccio altro che procurarmi un brivido. Da quando mi sono svegliata ho pensato più volte a stasera, non vedendo l’ora che arrivasse al più presto. E questa è la situazione che, in un certo senso, si avvicina di più a quel desiderio.

- Ok – gli dico voltandomi di spalle – mettimela sulla schiena.

Mario non se lo fa ripetere. Il freddo della crema sulle mie spalle e le sue mani che la spalmano. Un momento dopo la sua voce che fa “cazzo!” e io che gli chiedo “che c’è?”. “Se l’è letteralmente succhiata”, mi risponde. E aggiunge anche l’effetto sonoro: “Slurp!”. Gli dico di non lesinare sulla crema e mi abbandono alle sue mani. Il suo massaggio è diverso da prima, più pressante. Quando mi dice di stendermi sul letto penso proprio che stia per giocare la sua ultima carta, ma so come gestirlo. Mi stendo e mi scopro fino alle reni, lasciando celato il sedere. Quel sedere che con tutta evidenza lo attira, lo attizza, visto che mi domanda, scusandosi prima, se con i miei clienti abbia avuto dei rapporti anali. E ti pareva.

- Solo con uno, non mi piace.

- E se non ti piace come fai, scusa?

- Sai com’è, è lavoro... – e questa è già la seconda volta che glielo dico.

- Mi stupisco che sia stato solo uno a...

Poiché la piega che la discussione sta prendendo non mi piace per niente cerco di tagliare corto. Lui capisce ma, per così dire, resta in zona. Si limita solo a cambiare argomento.

- Ti hanno mai legata?

Cazzo, no, non sono mai stata legata. L’ho visto solo nei video porno. L’ho visto e mi ha scatenato fantasie, così come me le scatena adesso. Un altro po’ di crema e ancora la sua mano sulla mia schiena. Mi piace, mi sta piacendo sempre di più. Va davvero a finire che glielo faccio questo pompino.

- Ma tu scopi solo per lavoro o ti capita anche...? – mi domanda.

Ma l’attacco è su due fronti, perché mentre me lo chiede mi abbassa l’asciugamano fino a scoprirmi il sedere.

- Ma sì, dipen... ehi che cazzo fai? Lì ci arrivo da sola!

- Va bene, dai... non è tanto diverso che in spiaggia – replica con il tono di uno che dice: “Fai sto mestiere e ti vergogni di farti vedere il sedere?”.

Solo che le sue mani incremate che mi scivolano sulle natiche, adesso, qualche brivido me lo provocano. Una mano sul sedere e una sulla schiena. Poi una mano sempre sul sedere e una che mi carezza i capelli. Alzo il livello della vigilanza. O almeno ci provo, non è più così facile.

Protesto quando sento la crema scivolarmi nel solco dei glutei. Protesto con un sarcastico “ehi, lì il sole non c’è arrivato!”. Ma se Mario coglie il sarcasmo, evidentemente se ne frega. Il suo dito mi scivola tra le chiappe e quando sfiora il buchino mi sento scuotere da un sussulto.

- Dai... – gli sussurro per dissuaderlo.

- Io non capisco come solo uno abbia voluto prendersi questo capolavoro – continua fregandosene delle mie proteste.

E’ chiarissimo dove voglia arrivare. Chiarissimo. Ora però non mi va più tanto di sottrarmi, soprattutto quando il suo dito inizia a tracciare dei micro circoli intorno al mio ingresso posteriore. A dispetto della mia ritrosia per quel modo, diciamo così, alternativo di scopare, lì dietro sono sensibilissima. Ansimo un po’. Quel dito deve essere il pollice, perché altre due dita della stessa mano adesso scivolano lungo le labbra esterne della mia vagina. Cioè, all’inizio sono le labbra esterne, poi arriva anche il turno di quelle interne. E’ la crema che le fa scivolare o sono io? Continua così per un po’, tra le mie proteste sempre più deboli. Ok, cazzo, te lo faccio questo pompino, penso tra me e me, te lo faccio proprio. Mi sfugge un gemito dopo una leggera pressione sul buchino, poi me ne sfugge un altro. Che scema che sono, mi ha proprio fregata. Idiota che sono. Troietta che sono.

- Fatti scopare...

- No...

- Perché?

- Perché non posso, devo lavorare... attacco alle sei...

- Attacchi? Come un’impiegata, una commessa...

- Sì...

- E allora?

- Non posso avere rapporti prima di andare con un cliente...

E’ l’ultima difesa che riesco ad alzare, l’ultima. Almeno quello no, e che cazzo. Per il resto, invece. Be’, che vi devo dire? Quelle dita mi stanno facendo impazzire.

- Dai... – miagolo.

- Dai cosa? – fa lui ironico e ormai padrone della situazione.

- Dai... – imploro.

- Cosa? Vuoi che ti scopo?

- No! No... quelle dita... Entra... affonda...

Che stronza. Ero sicura di gestirlo e ora sono qui a supplicarlo. E appena smetto di pensare questo lui spinge. Forte, in tutte e due le entrate. Spinge e urlo, affonda e urlo ancora di più. Per la sorpresa, per la voglia, per la foia.

- Il cazzo no, ma un dito nel culo ti piace, eh troia? Dimmelo che ti piace!

- Siiiiiiì – gli sibilo.

Cazzo, dai, dimmelo ancora che sono una troia, che anche quello mi piace da morire. Ripetilo ancora e ti dico tutto quello che vuoi, ma che ti ci vuole a capirlo? Dimmelo adesso...

Ma non lo fa, purtroppo. Però spinge sempre più forte e mi fa anche strillare sempre più forte. Mi fa strillare cose tipo siiiì.... oddioooo!”. E dovreste sentire la sua voce che diventa quasi sadica nel chiedermi “ti fa male, eh?”.

Sbagliato. Non mi fa male manco per niente, mi piace e basta. Anche il dito dietro, sarà la crema, è andato giù come un chiodo nel burro, nemmeno il bruciore ho sentito. Sono gonfiata, aperta, presa e stritolata dalle sue dita, la parete di carne pizzicata, quasi strappata. Se questo è il dolore, dio benedica il dolore. Ho due dita che sciacquano nella fica e un altro piantato nel sedere e sto bene, cioè che cazzo dico, dire sto bene è quasi dire nulla. Sto in un modo che non saprei definire. Posso solo dirvelo per come me la sento in questo momento: ho tutto il mondo fra le mie cosce. Lontano da lì non esiste nulla. E quel mondo a un certo punto, come se fosse risucchiato da un buco nero, si frantuma, esplode in una fiammata e poi si spegne. E io non so più dove sono.

Quando torno a rendermene conto, realizzo anche un’altra cosa. Che oltre ai brividi e ai tremolii che ho addosso, sto anche sbuffando, come se fossi in iperventilazione. Ansimo come un mantice per un minuto buono cercando di riprendermi. Le scosse del mio corpo rallentano progressivamente mentre le sue dita sono ancora dentro di me. Cazzo, quanto mi piace questo trattamento, credo che il primo (e unico sinora) a farmelo sia stato un ragazzo di Zagabria che mi aveva rimorchiata su un treno e che mi ha scopata per due sere di seguito. Quando Mario sfila le dita lancio un urletto, una sensazione di vuoto si impossessa di me. La vagina e il buchetto pulsano. Dentro di me due sentimenti si accapigliano: quello esaltante di essere stata usata e quello deprimente di essere inutile. E io in questo momento non voglio sentirmi inutile.

- Adesso dovrei farti un pompino, sai?

Dico proprio così, "dovrei" non "vorrei". Naturalmente non è che non desideri assaggiargli il cazzo, ma in questo momento è come se il senso del doverlo fare prevalesse.

- Ma io un tuo pompino non me lo posso permettere - ride lui. E non capisco se nelle sue parole ci sia ironia o scherno per la mia condizione di puttana. Più scherno, direi. In ogni caso, mi stanno bene entrambe le interpretazioni.

- Ma te l'ho detto prima che "attacco" alle sei... - sorrido - in questo momento non sto lavorando...

Mi rialzo mettendomi quasi a sedere sul letto. Mario indossa ancora i pantaloncini da bagno. Porto lo sguardo su quella che, lì sotto, è inconfondibilmente una erezione. Benissimo, sono pronta ad assaggiare un nuovo cazzo. Anzi, pronta è un eufemismo. Ora come ora sono proprio golosa. Come da bambina lo ero per i chupa chups. Lo so, la differenza non è poi molta, ma non fate pensieri osceni. Ero solo una bambina.

Mi tiro su, lo prendo per una mano e lo faccio alzare. Quando è in piedi lui mi inginocchio io. Sono pronta e penso proprio che la cosa sia reciproca. Slaccio la cordicella e gli abbasso il costume allargando l'elastico. Mi si presenta un cazzo normalissimo, nella media, che aspettava solo di essere liberato per crescere fino al suo limite.

Lo annuso, sa di mare e di maschio. Lecco la punta e sa di sale. Lecco ancora, piccoli colpetti sempre più verso la base. Piccoli affondi quando lo accolgo in bocca. Lenti passaggi della lingua sui coglioni. Il suo fremito mi eccita, come la sua consistenza. Torno a bagnarmi, eccome se torno a bagnarmi. So che a breve sentirò un rivolo di me stessa colarmi tra le cosce. Lui ansima, è totalmente in mio potere, nella mia disponibilità. E’ il momento di dare due rapidi affondi. Non ho nessuna difficoltà a imboccarlo completamente e ad affondare il naso nei suoi peli pubici. Lui rantola ma io rallento perché non voglio che arrivi troppo in fretta. Cazzo, anche io avrò diritto di godermelo, no? Avrò diritto di godere delle sue pulsazioni e dei suoi gemiti. Crolla all’indietro sul letto, con i piedi per terra, mi costringe ad avanzare un po’ sulle ginocchia per sistemarmi meglio a mia volta. Adesso lo pompo proprio, è proprio un su e giù sul suo cazzo lubrificato dalla mia saliva. Le mie mani scivolano sul sudore del suo petto e del suo ventre. Sto sudando anche io, fa davvero un caldo infernale in questo appartamento. Lascio che mi metta una mano sulla nuca e che si illuda di essere lui a dettare il ritmo, di essere lui a scoparmi la testa mentre mi dice che sono una troia e una pompinara. Crede di prendermi, e in realtà è così. Ma sono anche io a prendere lui. E questa è gioia pura, è un piacere che mi strappa gemiti soffocati dalla sua carne e che rende il suono dei miei succhi e risucchi sempre più rumoroso. I miei gorgoglii si fanno sempre più osceni, così come l’accenno dei conati. Le mie mani passano sempre più velocemente dal suo petto e dal suo ventre al mio viso, a ricacciare indietro la ciocca resa ribelle dal dondolio della testa. E’ allo stesso tempo un gioco di carne calda e di scambio mentale di ruoli che ho fatto non so più nemmeno io quante volte. Così come non so più nemmeno io quante volte ho sentito il respiro accelerare e il cazzo vibrare sempre più forte. Sento che si agita e che mi spinge giù la testa sempre più freneticamente. Ripete “vengo, vengo” come se volesse avvisarmi, darmi una chance di sottrarmi. Figuriamoci. Alla fine esplode. Un cazzo impazzito in bocca, gli spasmi dei suoi muscoli addominali, il liquido bollente che si riversa dentro di me, il suo sapore che non è così acre, gli schizzi a ripetizione. Due, tre, quattro, dopo un po’ il quinto. Non smettere, è la preghiera silenziosa che rivolgo sempre in questo momento al maschio che sto spompinando, soprattutto se è un perfetto sconosciuto. Non smettere perché ho sete di te e potrei non averne mai più come adesso.

Quando il suo respiro si calma e riapre gli occhi, apro la bocca per fargli vedere ciò che sono riuscita a non buttare giù, immediatamente dopo la richiudo e con un sorriso deglutisco, fissandolo. Devono sorridermi anche gli occhi, perché sto davvero bene.

- Credevo che le puttane non ingoiassero... – è la prima cosa che riesce a dirmi sto scemo...

Cioè, diciamocela tutta, avrebbe potuto essere più carino. Tuttavia l’idea di essere ai suoi occhi solo una mignotta non è che mi dispiaccia poi tanto. Il fatto è, però, che la sua osservazione un po’ mi destabilizza. Oddio, e ora? Davvero è così? Davvero le puttane non ingoiano? Resto per un paio di secondi imbambolata a guardarlo, poi decido che non è certo questo che può mettere in difficoltà una come me.

- Non so... forse le puttane che conosci tu... – gli rispondo facendo gli occhi più da cerbiatta che ho – Slurp!

Non avrà mica pensato che mi fossi dimenticata dell’effetto sonoro, no?

Mentre sta per protestare e dire che lui a puttane non c’è mai stato, me lo riaffondo in bocca per ripulirlo con delle succhiate e dei colpi di lingua così profondi che gli provocano un paio di scosse epilettiche. Geme e si contorce prima di sospirare un quasi comico “che pompino!”. Sensibile, il ragazzo.

Risalgo sul letto e mi sdraio sul fresco delle lenzuola. Non che me ne freghi un cazzo, ma mentre lui allunga una mano sulle mie tette e mi dice “dai, fatti scopare” a me non viene nulla di meglio da pensare se il lato su cui mi sono sistemata sia quello del padre o quello della madre. Gli rispondo “no dai, ti ho detto che non è possibile” e sistemo la sveglia dell’iPhone sulle diciassette e trenta. Mi volto verso di lui e lo accarezzo, “sono stanca, fammi riposare un po’”.

In albergo me ne torno da sola, la strada è semplice: basta camminare giù fino alla Promenade. Voleva accompagnarmi ma l’ho dissuaso dicendogli che forse sarebbe stato il caso di rimettere un po’ a posto. Gli ho anche detto con un sorriso di farsi sentire se capita dalle mie parti, “magari quel giorno non lavoro”. Mi va di stare da sola. Penso che oggi ho scambiato il telefono con due ragazzi e che a uno dei due ho anche succhiato il cazzo dopo essermi lasciata scopare con le dita. Penso che la tela di jeans degli shorts così stretti mi da un po’ fastidio e che forse il costume si era asciugato e tanto valeva metterselo. Penso che il meglio deve ancora venire. I capezzoli sembrano voler bucare la canottiera così corta che il sole batte sulla mia pancia, così smanicata che se allargassi un po’ le braccia mi si vedrebbero le tette. Mi sento davvero una zoccoletta e mi sento benissimo.

Risalgo in camera e stavolta mi concedo una doccia un po’ più lunga. Mi asciugo sommariamente lasciando le orme dei piedi bagnati sulla moquette. Vado alla porta finestra e la apro. Prendo una sedia, la porto sul balconcino e mi piazzo lì, ancora una volta completamente nuda e con le gambe oscenamente spalancate sopra la ringhiera. Finisco di asciugarmi ai raggi dell’ultimo sole e mi fumo la sigaretta che mi sono fatta regalare dal ragazzo. Rientro, tolgo il pesante sovracoperta e mi stendo sul letto. Mi addormento ancora.

Mi sveglia il ronzio della serratura e l’aprirsi della porta. Mi sento improvvisamente languida e vigile allo stesso tempo. Il respiro mi si ferma per un po’ e sento i battiti del cuore. Lo vedo che entra, vedo la sua figura imponente e slanciata, vestita di un completo blu elettrico leggero, con la cravatta leggermente allentata. I capelli più corti dell’ultima volta che l’ho visto.

Entra e so perfettamente cosa vede: una ragazzina bionda, nuda, magra, lunga. Con le cosce spalancate e le ginocchia in alto. Il pube completamente glabro e il sesso esposto, offerto. Calore, un brivido e una contrazione mentre mi osserva in silenzio per un paio di secondi. Vorrei proprio che si ricordasse quello gli ho scritto stamattina, la password del mio gioco di ruolo, la frase di ingaggio.

- E tu chi sei, ragazzina? – chiede con un ghignetto ironico.

- Sono la puttana del Capo.


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scritto il
2019-10-17
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